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Libia

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(24 Febbraio 2011) Enzo Apicella
Libia: rivolta di popolo o guerra per il petrolio?

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Chi ha paura della rivoluzione in Libia?

(10 Marzo 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

“I disordini mediorientali non devono culminare in regimi rivoluzionari.
Il loro idealistico romanticismo dei moti può venire rimpiazzato da un Robespierre o da un Lenin”
Barak, Ministro della Difesa israeliano

Secondo la vulgata il marxismo è accusato di avere troppa fiducia nella natura umana. E' un'accusa che respingiamo cordialmente. Ci sforziamo di considerare l'essere umano nella sua materialità: spinto alla conservazione o al progresso dalle stesse condizioni sociali in cui sviluppa la propria coscienza.

Però, sì, una cosa è vera. Noi marxisti riteniamo fermamente che tali condizioni sociali possano mutare rapidamente l'inerzia, accumulata in decenni o addirittura secoli, in movimento. Riteniamo che questo processo possa essere in occasioni rare talmente forte da generare sbalzi improvvisi, nella coscienza degli individui, nei rapporti tra le classi, cancellando in pochi giorni Stati e regimi. Questi momenti sono rari, ma solo nel senso che hanno spesso bisogno di una lunga incubazione per il proprio sviluppo. Sono le rivoluzioni, il reale motore della storia. Le rivoluzioni stanno al marxismo come un'eruzione sta alla vulcanologia, un terremoto alla teoria della tettonica a zolle. Un vulcanologo non cessa di classificare un vulcano perché non erutta da secoli, un sismologo registra le piccole scosse che preparano enormi terremoti. Così noi siamo rivoluzionari, comprendendo come i momenti di inerzia preparino le contraddizioni che portano ad un'esplosione rivoluzionaria. Il nord Africa che abbiamo conosciuto finora non esiste più. E non è stato cambiato da nessuna forza se non dal puro intervento delle masse sulla scena politica. Quelle stesse masse, grezze, disorganizzate, inconsapevoli, sono oggi la forza più viva sulla faccia della terra. E, sì, tutto questo conferma che la politica rivoluzionaria è la cosa più reale che ci sia al mondo. Assistiamo però ad una strana distorsione. Una distorsione che altro non sappiamo che classificare come figlia delle sconfitte e preparatrice di nuove sconfitte. Per chi si è abituato a concepire il comunismo come puro spirito di apparato, come la parola del leader onnisciente, come i gradi di un generale pluridecorato o come un sistema tenuto in piedi da un potente apparato di servizi segreti, le masse sono semplicemente incapaci di autonomia, di coscienza propria, un proprio coraggio e perfino una propria capacità di costruzione. La distorsione consiste in questo: correnti di pensiero nominalmente comuniste nemmeno riescono a riconoscere una rivoluzione. La storia non è mossa dal movimento di massa, ma dal complotto di potenti apparati. Se un popolo si sveglia, qualcuno deve aver tramato perché questo accadesse. Se un apparato statale crolla, questo deve avvenire per il complotto di un altro apparato statale. Così si spiega quindi cosa avviene in Libia. Così, però, cessa di essere spiegabile qualsiasi processo rivoluzionario, la cui caratteristica è proprio quella di distruggere il potere esistente senza possedere nessuna arma iniziale che non sia la mobilitazione delle masse. Se poi si considera che ogni potere reazionario è in contraddizione con altri poteri altrettanto reazionari, la rivoluzione può sempre apparire come un gioco delle parti. La rivoluzione del 1905 indebolì la Russia contribuendo alla sua sconfitta contro il Giappone. La rivoluzione del febbraio 1917 diede il potere ad un Governo guidato da un principe zarista. E in fondo la rivoluzione dell'ottobre 1917 non favorì gli imperi centrali, Austria e