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Intervento di Francesco Ricci nel dibattito sulla nonviolenza

Il testo integrale della lettera pubblicata da Liberazione il 23/1/2004

(23 Gennaio 2004)

Caro Curzi, leggo stamattina su Liberazione un intervento sulla non violenza che riporta la mia firma. E' in realtà quanto resta di un testo che vi ho inviato e che avete pubblicato con una quantità tale di tagli da renderlo un proclama apodittico, privo di argomentazioni. L'intervento che vi avevo inviato era certo più lungo di una lettera ma ben più breve della gran parte degli interventi di altri dirigenti nazionali del partito che avete pubblicato, anche oggi; ed era tra l'altro il primo intervento in questo dibattito di un dirigente della minoranza. Perché dunque questi tagli scriteriati? Temo sia l'ennesima conferma che il dibattito sul giornale del partito è limitato ai militanti e ai dirigenti della maggioranza. Ti chiedo quindi di ripubblicare l'intervento nella sua interezza o perlomeno questa mia necessaria precisazione.

saluti comunisti,

Francesco Ricci
(vicepresidente Collegio Nazionale di Garanzia)


Il dibattito sulla nonviolenza va affrontato, credo, sia dal punto di vista teorico, sia indagando il legame con le scelte politiche che si compiono. Un lavoro che meriterebbe la convocazione di quel congresso straordinario che migliaia di militanti del partito chiedono con la sottoscrizione della petizione promossa dal compagno Marco Ferrando.



1) Dal punto di vista teorico la questione investe problemi immediati, perché le classi dominanti oppongono la violenza dei loro apparati alla crescita dei movimenti mentre il dogma "nonviolento" prescrive la rinuncia persino a ogni forma di autotutela dalle aggressioni poliziesche nelle manifestazioni; e investe problemi strategici, perché nessuno ha finora indicato un modo diverso dalla violenza rivoluzionaria delle masse per affrontare la resistenza che storicamente la borghesia contrappone a ogni processo rivoluzionario, resistenza che si concretizza nel ricorso alle "bande armate a difesa del Capitale" (l'espressione è di Engels ma pare coniata per i carabinieri in azione tanto a Genova come a Nassyria).

Leggiamo della presunta necessità di "superare il Novecento" e certe "sue" categorie. In realtà è da tre secoli che nel movimento operaio si confrontano due tesi il cui nucleo non è la legittimità o meno dell'uso della violenza, bensì la volontà o meno di perseguire il progetto comunista: il tema della violenza è secondario (nel senso di conseguente) a ciò.

Il vecchio Marx (in una lettera a Bolte del novembre 1871) definiva il progetto comunista come il movimento politico della classe operaia "che ha, naturalmente, come fine ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa". Ed è a partire da questo obiettivo che tanto l'"ottocentesco" Marx quanto il "novecentesco" Lenin si ponevano il problema della forza. Marx sosteneva che l'"altro mondo" che i comunisti vogliono costruire non potrà basarsi sui rapporti di produzione capitalistici e quindi sulle forme istituzionali sorte per tutelare un sistema economico basato sulla divisione in classi della società. Di qui la necessità di "spezzare" (e non "riformare") la macchina statale borghese per sostituirla con altre istituzioni corrispondenti al nuovo dominio di classe (la Comune). E di qui la necessità -già indicata nel Manifesto del '48- di affrontare l'inevitabile resistenza delle classi dominanti, preparando le masse a questa prospettiva confessando "apertamente che gli intenti [dei comunisti] non possono essere raggiunti se non per via della violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale". Un obiettivo che può essere perseguito solo costruendo l'opposizione di classe a qualsiasi governo borghese (fosse pure "di sinistra"): non per un moralistico rifiuto del potere, ma perché la sconfitta di ogni eventuale illusione dei lavoratori in governi "progressisti" è il presupposto della realizzazione di un governo "della classe operaia per la classe operaia".

