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150° anniversario dell'unità d'Italia

150° anniversario dell'unità d'Italia

(19 Febbraio 2011) Enzo Apicella
Si festeggia tra le polemiche il 150° anniversario dell'unità dell'Italia

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Il DNA dello sviluppo capitalistico italiano

(12 Marzo 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Il 2011 è l’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Esponenti delle istituzioni, uomini politici di ogni estrazione ed appartenenza fanno a gara ad esaltare questa ricorrenza, usata oggi per rafforzare la “coesione sociale” di fronte alla crisi. Tradotto: la competitività dell’imperialismo italiano sui mercati mondiali.

Solo il partito “padano” esce via via fuori dal coro; ma solo per riaffermare il proprio interclassimo bottegaio, foraggiato dalla finanza d’alto bordo e comunque immanicato con le prebende del parlamentarismo romano.

Noi non ci stiamo. Per noi la storia dell’Unità d’Italia è storia della borghesia italiana che, come tutte le borghesie, si è affermata e si afferma sul sangue e sullo sfruttamento di milioni di proletari. All’interno ed in campo internazionale.

Che questo anniversario sia per i rivoluzionari un’occasione di denuncia e di rafforzamento politico.

Ricorre col 2011 il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Ci attendono mesi di fitta pubblicità patriottarda, che accomunerà tutti gli schieramenti politico-parlamentari e le istituzioni.

“L’italiano buono e civile” sarà il soggetto che andrà per la maggiore, partendo magari dall’immancabile esaltazione delle truppe italiane oggi impegnate sui “fronti umanitari”.

Si faranno casomai dei distinguo sulla “bontà”, più o meno conclamata, dei vari periodi storici, e si converrà quasi sempre sul periodo “buio” del fascismo, guardandosi però bene dal parlare di come si sia potuti arrivare ad esso; dal fare un benché minimo accenno a quell’imperialismo, liberale prima e democratico poi, che comunque sempre ha contraddistinto la stessa classe dominante sorta come entità nazionale nel 1861.

Sono in corso da parte nostra, in varie parti d’Italia, delle iniziative di propaganda che vogliono far conoscere ed approfondire la storia criminale dell’imperialismo italiano, dall’Unità ad oggi.

In questo articolo noi faremo qualche passo indietro. Vedremo i primi vagiti dello sviluppo capitalistico in Italia, allo scopo di introdurre e facilitare la lettura delle origini del nostro principale nemico: la borghesia italiana.

Nella prefazione all’edizione italiana de “Il Manifesto del Partito Comunista” (1893), Engels scrive:

“La prima nazione capitalistica fu l’Italia. Il chiudersi del Medioevo feudale, l’aprirsi della era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura gigantesca: quella di un italiano, Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno.”

Così, nel Primo libro de “Il Capitale”, considerando uno degli aspetti fondamentali della transizione dal feudalesimo al capitalismo, cioè il superamento dei rapporti di produzione medioevali nelle campagne, Marx a sua volta annotava:

“In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene emancipato prima di essersi assicurato il diritto di usucapione (= acquisto NdR) sulla terra. Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in proletario eslege, che per di più trova pronti i nuovi padroni nelle città, tramandate nella maggior parte fin dall’era romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale distrusse la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale, sorse un movimento in direzione opposta. Gli operai delle città furono spinti in massa nelle campagne e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola coltura, condotta sul tipo dell’orticoltura.”

Un atto notarile del 1312 ricorda quanto fossero già diffuse, nell’Italia ai tempi di Dante, molte forme caratteristiche del capitalismo: abbiamo dei contratti con cui, ad esempio, il pittore Giotto affitta (con un vero e proprio leasing) un suo “telaio alla francese” ad un tessitore di lana fiorentino. Siamo nel periodo di massima fioritura dell’industria laniera fiorentina, ormai organizzata nelle sue fasi più importanti secondo il sistema del lavoro a domicilio. Esso comporta che il “mercante imprenditore”, dopo aver acquistato la lana greggia ed aver provveduto alla filatura, consegni il filo ad un tessitore, che lavora a domicilio, a volte alternando questa attività al lavoro dei campi.

Il “mercante imprenditore” ritira poi il tessuto, pagando un salario al tessitore, e si occupa delle fasi conclusive della lavorazione. E’ da notare che la lana, in ogni momento del processo produttivo, rimane proprietà del mercante; assumendo così di fronte a lui, vero e proprio capitalista, la forma di capitale circolante.

