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L’ONU tra mito e realtà

(6 Febbraio 2004)

Il discredito dell’ONU, quale strumento per contrastare le aggressioni delle grandi potenze contro i paesi del terzo mondo o comunque in situazioni di grave dipendenza, è ormai abbastanza diffuso. Peraltro, in alcune occasioni la stessa è stata utilizzata come la foglia di fico per dette aggressioni o se ne è addirittura fatta promotrice.

Eppure, il pacifismo istituzionale con pretese realistiche continua ad invocare l’intervento dell’Onu. Nel caso dell’Irak arriva a chiedere che questo intervento si concretizzi in una presenza –sia pure temporanea- per dare modo agli irakeni di dotarsi di strumenti democratici di governo. Tra i motivi “nobili” di siffatta invocazione ci sembra di cogliere:

a) la vocazione originaria, attraverso il suo atto fondativo, dell’Onu a farsi promotrice della pace mondiale;

b) la necessità comunque di fare appello ad un’istanza internazionale contro gli egoismi degli Stati;

c) la politica attuale degli Usa che, proprio per imporre il loro egemonismo, cercano di fare a meno dell’Onu e di depotenziarla in una prospettiva di completo superamento;

d) la presenza nei paesi aggrediti di drammatici contrasti etnici e di forze terroristiche e autoritarie, con connotazioni fondamentaliste, che renderebbe impossibile all’immediato qualsiasi possibilità di autogoverno.

Naturalmente, il pacifismo istituzionale, ben consapevole oggi del discredito dell’Onu sotto il profilo sopra considerato, ammette subito di non invocare l’intervento di questa Onu, ma di un’Onu riformata (che ritorni all’origine). Per inciso, tale ammissione appare anche al più ingenuo un tentativo strumentale per esorcizzare incontestabili critiche, tant’è che non si è mai dato che il predetto pacifismo abbia precisato: “finche l’Onu non sarà riformata non ne chiederemo l’intervento”. Insomma si mettono le mani avanti sulla riforma dell’Onu così come si recita il padrenostro in certi ambienti siciliani. Tutti capiamo che è di questa Onu che si chiede l’intervento e che essa, anche se riformata, non può che restare sostanzialmente la stessa in un mondo così “asimmetrico”.

La nostra critica alla su esposta posizione è radicale e ci colloca tra quelle componenti politiche che propongono come unico passaggio realistico, per marciare verso la riconciliazione dell’umanità, la delegittimazione, senza mezzi termini, dell’Onu. In tal senso, il primo mito da superare è quello delle sue “buone” origini, in quanto ispirate dall’etica filosofica e giuridica di Kant e di Kelsen, personaggi, sconosciuti a molti lettori, ma sempre richiamati dai riformatori e/o sublimatori dell’Onu.

Prima di parlare delle origini dell’Onu, non si può dunque evitare un accenno a quei due personaggi.

Kant passa per un filosofo liberale del XVIII secolo, quindi per un progressista dell’epoca, che si fece sostenitore della “pace duratura” come istanza etica. Si dimentica spesso di aggiungere che era un liberale un po’ diverso dai francesi suoi contemporanei: era un liberale conservatore, che cioè temeva le rivoluzioni. Per lui vale l’annotazione ironica di un altro filosofo, secondo cui la Santa Alleanza realizzò qualcosa di molto simile al progetto di una federazione di Stati, garanti di una “pace duratura”. E speriamo che il furore del revisionismo storico non arrivi a mettere in dubbio anche il carattere reazionario della Santa Alleanza, magari perché nella sua Carta grondavano velleità internazionalistiche in salsa cristiana, ispirate dallo zar Alessandro I, del tipo “servizio reciproco”, “inalterabile buona volontà”, mutuo affetto”, “cristiana carità”, “indissolubile fraternità”, “per il bene del mondo”, “prendere le misure più salutari per la tranquillità e la prosperità dei popoli e per il mantenimento della pace fra gli Stati”. En passant, ci è venuto in mente che Kant era anche il filosofo di riferimento di quel tale Bernstein primo grande rifondatore del marxismo in versione moderata.