Germania, liberandoli da un fronte di guerra? Per anni la vulgata nazionalista ha presentato l'intera rivoluzione russa come un complotto del Kaiser tedesco, con Lenin inviato appositamente a scatenare il crollo dell'impero nemico. Il paradosso è questo: Stati che non sono sufficientemente forti per sconfiggere i propri avversari, diventano onnipotenti al punto da telecomandare milioni di persone, tanto da preferire scatenare una rivoluzione piuttosto che vincere una guerra. Noi non neghiamo che l'imperialismo abbia tra le sue armi la propaganda, né che questa propaganda in alcuni casi possa prevedere lo sviluppo di finti partiti, movimenti politici e persino proteste di piazza. E' il caso del movimento di opposizione a Chavez nel 2002 o della rivoluzione arancione in Ucraina. Ma la consistenza di questi movimenti si commenta da sola. I pagliacci anti-chavisti non avrebbero resistito ad un bombardamento di pernacchie, figuriamoci a quello dell'aviazione regolare. Il coraggio e l'isteria dei movimenti eterodiretti dall'imperialismo è proporzionale alla rete di soldi, squadracce malavitose, clamore mass-mediatico che li circonda. Senza questi elementi, si sciolgono come neve al sole. Tali movimenti hanno sempre e solo una regola: la massa deve rimanere passiva anche quando appare in mobilitazione. Deve manifestarsi rapidamente con clamore mediatico per poi sparire nel nulla lasciando campo agli specialisti del golpe. Se tra l'altro una intera popolazione fosse disponibile a farsi mobilitare alla morte contro una società o un Governo, rimarrebbe in ogni caso da spiegare come questa società abbia permesso simile sviluppo. E' questo quello che vediamo in Libia? Lo Stato si disgrega Questo articolo non ha la pretesa dell'ultima ora. Mentre scriviamo lo scontro è nelle strade di Tripoli. Il regime di Gheddafi non è ancora caduto, ma poco o niente lo potrebbe salvare. Gheddafi ha un maggior grado di indipendenza dall'imperialismo. Senza dubbio. Ma questo lungi dal rendere la situazione più controllabile per l'imperialismo stesso, l'ha resa più complicata. Gli Usa da tempo tramavano per rimuovere Mubarak. I documenti di Wikileaks lo dimostrano. Ma lo facevano non per preparare una rivoluzione, ma per prevenirla. Dopo una serie di tentennamenti hanno pregato Mubarak di andarsene per non radicalizzare la rivoluzione stessa. Con Gheddafi questo non è stato possibile. Gli interessi economici della cricca di Gheddafi sono strettamente collegati al controllo del potere politico in Libia, alla possibilità di usare questo potere per contrattare gli accordi petroliferi o sul flusso migratorio. Questo spiega la ferocia con cui il regime ha deciso di resistere. E l'ha dovuto fare basandosi su due elementi tipici di chi non ha appoggio tra la popolazione: l'aviazione e l'utilizzo dei mercenari. Il bombardamento aereo è tipico di chi non può sostenere lo scontro sul terreno. E' un'arma più consona in verità ad un esercito straniero di occupazione. Sono stranieri del resto i mercenari di cui il “patriota” Gheddafi si sta servendo. Ne sarebbero arrivati 4mila solo il 15 febbraio. Aviazione e mercenari sono accomunati da un elemento: per ragioni logistiche o di lingua non entrano in sintonia con la folla. Sono quindi gli ultimi settori repressivi su cui basarsi. L'imperialismo comprende cosa significhi questo: sotto i colpi di questa resistenza insensata, Gheddafi non sta favorendo la difesa dello Stato ma al contrario ne sta accelerando la disgregazione. Gli Usa e l'Europa sono interessati a rimuovere Gheddafi, ma desiderano un apparato statale su cui appoggiarsi. Ecco perché tanta fretta nelle condanne, nel provare a stringere legami immediati con qualcuno degli insorti sul campo. Ma per il momento l'apparato statale è in pieno disfacimento. Lo è ai vertici, dove addirittura si sta ammutinando la ristretta cerchia dirigente attorno a