Nell’ambito di questo sistema, il capitale fisso è generalmente di proprietà dell’artigiano.

Il tessitore, dunque, possiede il telaio e non si configura come proletario. Poteva però accadere che l’artigiano, pur disponendo della necessaria competenza tecnica ed essendo regolarmente affiliato all’Arte, non disponesse dello strumento di lavoro.

In tal caso il “mercante imprenditore” poteva lui stesso fornire gli strumenti di lavoro, ovviamente dietro compenso. Oppure (il leasing di cui si parlava) un cittadino con disponibilità liquide poteva investire i suoi risparmi nell’acquisto di beni capitali che poi affittava, sempre dietro compenso, agli artigiani che ne avessero bisogno.

Inoltrandoci ancora nel capitalismo mercantilista della Repubblica Fiorentina, troviamo che i “lanaioli” (cioè i mercanti-imprenditori del lanificio), impiegavano, per alcune fasi della produzione (soprattutto quelle iniziali), lavoranti che non possedevano alcun strumento e che vivevano della vendita della propria forza-lavoro (quindi autentici proletari), conosciuti in città come “Ciompi”.

Questi salariati, nel 1378, per ottenere un aumento delle paghe e la cancellazione dei debiti contratti coi lanaioli, insorsero. Si ebbe così il tumulto dei Ciompi, che costituisce la prima rivolta operaia nella storia d’Europa.

Vittoriosi nella fase iniziale della lotta, vengono poi abbandonati dagli artigiani “minori” che li avevano appoggiati, e finiscono trucidati a decine in Piazza della Signoria.

Nel ’500, il gigantesco colpo di timone imposto al commercio internazionale dalla scoperta dell’America, viene ad interrompere lo sviluppo di questo embrione italiano del capitalismo.

Il “fulcro del traffico mondiale” abbandona l’Italia per spostarsi verso le coste europee dell’Atlantico. Per il commercio e per l’industria della penisola inizia un lungo periodo di decadenza.

E’ l’intervento napoleonico (1796-1814) a ricondurre l’Italia in seno alla corrente principale della storia europea, rappresentata dalla rivoluzione democratico-borghese. Con il dominio francese penetrano in Italia i germi del liberalismo e, nello stesso tempo, quelle innovazioni della manifattura che permettono il delinearsi dei primi settori industriali. Vengono altresì introdotti più efficienti metodi amministrativi, ed un codice più “illuminato”. La centralizzazione napoleonica abbatte barriere doganali, introduce il sistema metrico decimale, dà impulso allo sviluppo delle comunicazioni, abolisce i “fedecommessi” (norme che impedivano il frazionamento della proprietà), consentendo così la piena commercializzazione della terra. Una parte della stessa aristocrazia si getta allora, a fianco della borghesia, nelle speculazioni consentite dall’occupazione francese. Tra le famiglie piemontesi che acquistano “beni nazionali” (frutto dell’esproprio di parte delle immense ricchezze della Chiesa) troviamo importanti nomi di quella nobiltà “progressista” che avrà un ruolo importante nel Risorgimento: i Balbo, i Lamarmora, i D’Azeglio, gli stessi Cavour. A questo riguardo, non è casuale che il cosiddetto “grande tessitore” compia in gioventù, come grandissimo speculatore, una sorta di apprendistato al mestiere di politico.

I borghesi non sono da meno. Secondo il Cusani, autore di una “Storia di Milano dalle origini” (pubblicata fra il 1861 ed il 1884), banchieri, mediatori e speculatori, acquistando beni nazionali, trasformando conventi in palazzi e latifondi in ville, diventarono:

“ … di colpo grandi proprietari, formando il nucleo della ricca borghesia, ancora non esistente come classe sociale in Lombardia.”

Il dominio francese assesta un colpo mortale alle sopravvivenze feudali, favorisce l’accumulazione di ricchezze di proporzioni fino allora sconosciute, stimola potentemente la circolazione di capitali, che vanno in cerca di investimenti remunerativi.

Le conseguenze dell’età napoleonica non furono certo univoche; fu però ineludibilmente posto il problema dell’unificazione del mercato nazionale italiano. La penisola rimane divisa in Stati di piccola-media grandezza, concorrenti tra loro, squilibrati … ma viene in un certo qual modo stabilito definitivamente quale parte d’ Italia dovrà avere la funzione di traino nel processo di unificazione.