Kelsen, noto negli ambienti accademici come una specie di Marx della borghesia, più precisamente era un socialdemocratico austriaco, anch’egli molto sensibile al tema della pace da realizzare con un governo mondiale. Un altro progressista dunque? Forse, ma gli attuali rifondatori del comunismo in chiave “antipotere” (per via della congruità dei mezzi con i fini o per legittimare le loro invisibili vittorie), anche di lui omettono un piccolo particolare. La sua venerazione del diritto (per la pace) era non solo di tipo integralista, ma si connotava di motivi fortemente statalistici. Egli arrivò a sostenere in polemica con “l’anarchismo” marxiano, che l’unico socialismo possibile era quello statale, giacché lo Stato emancipa, incivilisce l’umanità riscattandola dalla sua cattiva natura. E’ però anche il caso di rammentare che negli anni novanta del secolo scorso Kelsen, unitamente a Kant, è stato la musa del cosiddetto pacifismo cosmopolitico (in Italia capeggiato da Bobbio e da Cassese, in Germania dal filosofo Habermas, già vivacemente contestato dai suoi studenti nel 1968 per le sue molte esternazioni conservatrici) che si fece entusiasta sostenitore dell’aggressione all’Irak nel 1991 e di tutte le ingerenze umanitarie che ne seguirono (in Ruanda, ad Haiti, in Somalia, in Bosnia, in Kossovo). La grande coalizione onusiana, capeggiata dagli Usa e che doveva –nelle intenzioni di Bush- riportare l’Irak all’età della pietra, fu da loro salutata come il primo governo mondiale della pace.

Questi illustri filosofi e giuristi non tentennarono neppure a seguito delle dimostrate nefandezze delle ingerenze umanitarie, tirandosi dall’imbarazzo con l’indegna dialettica che imperversa nelle accademie e nelle segreterie dei partiti: “la guerra umanitaria si è rivelata non giusta? Bene, è però giustificata”. E a pensare che a queste grandi prodezze intellettuali continuano a inchinarsi ancora folte schiere progressiste.

ORIGINI DELL’ONU.

Non è male ricordare che prima dell’Onu c’era la Società delle Nazioni, che, pur prefiggendosi di mantenere la “stabilità gerarchica” emersa dopo la prima guerra mondiale, quanto meno aveva sede sul territorio neutrale della Svizzera a Ginevra. Questa annotazione e quindi un rapido confronto tra questo precedente organismo e l’ONU chiariscono meglio quanto sia falsa e apologetica la rappresentazione di quest’ultimo come un progresso nelle relazioni internazionali e di una sua originaria vocazione, almeno sulla carta, alla pace nell’interesse dei popoli. Questa rappresentazione mira a imprimere -anche se in sede scientifica verrebbe sicuramente negato- nell’immaginario collettivo l’idea che l’Onu sia una specie di parlamento mondiale (l’Assemblea Generale) con poteri costituenti e con un esecutivo costituito (il Consiglio di Sicurezza), cioè con un governo che ne esegue la volontà. A tal punto, l’ingenuità “popolare” è facilmente ed emotivamente mobilitabile a favore dell’Onu (magari riformata), sempre potenzialmente capace di imporre la volontà generale anche contro qualche grande potenza.

Un buon chiarimento, nel senso predetto, ci viene dal prof. Danilo Zolo nel suo Cosmopolis, al quale queste note si rifanno largamente per quanto riguarda la diagnosi, sia pure senza condividere la prognosi di un “pacifismo debole” (non “lacrimoso” – direbbe Aldous Huxely) centrato su un nuovo multipolarismo statale in equilibrio militare e non sulla forza di un nuovo movimento mondiale anticapitalistico. Lo riportiamo testualmente.

“Per molti aspetti l’organizzazione delle Nazioni Unite ricapitola in sé la storia, gli obiettivi e la struttura delle due organizzazioni internazionali che l’hanno preceduta: la Stanza Alleanza e la Società delle Nazioni.

“Quando il 25 aprile 1945 si riunì a San Francisco la Conferenza delle Nazioni Unite per elaborare la Carta della nuova organizzazione, i 50 Stati che avevano accettato l’invito di Roosevelt, Churchill e Stalin si trovarono di fronte ad un’alternativa netta. Nonostante essi potessero formalmente decidere sulla formulazione dei singoli articoli con la maggioranza dei due terzi, non ebbero altra alternativa che accettare le linee fissate a Dumbarton Oaks (esplicitamente presentate dai governi invitanti come irrinunciabili) o provocare l’immediato fallimento dell’iniziativa.