Gheddafi: martedì si sarebbe dissociato da Gheddafi anche il Ministro degli Interni. Lo è soprattutto nelle zone liberate. Esiste quasi una legge. Tanto più settori dello Stato tardano a differenziarsi da un regime e a rimuoverne il vertice con una riforma o una congiura di palazzo, tanto più un movimento popolare tende a identificare il regime con lo Stato e rimuovendo uno, fa piazza pulita anche del secondo. Così si può dire che rivoluzione e semplice cambio di regime sono spesso due processi paralleli in cui uno cerca di battere l'altro sul tempo. Tutti gli organi di informazione descrivono le zone dove il regime è crollato come prive di Stato. L'ordine è garantito da comitati rivoluzionari, le armi sono in mani ai civili che le usano al servizio delle decisioni collettive di tali comitati. Il Sole 24 Ore di oggi – venerdì 25 febbraio – descrive così Bengasi: “i comitati popolari che hanno assunto l'amministrazione di diversi quartieri del centro, riescono a mantenere l'ordine e la sicurezza. Numerosi i soldati e i poliziotti passati dalla parte degli insorti. (...) Alle porte della città ci si imbatte nel primo check-point di militari. Ci consegna due volantini: 'Cari fratelli mussulmani, sparare in aria spaventa donne, anziani e bambini ed è pericoloso.' Il documento avverte sulle conseguenze dell'uso improprio di armi leggere e pesanti in mano a giovani inesperti, consiglia di consegnare le armi ai comitati della rivoluzione e conclude dicendo di salvare le munizioni per fronteggiare un eventuale attacco. 'Ce lo aspettiamo ma saremo pronti' conclude un avvocato che, ancora vestito con la sua toga, da qualche giorno si è improvvisato vigile urbano.” Gheddafi anti-imperialista? Che ragione avrebbero gli imperialisti per mettere in moto un simile processo? Gheddafi non era – l'abbiamo già detto – un loro pupazzo. Li costringeva a pagare dazio per fare affari in Libia. Ma questi affari si facevano e mai come ora profumatamente. Dal 2003 la Libia ha stretto più che mai i propri legami con l'imperialismo, con piani per privatizzare 360 aziende statali. Nel 2006 la Libia ha chiesto di entrare nell'Organizzazione mondiale del commercio. La penetrazione del capitale straniero ha rapidamente accelerato negli ultimi due anni e mai come in questo momento necessitava della stabilità del regime per approfondirsi. I recenti trattati tra Italia e Gheddafi, inaugurati dal centrosinistra e resi folcloristicamente noti al grande pubblico da Berlusconi, ne sono solo una dimostrazione. Il Pil libico dipende per il 60% dalla produzione petrolifera. Consulenti economici internazionali avevano iniziato a invadere la Libia per sviluppare gli altri settori dell'economia. In particolare il turismo aveva grandi margini di crescita. I rapporti economici erano reciproci e mutui. La famiglia Gheddafi si poneva come intermediaria della rapina del proprio paese da parte dell'imperialismo e investiva i guadagni “di commissione” nelle stesse imprese occidentali. Simile processo è ben visibile in Italia visto che, per una volta, il nostro imperialismo era ben sistemato al banchetto. Secondo la Marcegaglia, il capitale italiano esporta in Libia per 2 miliardi e mezzi di euro ed importa per circa 10 miliardi. L'Italia dipende per il 24% dal petrolio e per il 12% dal gas proveniente dalla Libia. Impregilo è impegnata per contratti per oltre 1 miliardo di euro nella costruzione di infrastrutture in Libia e Federmeccanica afferma che l'1% dell'intero settore dipende dalla Libia. A sua volta la famiglia Gheddafi attraverso il fondo di investimento Lia (Lybian Investment Authority) possiede il 2% del capitale di Finmeccanica, il 14% della Retelit -società di Telecom Italia -, il 7,5% della Juventus e ben il 21% di Olcese. Si calcola che solo un trentaseiesimo degli investimenti effettuati in Libia sarebbero assicurati. Per il capitale il regime di Gheddafi