Toccherà alle regioni nord-occidentali, maggiormente aperte alla rivoluzionaria influenza transalpina, più strettamente poste in contatto con l’area dell’Europa continentale, in cui più intenso è lo sviluppo capitalistico.

Piemonte, Liguria e Lombardia cadono sotto il predominio francese fin dal 1797, seppur contrastato sui campi di battaglia. Nel 1810 troviamo direttamente annessi all’Impero francese il Piemonte (eccetto il novarese), la Liguria, l’Oltrepò pavese, Piacenza, Parma, la Toscana (eccetto Lucca e Piombino), l’Umbria, il Lazio, Gorizia e Trieste.

Mazzini, Garibaldi e Cavour nascono sudditi francesi. All’inizio dell’800 poi, la regione italiana più avanzata è già la Lombardia, posta da Napoleone nell’ambito di un Regno d’Italia (ovviamente sotto dominio francese) che, nel 1810, comprende anche Novara, le tre Venezie sino a Bolzano e l’Isonzo, l’Emilia-Romagna da Reggio al mare, e le Marche. La borghesia lombarda trova così un mercato abbastanza ampio, sottrattogli però poco dopo dal Congresso di Vienna (1815).

Nei confronti dello sviluppo capitalistico e del rafforzamento sociale e politico della borghesia, in Italia appena agli inizi, la Restaurazione si configura come un tentativo di risposta storica della aristocrazia, e del clero, alla rivoluzione borghese. Lo strumento politico usato è il ritorno della monarchia assoluta, che pur, nel passato, aveva consentito alla borghesia di percorrere la parte iniziale del suo cammino storico. L’ultra reazionario svizzero Karl Ludwig Haller (1768-1854), padre del termine stesso “Restaurazione”, proclamava che lo Stato è “patrimonium principis”, ossia proprietà privata del sovrano; tradotta dall’illuminista Pietro Verri (1728-1797) come una come idea secondo la quale “l’arte di reggere una nazione sia l’arte di tenere gli uomini ubbidienti” e non invece quella di “rianimare il popolo alla prosperità”.

Restaurazione in Italia vuol dire regime protezionistico, che deprime la vitalità economica delle regioni più avanzate, isolandole oltretutto dal moto di diffusione dei nuovi ritrovati tecnici. Vuol dire introduzione di dazi soffocanti, riesumazione di leggi e norme del passato e, soprattutto, ritorno al potere delle vecchie classi dominanti del passato (con le loro vecchie divisioni territoriali).

Il Congresso di Vienna suddivide l’Italia in otto Stati distinti, ognuno con la propria legislazione, proprie tariffe doganali, propria moneta e proprio sistema di pesi e di misure: il Regno di Sardegna, il Regno Lombardo-Veneto (sottomesso all’Austria), i Ducati di Parma, Modena e Lucca; il Granducato di Toscana; lo Stato Pontificio; il Regno delle Due Sicilie.

In Piemonte gli anni successivi al Congresso di Vienna e fin verso il 1840, quando si avrà una svolta in senso liberistico, presentano un intorpidimento della vita economica: se la dominazione francese aveva rappresentato un duro ma salutare richiamo alla realtà della rinnovata economia europea, il ritorno dei Savoia portava un’atmosfera gretta e municipalistica, soffocante ogni iniziativa. Un editto aveva rimesso subito in vigore tutte le vecchie leggi anteriori all’invasione francese. Tra esse, per fare un esempio, una norma del 1751 che proibiva rigorosamente l’esportazione di seta greggia (ossia seta non sottoposta ancora a torcitura per mezzo del filatoio).

Tale norma sarà revocata solo nel 1841!

In Lombardia, una classe borghese che ha ormai una notevole forza ed è cosciente dei suoi interessi, si distingue immediatamente per la resistenza che oppone alle pretese restauratorie, e per il malcontento verso la frammentazione politica della nazione. “Naturalmente” portata a relazioni di scambio con le altre regioni italiane e con l’Europa centro occidentale, più che con le restanti province dell’Impero austriaco, la Lombardia soffre per il flagello dei dazi (sulla strada da Mantova a Parma, s’incontravano sette dazi differenti!). Particolarmente odiose erano le vessazioni nei confronti dei traffici, dovute agli Stati minori: i Duchi di Parma e Modena taglieggiavano in misura tale la navigazione sul Po che le merci le quali, provenendo da Trieste o Venezia, risalivano il fiume in direzione di Milano, erano costrette ad una costosa deviazione, cioè a risalire il Mincio fino a Mantova, e di qui proseguire sui carri.