“Ogni tentativo di evitare che il funzionamento della nuova organizzazione dipendesse dall’arbitrio delle grandi potenze venne fatto fallire. Ci fu una sola eccezione di rilievo: l’introduzione di un diritto di legittima difesa da parte dei singoli Stati eventualmente aggrediti, con la conseguente riduzione dell’assoluto monopolio dell’esercizio della forza militare che era stato affidato al Consiglio di Sicurezza. Fu respinta invece, assieme a molte altre, la proposta di investire la Corte Internazionale di Giustizia di un potere di interpretazione autentica delle disposizioni della Carta e quindi di un controllo di legittimità sugli atti dell’organizzazione. Il 26 giugno 1945 la costituzione octroyée (ndr: “concessa” come venivano concesse le Costituzioni dai monarchi al popolo immaturo) delle Nazioni Unite venne approvata all’unanimità e sottoscritta.

“La struttura delle Nazioni Unite ricalca nelle sue grandi linee quella della Società delle Nazioni. Comprende infatti l’Assemblea Generale, il Consiglio di Sicurezza, il Segretario e la Corte di Giustizia. Ma le analogie fra le Nazioni Unite e la Società delle Nazioni finiscono qui e qui iniziano le analogie fra le Nazioni Unite e la Santa Alleanza. Anche l’altisonante eloquenza del preambolo della Carta sembra ripetere il modulo retorico del trattato della Santa Alleanza e contrasta con l’estrema sobrietà espressiva del Covenant della Società delle Nazioni.

“La distribuzione delle funzioni tra l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza è radicalmente diversa rispetto alla Società delle Nazioni. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è priva di qualsiasi potere di decisione vincolante e deve limitarsi a semplici raccomandazioni. Di queste ultime il Consiglio di Sicurezza può non tenere alcun conto. In un caso di grande rilievo –e cioè quando il Consiglio si stia già occupando di una controversia o di una situazione qualsiasi- all’Assemblea è interdetto anche il potere di esprimersi in merito con delle raccomandazioni.

“La totalità dei poteri decisionali è dunque concentrata nel Consiglio di Sicurezza che non è, a differenza del Consiglio della Società delle Nazioni, un organo puramente deliberativo. Come è noto, è dedicato a specificare i poteri di organizzazione e di direzione militare che spettano a quest’organo quando sia stata deliberata un’azione coercitiva internazionale.

“Il Consiglio di Sicurezza non decide all’unanimità, com’era il caso del Consiglio della Società delle Nazioni, ma, come è noto, con un criterio di maggioranza qualificata che deve includere il voto favorevole dei membri permanenti, e cioè delle 5 grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Questa soluzione, che attribuisce a ciascuno dei Cinque Grandi un vero e proprio potere di veto, fu voluta da Roosevelt, Churchill e Stalin alla conferenza di Yalta. Infine, i membri del Consiglio di Sicurezza, pur godendo di elevatissimi e discrezionali poteri di intervento politico-militare, non sono tenuti ad astenersi quando si tratti di dirimere con la forza controversie nelle quali essi stessi sono implicati, come era invece previsto per la Società delle Nazioni. Ne consegue che i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza possono di fatto esercitare gli estesissimi poteri di quest’organo mentre essi, grazie al diritto di veto, sono immuni dalla possibilità di esserne oggetto.

“Con il suo schietto realismo conservatore, Hans Morgenthau ha osservato che la Santa Alleanza era apertamente e lealmente un governo internazionale delle grandi potenze. La Società delle Nazioni era invece un governo internazionale delle grandi potenze (ndr: per i bolscevichi era “un covo di briganti”) temperato dal consiglio e dal consenso di tutte le nazioni che ne facevano parte. In linea di principio, grazie alla regola dell’unanimità, esse potevano infatti opporsi alle iniziative delle grandi potenze. Per contro, le Nazioni Unite sono un governo internazionale delle grandi potenze identico sotto il profilo costituzionale a quello della Santa Alleanza, e cioè perfettamente autocratico, che finge però di essere aperto e moderato come quello della Società delle Nazioni. Il Consiglio di Sicurezza è in realtà la Santa Alleanza del XX secolo e i suoi 5 membri permanenti sono una Santa Alleanza entro la Santa Alleanza. Analogamente, Ian Clark ha sostenuto che il disegno istituzionale delle Nazioni Unite segna una netta regressione verso il sistema ottocentesco, che affidava esclusivamente al gioco delle alleanze fra le grandi potenze il destino di tutti gli altri Stati.”