era una certezza priva di rischi. Eppure il regime libico mantiene una confusa fraseologia rivoluzionaria e antimperialista a cui Gheddafi non ha rinunciato nemmeno in questi giorni. Ma questo, lungi dallo spiegare la natura attuale di questo regime, ne spiega le origini. Secondo la leggenda, il giovane colonnello dell'aviazione, Gheddafi, sarebbe stato incaricato di accompagnare in volo dei dignitari libici ad un ricevimento di una compagnia petrolifera nel deserto. Al ricevimento sarebbe rimasto colpito dallo sfarzo e dal servilismo dei funzionari libici, decidendo di effettuare un colpo di Stato. Così tra il 31 agosto e il 1 settembre 1969 depone Re Idris. Il nuovo regime è ispirato dal panarabismo progressista di Nasser e procede immediatamente alla nazionalizzazione delle risorse petrolifere, costringendo negli anni tutte le grandi compagnie a ricontrattare sulla base di nuovi rapporti di forza la loro penetrazione nel paese. Regimi come quello di Gheddafi rispondono in maniera distorta ad una legge storica. Nei paesi capitalisticamente meno sviluppati, lo sviluppo economico nazionale può essere assicurato solo nella lotta contro l'imperialismo. Ma quest'ultimo non è nient'altro che il mercato capitalista nella sua fase suprema di sviluppo. Ecco perché non vi può essere alcuna lotta contro l'imperialismo che non tocchi i meccanismi stessi del mercato. Ecco perché una rivoluzione anti-coloniale o anti-imperialista può vincere solo se si trasforma senza soluzione di continuità, in modo permanente, in una rivoluzione di natura socialista. Gheddafi non è l'interprete cosciente di questo processo, ma ne è l'espressione distorta. E' il prezzo da pagare perchè la rivoluzione coloniale non sia stata portata avanti da forze classicamente comuniste. Ma se Gheddafi è solo la distorsione di una legge storica, a questa legge non può comunque sfuggire. Oggi il suo regime non crolla perché troppo avverso all'imperialismo, ma perché ad esso troppo legato. La maggiore penetrazione del capitale internazionale ha reso la Libia più dipendente dalla crisi internazionale del capitale. Vi sono diverse tesi paradossali tra chi sostiene che gli Usa avrebbero preparato a tavolino la rivoluzione: le rivolte sarebbero causate dall'inflazione scoppiata a causa della stampa di carta moneta effettuata dalla Federal Reserve per far ripartire l'economia. E' vero, ma questo lungi dal dimostrare l'esistenza di un piano cosciente, dimostra che lo stregone imperialista ha perso il controllo delle forze da esso generate. Ogni rimedio alla crisi ne prepara un'altra. Saremmo dunque di fronte alla preparazione di un intervento militare? Diversi commentatori lo affermano. Noi non siamo nella testa degli strateghi americani o europei, ma una guerra o un'occupazione militare della Libia sarebbero una follia, anche dal punto di vista imperialista. Innanzitutto nemmeno gli Usa hanno la forza o le risorse umane per sostenerla. Spendono 7 miliardi di dollari al mese solo per la propria presenza in Iraq e Afghanistan. Ma soprattutto lo sbarco di un solo reparto di soldati americani radicalizzerebbe la rivoluzione in tutto il nord Africa. È molto più probabile che vi sia un tentativo di penetrazione più mirato, mascherato da operazioni di polizia, difesa degli stabilimenti produttivi stranieri o con missioni umanitarie per portare beni alimentari o medicinali. Detto questo, i comunisti saranno in prima fila nell’opposizione ad ogni intervento imperialista in Libia, Tunisia, Egitto e in ogni altro paese del mondo arabo. Un intervento della Nato, tuttavia, cercherebbe in prima istanza di reprimere l’insurrezione in Bengasie in tutte le altre città che si sono rivoltate contro Gheddafi, per ristabilire l’ordine capitalista. E dopo? Tutti i principali commentatori borghesi denunciano la possibilità che sulle macerie del regime libico avanzi il fondamentalismo