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(17 Marzo 2011) Enzo Apicella
150° anniversario della costituzione del Regno d'Italia. Cosa c'è da festeggiare?

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Alla gogna, non sugli altari il 1861

(17 Marzo 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Quando finiranno di romperci i timpani (per usare un delicato eufemismo) con le glorie del '61, con questa gara a chi celebra con maggior patriottismo e più fiorita retorica il centenario della «concordia nazionale», e alle note dell'inno e al ricordo di un «prestigioso» passato si alzano insieme, dritti come soldatini di piombo di fronte all'emblema della patria, gli uomini di destra di centro di sinistra, gli ambasciatori di occidente e di oriente, i pennivendoli dell'una e dell'altra sponda, e, sciolte le file, si abbracciano piangendo? Loro sono concordi, certo - nel pasteggiare all'unica greppia dello Stato e sulle spalle dei proletari che la riempiono.

Ma ai proletari, che cosa dice il '61? Non è neppure l'anno dell'unità nazionale, traguardo borghese ma, nei suoi limiti, innovatore; è l'anno - guarda un po' come ci si crogiola la repubblica di un secolo dopo! - dell'ultracodina monarchia sabauda divenuta monarchia italiana solo per metà, pavidamente e con le dovute riserve, ben espresse nella vittoriosa decisione del «Padre della patria» di conservare il titolo di Vittorio Emanuele II, il titolo di un re che ha conquistato al suo trono l'Italia, e vuole, perché ne ha la forza, amministrare il bottino al modo sperimentato dagli avi, sotto l'ombrello di militari, poliziotti e gesuiti, mentre l'imbelle borghesia italiota gli si aggrappa felice di non dover neppure fare la sua rivoluzione e di potersi alleare pacificamente col passato.

E' l'anno che mette il suggello alla capitolazione dei «capi popolari», docili strumenti di una monarchia usa a servirsi del coraggio e della generosità del «popolo» e a buttarli via con disprezzo come limoni spremuti non appena raggiunto l'obiettivo: l'anno in cui, sbollita la grande paura dei «rivoluzionari» in camicia rossa lasciati partire sottomano nella certezza che la flotta britannica li avrebbe tenuti d'occhio e che l'ossessione unitaria di Garibaldi e Mazzini avrebbe, al momento giusto, ceduto le armi sull'altare dello stellone sabaudo; l'anno in cui l'esercito, i funzionari al loro seguito, e i grossi borghesi alleati dei grossi nobili accorsi precipitosamente nel Sud lungo i punti di minor resistenza della penisola per raccogliere dalle mani di quelli che soli avevano rischiato la vita la metà inferiore dello stivale, poterono sentirsi finalmente in sella, loro e i transfughi borbonici affrettatisi alla greppia del nuovo padrone mentre gli illusi garibaldini, buoni l'anno precedente ed ora avanzi di galera, erano rinviati precipitosamente a casa o «concentrati» in Piemonte e Lombardia dietro il cordone sanitario dell'esercito e della polizia regi; l'anno di Mazzini finito in prigione, di Garibaldi rifugiatosi a Caprera prima di assaggiare le pallottole sabaude in Aspromonte e imperial-napoleoniche a Mentana, di Cattaneo che riprende da Napoli la via dell'esilio come già dopo i tradimenti regi e le prove di dabbenaggine dei «capi» popolari nel '48 e nel '49.