Ora, a tutto voler concedere alla forza dell’etica e della volontà, una riforma di un simile mastodonte non sarebbe tentata neppure da redivivi Titani. E il prof. Zolo, che non ci risulta abbia mai avuto simpatie per i bolscevichi o abbia frequentazioni con il moderno estremismo di sinistra, giustamente, pur con il suo linguaggio sobrio e libero da preoccupazioni propagandistiche, non può non arrivare anch’egli, realisticamente in base alle premesse incontestabili di cui sopra, all’accorato appello della delegittimazione dell’Onu.

Contro queste conclusioni si oppone la tenacia riformista di chi crede furiosamente di poter trasformare i sassi in oro. A ben guardare, però, non di volontarismo si tratta, ma di cinica politica che, strumentalizzando il sentimento di pace universale e agitando impossibili riforme, gira e rigira, finisce per utilizzare sempre gli stessi sassi.

MA NON OCCORRE RICHIAMARSI COMUNQUE AD UN’AUTORITA’ INTERNAZIONALE?

Ci è stato obiettato da alcuni pacifisti non istituzionali che comunque è auspicabile un organismo internazionale che limiti la prepotenza delle grandi Stati e in particolare oggi quella degli Usa. L’auspicio –se vogliamo tradurre- significherebbe che la maggioranza dei paesi deve riunirsi in Assemblea Generale in un paese, ad esempio, come l’India; che questa Assemblea deve avere un potere costituente e si dia una Costituzione; che questa Assemblea si deve dare un esecutivo e un esercito per far rispettare le sue decisioni. E, poiché queste decisioni, se vogliamo dare coerenza alle analisi dei pacifisti radicali, dovrebbero essere imposte il più delle volte alle grandi potenze e oggi in particolare agli Usa, l’esercito onusiano, deputato a farlo, dovrebbe agire contro questi ultimi.

Bene. Pensiamo allora che tutto questo grande rivolgimento possa essere attuato a New York, tramite una decisione dell’attuale Onu, del suo Consiglio di Sicurezza, della sua Assemblea Generale, su imbeccata del suo “eroico” Segretario Kofi Annan? E pensiamo, anche ammesso che venga assunta una simile decisione, che il nuovo Onu continui ad avere ancora l’adesione degli Usa et similia? O, se questa è la vera intenzione pacifista, non è più verosimile mettere prima in crisi questa Onu, metterla in crisi con lo sganciamento progressivo dei vari paesi deboli, dicendo chiaramente quello che l’Onu attualmente è?

Noi propendiamo per questa seconda ipotesi, anche perché la prima, al di là dei soliti “desiderata” ipocriti, ha sempre funzionato per legittimare tutte le iniziative sporche dell’Onu.

D’altra parte, anche un altro ipotetico organismo mondiale, nato con più nobili intenzioni e dotato di una vera Costituzione democratica, non poteva che essere come è l’attuale Onu. Questo vero altro governo mondiale, su un pianeta disseminato da Stati ricchi e superpotenti sotto i quali sono distribuiti tanti paesi poveri o deboli o comunque dipendenti, non potrebbe che rispecchiare i veri rapporti di forza. Sic rebus stantibus, tale vero e altro governo mondiale non è neppure auspicabile.

Un malinteso internazionalismo proletario porta talvolta a vagheggiare anche all’immediato un siffatto governo mondiale, magari come pallida idea, allusione, incoraggiamento a quello che si darà domani. Se gli anni novanta del secolo scorso sono stati un’avvisaglia di come possano funzionare certe pallide idee, è bene che anche un certo internazionalismo riconsideri meglio qualche sua ingenuità e si metta a camminare sulle gambe di un movimento mondiale autonomo.

