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Libia. 2 Giugno

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18.03.11 - La Cgil deve stare fuori dal coro interventista in Libia

(18 Marzo 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.rete28aprile.it

Venerdì 18 Marzo 2011 11:30
Quanto sta accadendo in questi giorni intorno alla vicenda libica deve essere per la Cgil fonte di profonda riflessione e di obiettiva valutazione. (...)

Una sottovalutazione dei fatti porterebbe la confederazione ad assumere posizioni che invece di andare a sostegno delle popolazioni in rivolta, agevolerebbero la conservazione del dominio dei paesi occidentali e dei fantocci al potere in diversi stati arabi. Il rischio ci sembra presente in CGIL dalla lettura di comunicati e da diversi interventi dove si è affermato che di fronte ad un dittatore che spara sui civili inermi non è possibile mantenere un atteggiamento equidistante e che in qualche modo Gheddafi va fermato.
Gli avvenimenti in Libia si sono innescati su quelli della Tunisia e dell'Egitto ed in concomitanza con una serie di proteste e rivolte popolari in altri paesi del Maghreb e della penisola arabica. Non è possibile in poche righe approfondire le cause, i risultati ottenuti ed i possibili sviluppi di questi importanti fenomeni sociali, analisi che comunque andrebbero fatte all’interno della Cgil. A nostro modo di vedere è importante evidenziare alcune palesi differenze tra la situazione libica e le altre vicende dell’area. Negli altri paesi abbiamo assistito ad un crescendo di manifestazioni popolari, composte da differenti strati sociali e per la maggior parte disarmate che sempre più numerose invadevano le piazze. Ciò è avvenuto con particolare evidenza in Tunisia ed in Egitto, dove l'inizio delle proteste veniva da almeno due anni prima, con l’intensificazione di importanti scioperi degli operai nei centri industriali prontamente repressi nel sangue dai rispettivi regimi amici dell’occidente. In Libia non abbiamo assistito ad un escalation di questo tipo, non ci sono resoconti di proteste di massa nelle piazze delle principali città del paese, in particolare della regione Tripolitania, né tantomeno di scioperi da parte degli operai. Dai resoconti più attendibili che abbiamo a disposizione quella in atto sembra più un'operazione armata di una parte della popolazione, in particolare quella residente in Cirenaica e appartenente ai clan tribali presenti in quella zona, nei confronti dei clan tribali facenti capo a Gheddafi (la tribù è ancora struttura portante della società libica). Da sottolineare è che il tenore di vita medio dei libici è più elevato di quello dei tunisini o degli egiziani. Tanto è vero che i cittadini libici normalmente non emigrano in cerca di lavoro in altri paesi. Il movimento di protesta appare spinto da diverse motivazioni: gestione del petrolio, secessione della Cirenaica dal dominio dei clan Gheddafi, volontà da parte dei giovani, numerosissimi come negli altri paesi arabi, di costruire una vera nazione liberandola definitivamente dal dominio dei clan familiari. Questo forte desiderio è trasversale all’appartenenza tribale, non è concentrato da una sola parte e questo è l’aspetto che più ci dovrebbe coinvolgere in questa vicenda. Dentro il movimento però si inseriscono anche i tentativi di controllo e strumentalizzazione da parte dei paesi dominanti e delle rispettive multinazionali, in particolare occidentali. Si tratta di un conflitto che in ogni caso si inserisce nel quadro generale che ha alla sua radice la crescente lotta concorrenziale, acuita dalla grave crisi economica, tra nazioni e tra aziende multinazionali per la spartizione delle materie prime nel mondo. Se partiamo da queste considerazioni, l’appiattimento mostrato dal nostro sindacato sulle posizioni tenute dai governi europei, americano e di parte dei paesi arabi appare molto pericoloso, perché rischia di avallare nella sostanza le loro politiche di ingerenza.
Una grande organizzazione sindacale non può limitarsi alla totale disinformazione propinata da televisioni e giornali. Ad esempio, le sanzioni Onu ed il deferimento di Gheddafi al Tribunale penale internazionale, sono state assunte sull’onda della notizia, poi smentita, di 10.000 morti procurati dai bombardamenti aerei del regime libico su civili inermi e dalla diffusione di foto di fosse comuni rivelatesi in seguito un preesistente cimitero della periferia di Tripoli. In questo modo la macchina bellico-mediatica ha ottenuto il suo scopo: creare nell’opinione pubblica un forte risentimento nei confronti del dittatore e precostituire le possibilità per l’intervento militare che se fin ad oggi non è avvenuto è dovuto soltanto ai contrasti tra i vari galli nel pollaio per decidere chi si debba sobbarcare l’onere della missione, al fatto che i ribelli non sembrano poi così facilmente controllabili dai paesi occidentali e non ultimo al timore di suscitare nuovi sentimenti anti imperialistici in un’area caldissima. Queste manovre le abbiamo già viste in passato, la più clamorosa è stata quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam, e non possiamo continuare a non riconoscerle. Questo non significa appoggiare l’attuale regime libico, anzi, se vogliamo sostenere la rivolta libica dobbiamo appoggiare l’elemento comune alle altre situazioni, cioè l’esplosiva volontà dei giovani di liberarsi non solo di Gheddafi ma anche di una struttura sociale atavica che impedisce loro di vedere un futuro certo. Ma esistono delle difficoltà reali che indeboliscono la lotta e sono le tribù e l’organizzazione sociale arretrata. In Egitto e in Tunisia invece l’estensione e la compattezza della protesta hanno avuto la meglio su apparati repressivi, non meno feroci di quelli libici. Gli stati occidentali hanno dovuto prenderne atto ed abbandonare Ben Alì e Mubarak, loro grandi alleati.
Invece sulla Libia dopo soli tre giorni di notizie fasulle e roboanti è partito il tam tam politico-mediatico: “fermiamo il crudele dittatore”; “Gheddafi è un criminale che spara sul suo popolo” (frasi echeggiate anche dentro la Cgil) ed ecco arrivare subito le sanzioni Onu e il deferimento al tribunale penale, con una velocità inaudita per organismi di solito molto lenti o incapaci di decidere come è avvenuto nel caso dell’invasione di Gaza e prima ancora del Libano decretata dai governi israeliani e nel corso delle quali i militari bombardarono tranquillamente uomini, donne e bambini, procurando qualche migliaio di morti certificati. O come quando si è trattato delle “guerre umanitarie, per la democrazia, contro il terrorismo ecc. ecc.” portate in giro per il mondo dalle coalizioni Usa-Nato e che ormai assommano milioni di vittime civili dirette ed indirette.
Perché Gheddafi è un criminale e gli altri no? I Bush, Blair, Sharon non sono stati mai incriminati né è mai stata invocata la loro deposizione. Lo stesso Obama continua più del predecessore a fare guerre in giro per il mondo, vanto che gli è valso l'assegnazione del Nobel per la pace. Mentre in Egitto sono state uccise almeno 400 persone e Mubarak se ne sta a Sharm tranquillo. Così come nello Yemen, in Arabia Saudita, in Bahrein si spara sulla folla disarmata e non si dice nulla.