E' l'anno del disarmo della «canaglia», un '45 avanti lettera: la vil plebe ha versato il proprio sangue, è ora che i «carpetbaggers»(1) aristocratico-borghesi corrano a incamerare i tesori del Sud «liberato». Gloria comune di borghesi e proletari, patrimonio collettivo, questo regno nato vuoi dallo sfruttamento delle generose illusioni del «popolo», vuoi dal ruffianesimo diplomatico giocante sugli aiuti di Napoleone III fin allora e, poco dopo, sugli immeritati appoggi di Bismarck per la «liberazione» del Veneto e ancora di Bismarck per la «liberazione» di Roma, questo ruffianismo corteggiante l'Imperatore dei Francesi prima, mendicante aiuti dagli avversari militari di lui più tardi, traffichino sempre? No, gloria e patrimonio comune dei partiti della ricostruzione nazionale, della conciliazione di classe, del rispetto della costituzione, della coesistenza pacifica, queste consorterie celebranti nel '61 l'anticipo di un presente di abbracci fra nemici di cartapesta e di trionfi di S.M. il Capitale.

I proletari possono guardare al 1848 milanese, al 1849 romano - almeno nei loro primi inizi di battaglia popolare sulle barricate, primi inizi subito repressi dall'azione congiunta dei gallonati «regi» e degli arrendevoli «capi» repubblicani, pochissimi esclusi -; possono guardare a Sapri: ma il '61 è per essi la beffa più turpe, l'ignobile riso di scherno dei potenti, arrivati senza scosse al traguardo di un festino poi durato cent'anni e ansioso di ripetersi in eterno.

«Sono convinto - scriveva Pisacane prima di imbarcarsi nella spedizione nel Sud, il 24 giugno 1857 - che i rimedi necessari come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ecc., ecc., ben lungi dall'avvicinare l'Italia al suo risorgimento, ne allontanano; per me, non farei il menomo sacrificio per cangiare un Ministro [intenda chi può], per ottenere una costituzione [sentite, voi delle Botteghe Oscure?], nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me, dominio di Casa Savoia o dominio di Casa d'Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall'altro che la propaganda dell'idea è una chimera, che l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelli, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero». Questo era il giudizio anticipato di un proletario sul «glorioso» 1861 e sul trionfale secolo successivo: non abbiamo da cambiarvi una virgola. Sono venuti il «reggimento costituzionale», il «regno sardo», l' «educazione del popolo», quei rimedi che sono le riforme (di struttura o no), e ministeri sono caduti e risorti; il padrone è rimasto, tanto più saldo in arcioni quanto più le «resistenze popolari» abboccavano all'amo contro il quale l'eroe di Sapri aveva messo in guardia i suoi compagni di classe e di partito.

Tanto in basso sono caduti i «partiti operai» di oggi, che i riformisti di cinquant'anni fa, al loro confronto, erano dei ... rivoluzionari! Nel 1911, celebrandosi il cinquantenario dello stesso '61, i socialisti italiani boicottarono le manifestazioni ufficiali facendone oggetto di un vasto attacco classista alla sozza borghesia italiana, allora come adesso in piena euforia demoliberale, allora come adesso esultante dei suoi «miracoli economici»; e non erano solo i giovani de «L'Avanguardia» a muovere questo attacco, ma perfino Turati nella «Critica Sociale», che chiarì bene che cinquant'anni prima gli operai avevano dovuto aiutare l'unità nazionale borghese, ma in mezzo secolo (e già allora a battaglia finita) un abisso si era scavato fra gli alleati del momento storico.
L' «Unità» ha ricordato proprio in questi giorni tale «episodio», solo per correre precipitosamente a fare tutto l'opposto; essa, la teorica del «secondo Risorgimento» italiano antifascista ed antirivoluzionario.

Andatelo dunque a stamburare ad altri, il '61! E' la vostra festa, d'accordo. Per i proletari sarà festa il giorno in cui la rivoluzione comunista, confusamente presagita dai Pisacane noti ed oscuri, spazzerà via anche il ricordo della beota concordia nazionale, dell'imbelle concordia fra dominanti e dominanti, fra oppressi ed oppressori, che si chiama 1861!

il programma comunista, n. 7 del 7 aprile 1961

1. con questa denominazione si intendono, in termine spregiativo, gli affaristi, opportunisti e sfruttatori della borghesia (ndr)

Amadeo Bordiga

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