…MA ANCHE GLI USA VOGLIONO SBARAZZARSI DI QUESTA ONU

E’ vero, ma ciò non dipende dal fatto che nell’Onu si stia affermando sempre di più la volontà della maggioranza degli Stati, in particolare di quelli “deboli”. Gli Usa sono talvolta insofferenti all’Onu e forse lo saranno sempre di più, perché nel Consiglio di Sicurezza (dove solo si vota) si riflette sempre di più il contrasto tra gli stessi, la costituenda Europa, il Giappone, la Russia e la Cina. Qui il contrasto è di interessi per lo più imperialistici e il più delle volte riguarda la spartizione della torta, non la difesa dei paesi deboli. Ne deriva che, quando vi è spartizione o do ut des, anche il contrasto viene sanato.

Il pacifismo istituzionale in prima battuta, cioè a livello di esplicitazione pubblica, nega la natura di questo contrasto e cerca di fare intendere che il veto a certe iniziative Usa sia stato espresso allo scopo di difendere la pace o comunque i popoli indifesi. Questa negazione urta però contro l’evidenza dei fatti. Anche a noi può risultare simpatica la Francia che si oppone all’aggressione all’Irak, ma –come a qualsiasi uomo della strada- non verrà mai in mente che lo faccia per motivi umanitari, conoscendo le sue gesta recenti in Ruanda e attuali nella Sierra Leone. Né in questo caso, possiamo sostenere che non contano i processi volitivi bensì i risultati e cioè –volendo parafrasare Adam Smith- che l’egoismo francese si risolva obiettivamente in un altruismo benefattore. Una simile disinvoltura non solo non ci fa cogliere che la Francia (come la Germania e la costituenda Europa) si oppone agli Usa in una dinamica che si approssima alla guerra, ma ci rende soprattutto impreparati ai voltafaccia nel caso in cui gli Usa sono di nuovo disposti a spartire. Come spiegare altrimenti la distrazione del pacifismo istituzionale sul voto favorevole del Consiglio di Sicurezza all’occupazione dell’Irak dopo che questi era stato così brutalmente invaso?

In seconda battuta o, se si vuole, con linguaggio cifrato, il pacifismo istituzionale prospetta che realisticamente, non essendoci alternative radicali al momento, il mantenimento dell’Onu ovvero del Consiglio di Sicurezza con i suoi contrasti è l’unico mezzo per contenere l’egemonismo divoratore degli Usa. Abbiamo però verificato che ciò non è fondato, perché gli Usa fanno comunque quello che vogliono, e lo fanno anche gli altri, nei limiti della loro forza.

Tutto inutile, allora? No. L’unico risultato “utile” dell’Onu, che resta ancora legittimato, è quello che riguarda le cosiddette ingerenze umanitarie. Quando, infatti, per accordi di interessi nel Consiglio di Sicurezza, si decide di invadere un paese debole, la mobilitazione di massa per contrastarlo deve superare non poche mistificazioni, cui concorrono schiere di filosofi, giuristi, giornalisti, progressisti, politici e sindacalisti. Solo dopo si saprà che in Somalia i soldati italiani torturavano gli “incivili” con la corrente elettrica ai testicoli, solo dopo si saprà che il genocidio perpetrato dai serbi ai danni dei kossovari era una colossale montatura, ecc. ecc. Certo, non è mai troppo tardi, ma sappiamo pure che i nostri contemporanei riformatori sono diventati abilissimi nell’arte della novità: quello che è stato è stato, oggi la situazione è completamente nuova e quindi l’intervento umanitario questa volta sarà veramente umanitario (…nel senso di veramente manesco, visto che il brillante aggettivo deriva da “umano” che a sua volta deriva da “mano”?) In altri termini, non ci troviamo di fronte ad una politica del “meglio poco che niente”, ma ad una politica che continua a legittimare un organismo istituzionalmente e strutturalmente idoneo solo a mantenere i privilegi delle grandi potenze.