In conclusione, le parole d’ordine della Cgil non possono essere simili a quelle adottate dai politici degli Stati che molto più degli altri hanno le mani in pasta. Non si può invocare la non equidistanza rischiando di appoggiare un nuovo intervento militare che non avrebbe niente di umanitario. Così come non si deve essere equidistanti quando non si dovrebbe. Per l’Afghanistan si è invocata l’"exit strategy" senza denunciare apertamente che si tratta di una guerra di aggressione svolta anche dall’Italia e senza chiedere a gran voce l’immediato ritiro dei militari. La Cgil deve saper distinguere le diverse situazioni, difendere apertamente le rivendicazioni popolari che nascono dal basso ed evitare di schierarsi senza accorgersene con le manovre dei paesi ricchi e delle multinazionali che mirano proprio a conservare, invece, lo status quo. Solo in questo modo possiamo aiutare e prendere esempio dalle lotte medio orientali e nordafricane, dove tante persone a cominciare dagli operai hanno preso in mano la propria vita ed hanno aperto una stagione di vera conquista sociale e di resistenza, contro i potenti locali ed internazionali. Se non ora, quando?

Simona Barbiani (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
Luca Berrettini (Direttivo Fisac-Cgil Roma Nordest)
Maurizio Bisegna (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Antonella Bonvini (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Alessandro Castrichella (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Leonardo De Angelis (Direttivo Camera del Lavoro Cgil Roma sud)
Antonio Formichella (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Andrea Furlan (Direttivo Regionale Filcams-Cgil Lazio)
Luigi Giannini (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
Giuseppe Legnante (Direttivo Fisac-Cgil Roma Sudovest)
Antonio Maiorano (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
Maurizio Mancuso (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Pasquale Panìco (Segretario Rsa Filcams Cgil)
Riccardo Tranquilli (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)

Rete del 28 aprile per l'indipendenza e la democrazia sindacale

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