Osserva Denis Mack Smith nella sua “Storia d’Italia” (vol. I Ed. Laterza ’66) :

“Non soltanto i commercianti e gli industriali tessili dell’Italia settentrionale, ma anche alcuni tra i proprietari terrieri produttori di vino e di grano si resero conto che il progresso economico non poteva prescindere da un più vasto mercato interno. Erano tempi di profitti agricoli in ascesa, e non pochi proprietari terrieri erano in grado di apprezzare i vantaggi di un unico governo centrale che costruisse strade e ferrovie, li tutelasse sul piano fiscale, e difendesse i loro interessi all’estero.”

Il movimento per l’unificazione nazionale è, dunque, essenzialmente, movimento per l’unificazione del mercato nazionale. Fermo restando che i “reparti di combattimento” saranno reclutati negli strati sui quali la grande borghesia esercita la propria influenza sociale ed ideologica: la piccola borghesia artigiana e intellettuale, gli impiegati, gli insegnanti. Casa Savoia può mettersi alla testa del Risorgimento perché il proprio Regno comprende regioni fra le più avanzate d’Italia e gode di un’ampia indipendenza. I Savoia avevano dimostrato, attraverso i secoli, di sapersi destreggiare tra la Francia, la Spagna e l’Austria. Ruolo, questo, consolidato dal Congresso di Vienna in funzione anti-francese. Tuttavia i Savoia, per essere in grado di riprendere la tradizionale politica d’espansione lungo il Po, hanno bisogno che la Francia intervenga a riequilibrare il peso austriaco.

A lungo questa condizione verrà a mancare a causa della debolezza francese. Passeranno le rivoluzioni del ’48, ma sarà solo in seguito alla vittoria del Bonapartismo (1851-’52) che i giochi potranno riaprirsi. E sarà la II Guerra d’ Indipendenza (1859) e la fine del predominio austriaco in Italia.

L’industria italiana ha ancora “i piedi nell’agricoltura” (G. Trevisani). Il settore più importante è il setificio, che però lavora soprattutto sul greggio, destinato all’esportazione. Tra il 1815 ed il 1853 la produzione totale di seta del Lombardo-Veneto raddoppia. La trattura (operazione che dà la seta greggia) è altamente dispersa e praticata con mezzi antiquati. La lavorazione vede un largo impiego di operai-contadini. Quando sorgeranno filande più grandi gli orari di lavoro giungeranno sino alle 17 ore giornaliere … La torcitura (fase successiva di lavorazione) presenta un’organizzazione industriale un po’ più evoluta, ma la forza motrice è ancora l’acqua e non il vapore.

Meno importante del setificio, ma nel complesso più avanzata, è l’industria del cotone, assai concentrata in Lombardia (28 filature con 100 000 fusi e 3 000 operai nel 1846). Ma la sua tessitura presenta carattere di attività domestica o semi-artigianale. Domina ancora, dopo mezzo millennio, la figura del “mercante-imprenditore”!!!

Il processo però, visto dialetticamente, se da un lato frena un rapido decollo industriale del capitalismo italiano, dall’altro, deprimendo il prezzo della forza-lavoro cittadina, mette rapidamente in circolo artigiani rovinati, che andranno ad unirsi ai contadini diventati operai nelle prime grandi manifatture (la Ponti di Gallarate, la Turati di Legnano).

Con le riforme economiche in Piemonte ed in Liguria (anni ’40 e ’50) di Carlo Alberto e poi di Cavour, viene smantellata la vecchia bardatura protezionistica e si susseguono le iniziative in campo bancario, industriale, commerciale ed agricolo. Col sostegno dello Stato (1846- Genova - Impresa meccanica Taylor-Prandi, con anticipo statale di mezzo milione di lire). Seguiranno, di lì a poco, le attività di Giovanni Ansaldo e di Giuseppe Orlando nelle costruzioni ferroviarie e nella cantieristica navale. L’industria meccanica piemontese, quasi inesistente nel 1830, conta nel 1844 15 stabilimenti con 1300 addetti. Nel 1860 saranno 28 stabilimenti e 9 000 addetti.

Questa politica governativa, coerente con le finalità economiche e militari della nascente borghesia del Regno di Sardegna, permetterà ad esso di guidare una rivoluzione borghese “dall’alto”, e di dare la sua impronta al successivo sviluppo del capitalismo italiano.

marzo 2011

Graziano Giusti

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