L’ONU PER GARANTIRE IL PASSAGGIO ALL’AUTOGOVERNO E ALLA DEMOCRAZIA

L’ipocrisia del pacifismo istituzionale si manifesta proprio con questa proposta. Questo pacifismo spesso si copre dietro la precisazione secondo cui le forze dell’Onu –che si insedierebbero “temporaneamente” in Irak- devono escludere quelle coinvolte nell’attuale occupazione. Assunta seriamente la precisazione porta ad un’unica conclusione: l’uso della forza militare per scacciare dall’Irak gli Usa e i suoi attuali sodali. Se infatti i veri motivi dell’invasione sono di ordine economico, finanziario e di egemonia (e sono abbastanza rilevanti), non si vede con quale altro mezzo si possa convincere gli attuali occupanti a sbaraccare. Non crediamo però che i nostri pacifisti istituzionali siano dei visionari né che desiderino una guerra all’immediato contro gli Usa. Ben noti come europeisti, di questa costituenda Europa magari aggiustata, attenti ai rapporti di forza, il vero loro obiettivo è quello di favorire l’ingresso in Irak anche degli attuali esclusi. A tal fine, aspettano un aiuto anche da una nuova amministrazione statunitense.

Questo obiettivo non è necessariamente perseguibile con la forza militare, poiché –come si legge dalle dichiarazioni anche esplicite della Casa Bianca e dalle mediazioni dell’anfibia Gran Bretagna- è in qualche modo prospettato anche dagli attuali occupanti in difficoltà non solo di fronte alla resistenza irakena ma anche di fronte ad un mondo troppo grande –e in turbolenza- per essere gestito in esclusiva. Ed è su questo terreno che si sta svolgendo la trattativa (iniziata con l’ammiccamento del voto favorevole all’occupazione del Consiglio di Sicurezza), che vede l’amministrazione Bush insistere su un eccesso di egemonia americana e gli altri per una più equa spartizione del bottino. In questa trattativa il bene degli irakeni sta come i cavoli a merenda: lo sappiamo, lo sanno tutti, ma il fair play del ristretto mondo politichese ci impone di non esprimere questa volgarità; in questo mondo di castigati cortigiani il Re non può essere nudo!

Un vero movimento per la pace non può farsi strumentalizzare per questa sordida trattativa, tanto più se nel contempo questo movimento si propone di cambiare il mondo imperial/capitalistico. Un cambiamento del genere presuppone e comporta l’attivizzazione della maggioranza degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo, maggioranza localizzata in paesi come l’Irak. Questo concetto può sembrare bizzarro ad alcuni “dirigenti” altromondisti, secondo i quali valori, contenuti e forme di lotta vanno parametrati su quanto si esprime nel nostro 1/6 dell’umanità. Nondimeno i numeri e le lotte parlano chiaro e di questo si è avuto un assaggio al social forum mondiale di Mumbai, dove qualche nostro altromondista ha cercato, con scarso successo e mille patetici sotterfugi, di inserire nei documenti la solita condanna occidentale (una vera ossessione in Italia) del terrorismo.

Ebbene, vista la questione dell’Onu sotto questo profilo, l’invocazione della sua presenza in Irak suona come un doppio insulto agli irakeni. Prima di chiarirlo, intanto ogni persona seria non può far finta di non vedere che gli irakeni hanno più volte protestato vivacemente contro la presenza dell’Onu durante l’occupazione, sicché anche tale presenza dovrebbe essere loro imposta con la forza. Al solito si è cercato di menare scandalo o di attribuire la protesta agli arabi stranieri (aggettivo quanto mai inopportuno se si considera che le truppe di occupazione sono tutte straniere), ma evidentemente si pensa che gli irakeni (irakeni!) debbano dimenticare che:

- la prima aggressione del 1991 fu condotta sotto le bandiere dell’Onu e produsse centinaia di migliaia di morti e distruzioni e che molti furono uccisi pur essendosi arresi o vagavano inermi per il deserto;

- l’embargo di oltre 10 anni è stato subito sempre con l’avallo dell’Onu e ha prodotto più morti dell’aggressione militare, soprattutto tra i bambini,

- subito dopo l’invasione l’Onu ha di nuovo legittimato l’occupazione del loro territorio.

Per quale motivo l’Onu dovrebbe “temporaneamente” installarsi in Irak? Perché gli irakeni da soli non possono immediatamente autogovernarsi in modo democratico.