Chi pretende di "superare" questa "concezione classica" deve quindi dirci non tanto dove butterebbe Marx (cosa che ad altri può importare poco) ma piuttosto spiegarci se ritiene che il comunismo corrisponda ancora all'"esproprio degli espropriatori" e come pensa di convincere gli Agnelli, i Berlusconi e i Tronchetti Provera a concedere pacificamente che le loro aziende passino nelle mani dei lavoratori.

Riconosco al compagno Bertinotti di aver colto la centralità di questo problema quando (Liberazione, 30/11/03) dice di vedere una "assenza in questo movimento del problema della conquista del potere", una "modalità di comportamento di tanta parte del 900" che sarebbe stata -a suo avviso positivamente- "estirpata alla radice". Resta però da capire che senso abbia una "rifondazione comunista" che non si ponga più l'obiettivo del potere dei lavoratori. Cosa resterebbe se non la conquista di qualche ministero in un esecutivo liberale?

Rosa Luxemburg (celebrata in modo imbarazzante a Berlino anche da ex ministri e aspiranti ministri in governi liberali) ammoniva chi rifiutava "il colpo di maglio della rivoluzione":

"(...) è a priori indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe, come per la conquista finale del potere statale; è la forza che può prestare, anche alla nostra attività pacifista, legale, la sua particolare energia ed efficacia. Se aprioristicamente e una volta per tutte la socialdemocrazia volesse effettivamente rinunziare, come le suggeriscono gli opportunisti, all'uso della forza, e le masse lavoratrici giurassero sulla legalità borghese, prima o poi tutta la loro lotta parlamentare e, in genere, politica, crollerebbe miseramente, per dar via libera allo strapotere della violenza reazionaria.
("E per la terza volta l'esperimento belga", 1902).

2) Solo un ingenuo potrebbe pensare che sia casuale l'enfasi con cui si sono aperte queste discussioni "teoriche" in questo preciso momento. Perché si sente l'urgenza improvvisa di dibattere della religione (per concludere che "non è più l'oppio dei popoli")?; perché si sottoscrive con i dirigenti dell'Ulivo -e in rottura con la maggioranza degli attivisti filopalestinesi- un manifesto a sostegno degli accordi di Ginevra?; perché a fronte della vicenda Parmalat -che richiederebbe il rilancio del tema della nazionalizzazione e del controllo dei lavoratori- si invoca una innocua "commissione d'inchiesta sul capitalismo italiano" (prontamente elogiata dalla Margherita) da costituire in un parlamento ovviamente composto quasi per intero da impiegati e amici fidati del capitalismo italiano? E soprattutto: perché la stampa borghese presta tanta attenzione al nostro dibattito teorico? Non è forse evidente che gli opinionisti della borghesia esaminano il partito per verificarne il grado di "affidabilità" in vista di un ingresso di ministri del Prc in un futuro Prodi bis? E certe prese di posizione della segreteria (apprezzate da Repubblica come "la Bad Godesberg del Prc") non corrispondono, nei fatti, al superamento di una prova d'esame?

Per questo, pur ritenendo fondamentale la riflessione sulla teoria, mi pare che non sia possibile (a differenza di quanto fanno, pur con osservazioni in sé condivisibili, Cannavò e Bernocchi) affrontarla separatamente dalla prospettiva che il gruppo dirigente di maggioranza nel suo insieme ha intrapreso. La prospettiva è quella della rinuncia all'opposizione di classe per dare vita a un governo con i liberali dell'Ulivo, nei fatti -al di là delle migliori intenzioni- un'alternanza sulla base del Manifesto di Prodi (flessibilità, privatizzazioni, smantellamento della previdenza pubblica, riarmo) e delle dichiarazioni programmatiche anti-operaie che Rutelli ha rilasciato anche ieri. Una prospettiva che con tanti altri compagni contrasterò perché metterebbe a rischio la sopravvivenza del Prc come partito di classe.

Francesco Ricci

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