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Libia. Il silenzio della voce del padrone

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(5 Ottobre 2011) Enzo Apicella

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Una critica a Valentino Parlato

(21 Marzo 2011)

L’opposizione ad una guerra imperialista può essere condotta in molti modi ed a partire da diversi angoli visuali. Tuttavia, pur nel riconoscimento della pluralità delle articolazioni di un movimento nowar, vi sono delle posizioni che, di fondo, mal si conciliano con una vera battaglia internazionalista. Parlo, ad esempio, di un certo verbo vagamente umanitario, che spopola presso i pacifisti nostrani e che li induce ad accogliere una parte della propaganda avversaria, sempre tendente a far passare i crimini delle grandi potenze per accanite difese dei diritti umani. Rispetto all’ultima aggressione imperialista, quella alla Libia, nello schieramento antibellicista si è presentato un ulteriore problema, rappresentato in particolare dalle posizioni di Valentino Parlato. Si pensi al suo articolo del 20 marzo, in cui viene espressa una chiara difesa degli interessi italiani(http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/03/articolo/4332/).
Com’è possibile che in un giornale che ancora si definisce comunista, si muova da queste istanze? Ci sarebbe da chiedere al fondatore del Manifesto come considera l’Italia: si tratta forse di una "nazione proletaria" che deve conquistare il suo “posto al sole”? O di un paese subimperialista che agisce per conto terzi, accodandosi ad operazioni che fanno il gioco di USA, Francia e Gran Bretagna per ottenere qualche vantaggio residuale, qualche bricioletta? Dal punto di vista di chi scrive, anche l’Italia è un paese imperialista. Lascio a chi legge la facoltà di specificare che quello di casa nostra è un imperialismo “straccione”, ma ciò non cambia i termini della questione. L’Italia, con la sua politica estera sempre più aggressiva, risponde anzitutto ad imperativi “interni”, cioè agli interessi della sua borghesia. Ovviamente questo atteggiamento, meno subalterno di quanto non si dica, fa i conti con quelli che sono i rapporti di forza tra le potenze imperialiste, ma rimane il fatto che la bussola della partecipazione italiana alle varie aggressioni militari in giro per il mondo è rappresentata dagli interessi dei padroni di casa nostra.
Dunque, è assurdo, per chi si dichiara comunista, riferirsi implicitamente o esplicitamente agli "interessi nazionali", come invece fa Parlato nel suo breve scritto. Verrebbe da chiedere, al noto giornalista, se è possibile parlare di un interesse comune tra un giovane precario - che magari lavora in un call center - e Paolo Scaroni ed Emma Marcegaglia. Il punto, è che se ci attiene al discorso di Parlato, sviluppandone tutte le conseguenze logiche, si può approdare addirittura ad un’ottica “corporativa”. L’unanime adozione dell”’interesse nazionale”, non può che portare al superamento del conflitto sociale interno, ad una prospettiva in cui ai lavoratori non rimane che appoggiare una politica italiana di potenza, sempre più autonoma dagli Usa e dai grandi paesi europei, certo, ma con una vocazione predatoria ancor più accentuata.
Ciò, in una logica in cui si riduce pure lo spazio per il dissenso (“taci, il nemico ti ascolta”), per non minare l’armoniosa condivisione degli obiettivi tra borghesi e proletari. Solo dalla distribuzione dei bottini delle imprese belliche di una nazione anch’essa “proletaria” (secondo la ben nota definizione di Pascoli), deriverebbe in sostanza il miglioramento delle condizioni di vita dei settori sociali subalterni .
Forse, Parlato non ha valutato con attenzione tutte le implicazioni del suo discorso, che obiettivamente non si tiene in piedi. Infatti, è proprio ponendosi sul piano della difesa dell'interesse nazionale, che a questo punto - come ha spiegato il concreto De Michelis, in un’intervista rilasciata il 19 marzo al quotidiano La Stampa – si è reso necessario per l’Italia partecipare all'aggressione militare in corso, così da salvaguardare la propria presenza (i pozzi, le aree di libero sfruttamento della manodopera) nella ex colonia.
Diciamo pure che nel suo articolo, evidentemente scritto in velocità, Parlato si è espresso male. Non potremmo spiegare altrimenti il riferimento positivo ad una presenza italiana in Libia che si è sviluppata nell’arco di 100 anni. Sembra quasi che l’editorialista rivendichi la politica giolittiana nel Nord Africa. Com’è possibile? Forse si considerano i successivi massacri di Rodolfo Graziani per piegare la ribellione della Cirenaica come degli incidenti di percorso, dovuti alla peculiare brutalità del fascismo? Nessuna persona seria potrebbe negare la continuità fra la politica coloniale del regime e quella liberale, nel mantenimento attraverso la forza bruta del controllo sulla Libia come nella successiva aggressione all’Etiopia.
Aspetto che qualcuno mi dica che nell'articolo di Parlato c'è del buono e che magari occorre difendere l'Eni, ente di pace nel Mediterraneo, da considerarsi quasi un interlocutore delle popolazioni in lotta contro l’imperialismo. Ma obiettivamente sostenere questa posizione è veramente difficile. Bisognerebbe dimostrare che l’ENI ha commesso semplici errori in Iraq, sostenendone l'occupazione militare targata USA, nonché in Ecuador ed in Nigeria, distruggendone il territorio e partecipando al massacro delle popolazioni locali (come documentato da un libro curato da A Sud e publicato da Derive Approdi nel 2006: Il sangue della terra. Atlante geografico del petrolio. Multinazionali e resistenze indigene nell’Amazzonia ecuadoriana).
Bisognerebbe, inoltre, sostenere che in Libia si sarebbe invece proseguita la benefica e pacifica linea dell'eroico Mattei...Un simile argomentare – che in realtà pochi hanno il coraggio di proporre – non tiene conto di alcuni dati elementari. La politica di Mattei si lega ad una fase ormai lontana, ancorata ad un differente assetto del capitalismo italiano e le condizioni “eque” che offriva ai grandi paesi produttori di petrolio derivavano in gran parte dalla necessità di ricavarsi uno spazio in un settore monopolizzato dalle famigerate “sette sorelle”. Oggi, l’ENI il suo “posto al sole” l’ha abbondantemente conquistato e se in Libia la sua presenza è stata, in questi anni, meno predatoria che altrove, ciò si deve ad una mera questione di rapporti di forza: all’aver avuto di fronte, cioè, un interlocutore meno debole che in altri paesi. Si può (si deve) ragionevolmente concludere che la presenza italiana in Iraq, Ecuador, Nigeria e Libia, come in altri paesi, risponda sempre alla stessa logica, che non fa certo della multinazionale italiana un alleato delle lotte di liberazione. Così come, si dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che la partecipazione all’operazione militare in corso è tutto fuorché in rotta di collisione con gli interessi del capitalismo italiano.
Francamente, dubito che qualche illuminato analista possa smentirmi. In assenza di un contraddittorio che mi faccia cambiare idea, ritengo che la linea di Parlato sia sostanzialmente sbagliata. Occorre contrastare la guerra alla Libia con tutta la forza possibile, ma ponendosi anzitutto in antitesi rispetto all'imperialismo di casa nostra.

Stefano Macera

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