Verrebbe subito da dire: ci risiamo, ci troviamo di fronte al solito razzismo colonialista, che giustifica la sua invadenza con l’immaturità dei popoli che opprime. Magari razzismo in salsa progressita come quello del Partito comunista francese (ci ricorda spesso Balibar) all’epoca della sua indifferenza (pro governo francese) rispetto alla lotta di liberazione algerina. Anche allora, viva la libertà dei popoli, ci mancherebbe altro, ma a piccole dosi!

Nel nostro caso però si giura e spergiura che l’aiuto dell’Onu si impone per evitare che gli irakeni cadano preda dei terroristi e/o di altre dittature. Prendiamo per vero l’antirazzismo dei pacifisti sostenitori dell’Onu: anche per loro, il popolo irakeno, nato nella culla della civiltà, è capace di autogovernarsi, ma si trova ostacolato dai terroristi e dai dittatori.

In effetti, si dice sempre che è incapace di autogovernarsi, solo che lo si dice con una contorsione neanche tanto raffinata. Ciò che però è più grave e che con questi argomenti si finisce per legittimare l’invasione e l’occupazione dei Usa.

A tal punto, diventa a dir poco singolare pretendere che gli Usa sbaracchino (o facciano un po’ di posto), perché non avevano motivo di invadere e occupare l’Irak, e nel contempo pretendere la presenza Onu per impedire rigurgiti terroristici e dittatoriali. Caduto miserabilmente il pretesto delle armi di distruzione di massa, Bush va sostenendo che l’intervento militare comunque si imponeva per rovesciare una dittatura e per impedire che in Irak si coagulasse il terrorismo internazionale. Insomma, da neo-allievo di Habermas è come se avesse detto che “la sua aggressione non era giusta (perché le armi di distruzione di massa non c’erano), ma era giustificata (per via del dittatore e dei terroristi).

Forse, non abbiamo ben capito, ma cosa altro dicono quelli che invocano la presenza dell’Onu in Irak? La differenza consisterebbe nell’aggiunta dell’avverbio “temporaneamente”? Ma anche Bush parla… all’infinito…di occupazione temporanea. Si troverà poi sempre qualche filosofo progressista che si metterà a disquisire sulla categoria del “tempo”, scatenando un’altra telenovela di raffinatezze concettuali.


P.S.

Negli ultimi incontri del comitato che sta preparando in Italia la manifestazione mondiale del 20 marzo si è voluto più volte far capire che, se gli appelli non invocheranno le virtù salvifiche dell’Onu (e la condanna del terrorismo), la Cgil e l’Arci non prenderanno parte alla manifestazione. Poiché la pretesa non riesce ad avvalersi di fondate e ragionevoli motivazioni da un punto di vista pacifista, ci troviamo di fronte ad un obliquo ricatto, che deve essere respinto per vari ordini di motivi.

In primo luogo, va fatto rilevare che si tratta di una pretesa tutta italiana, visto che gli appelli degli organizzatori mondiali della manifestazione (“Answer”, “forum europeo” tenutosi a Parigi e “forum mondiale” tenutosi a Mumbai) si sono guardati bene dall’invocare l’intervento dell’Onu nei paesi colonialmente occupati.

In secondo luogo, non si capisce se Cgil e Arci parlano a nome di tutti i loro iscritti o della loro “maggioranza” diessina, notoriamente favorevole agli interventi umanitari e ambigua sull’ultimo intervento in Irak.

In terzo luogo, è inammissibile che i diessini “sociali”, pur avendo posizioni ambigue sulle aggressioni militari, pretendano di voler “arricchire” un appello, formulato su obiettivi unitari, con il messaggio che altrimenti non prenderanno parte alla manifestazione. Un movimento che si batte contro la guerra “senza se e senza ma” non ha bisogno di simili arricchimenti che, a tutta evidenza, suonano “come se e come ma” al rifiuto della guerra ed in particolare alle guerre di aggressioni neocoloniali. D’altra parte, se Cgil e Arci –come rappresentanti dei DS- hanno una vera vocazione e una ferma posizione contro le aggressioni neocoloniali, possono ben scendere in piazza con la loro “ricca” piattaforma, togliendoci così l’impressione che il loro unico obiettivo sia quello di frenare il movimento mondiale che comunque manifesterà il 20 marzo.

In fin dei conti, anche a Genova 2001 ritennero di non partecipare, ma la loro assenza davvero non fu una grande perdita.

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