islamico e la disgregazione statale della Libia. Il sociologo Khaled Allam, ex esponente del Pd e ora in odore di Terzo Polo, con diverse apparizioni su Libero e Il Giornale, tuona dalla colonne del Sole 24 Ore: “La frammentazione tribale ed etnica può portare alla secessione e favorire l'infiltrazione di Al-Qaeda”. Curiosamente è ciò che va dicendo anche Gheddafi. L'organo di stampa della Confindustria si dichiara preoccupato per il fatto che il nuovo che avanza nei paesi arabi si possa intrecciare con il vecchio: lo scisma millenario tra Islam sunnita e sciita. Noi non neghiamo in assoluto questa prospettiva. Solo diciamo questo: in bocca della borghesia, queste non sono preoccupazioni ma minacce. La borghesia gioca qua un doppio ruolo. Con una mano suona l'allarme e con l'altra è pronta ad appiccare il fuoco. La disgregazione territoriale, con la scissione della Cirenaica dalla Tripolitania, il fanatismo religioso o tribale sono esattamente le carte che l'imperialismo giocherà per deviare questa rivoluzione dalle sue basi sociali. Questi scenari non si affermerebbero come figli legittimi di questa rivoluzione, ma come prodotto di una sua sconfitta. In diversi a sinistra in questi giorni agitano il rischio di un modello 1979 iraniano: una rivoluzione sociale scippata e dirottata da un mostruoso regime teocratico. Ci si permetta di notare di sfuggita il cortocircuito logico. Gli stessi gruppi stalinisti che sostengono il regime iraniano in nome del suo ruolo antimperialista, denunciano in Libia il rischio di un nuovo 1979. Ciò che successe nel 1979 non fu il portato naturale di quella rivoluzione, ma il risultato degli errori del partito comunista iraniano nel corso della rivoluzione stessa. Nel nome della teoria delle due fasi, delle unità anti-imperialiste, il partito si alleò e aprì la strada alle forze fondamentaliste. Oggi queste rivoluzioni fanno ulteriormente piazza pulita di queste teorie. La rivoluzione partita in Tunisia non si è riflessa in un rafforzamento di Gheddafi o del Governo iraniano, ma in un loro indebolimento. Questi regimi tremano di fronte alla rivoluzione alla pari dei fantocci americani in Arabia Saudita o in Baharain. E questo la dice più lunga di qualsiasi trattato di geopolitica. E Israele? Non dovrebbe forse gioire nel vedere la Lega Araba scossa da simili convulsioni? Israele è impaurita tanto quanto la monarchia saudita. Prova a esorcizzare la paura gridando al pericolo iraniano. E l'Iran attraversa il canale di Suez con proprie navi militari. Ma entrambi i paesi cercano solo di tornare alla propria normalità, dirottando l'attenzione dal fronte sociale a quello militare. Riconoscere la rivoluzione per quello che è non ci serve a vincere una disputa teorica, ma a imbastire un'azione e una prospettiva pratica. Tutte le forze mondiali si getteranno sulla rivoluzione libica per spingerla su un sentiero piuttosto che un altro. Sarebbe paradossale che i comunisti non facessero altrettanto. Dopo la liberazione politica, i movimenti in nord Africa inizieranno a porsi il problema della liberazione sociale. Chi ha messo in discussione la propria vita non l'ha fatto per tornare in quartieri con il 70% di disoccupazione, privi di scuole e università, con stipendi che arrivano a 400 dollari mensili per un ingegnere. La rivoluzione passerà in maniera permanente dalla lotta contro il vecchio regime, a quello contro l'imperialismo e contro la propria stessa classe dominante. In Tunisia ed in Egitto questi sviluppi appaiono sicuramente più classici ed evidenti che in Libia. Noi non sappiamo se queste rivoluzioni vinceranno. L'ostetrica non sa fornire le analisi del bambino durante il parto e tanto meno ipotizza il suo futuro scolastico o lavorativo. Si preoccupa innanzitutto di favorire il parto.
25 febbraio 2011

Dario Salvetti - FalceMartello

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