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Emergenza profughi, internazionalismo alla prova

(6 Aprile 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

In febbraio, di fronte alle rivolte popolari del Nordafrica, il ministro di polizia Roberto Maroni paventò il pericolo di «esodi biblici». Parlò di 80mila profughi, pronti a sbracare sulle spiagge italiane. In realtà, a tutt’oggi, i profughi sono poco più di un quarto (22mila), ma sono sempre troppi per i padroni e per il loro governo. E il flusso continua. E continuerà.

In questi due mesi, nonostante i toni allarmistici, il governo non ha fatto un tubo per accogliere i profughi. Ha improvvisato, in attesa che la UE facesse la propria parte, ovvero che sganciasse un po’ di quattrini. Intanto ha lasciato che a Lampedusa la situazione degenerasse, per fomentare i sentimenti razzisti che, dall’isola, hanno percorso lo stivale e, gonfiati, sono giunti sul sacro suolo della Padania.

Tutto ciò contribuisce a creare un clima di emergenza, che giustifica misure eccezionali.

Subito è miseramente fallita la bizzarra pensata del responsabile delle relazioni esterne, Frattini, di dare 1.500 euro ai profughi, per indurli a tornare a casa. Dopo di che, il governo ha proposto un’equa distribuzione dei profughi in alcune regioni italiane, dove verranno allestite tendopoli, scegliendo, preferibilmente, aree militari dismesse, con edifici fatiscenti. Sono vere e proprie succursali dei CIE, recintati e sottoposti a controllo militare.

Il primo esperimento è stato fatto a Manduria, in Puglia, in un ex aeroporto militare. Nella sua sgangherata improvvisazione, potrebbe essere un test, per vedere i comportamenti dei profughi e degli italiani, trascinati nello scontro tra solidarismo e razzismo. Procedono intanto le porcherie degli appalti: dal catering ai trasporti.

Da dove vengono e chi sono i profughi

Forse perché «spettacolari», gli sbarchi di clandestini sono stati esagerati dai media e dai politicanti, un realtà, fino al 2008, sono stati molto contenuti, circa 20mila l’anno, e rappresentano poco meno del 13% degli stranieri irregolari presenti in Italia. L’aumento si è avuto con la crisi economica globale, che negli ultimi mesi, in Nordafrica, è stata aggravata dalle speculazioni sui prodotti alimentari. In breve tempo, i prezzi sono raddoppiati e sono scoppiate rivolte, che si sono estese al Medio Oriente e, via via, fino allo Yemen, arricchendosi di significati politici. I primi profughi giunti in Italia sono soprattutto tunisini, che evidentemente non sono soddisfatti della semplice cacciata di Ben Ali, e chiedono altro, come dimostrano gli scioperi di questi giorni. Ma anche perché il crollo del regime ha scardinato i provvedimenti anti-emigrazione (Centri di permanenza), imposti nel 1998 alla Tunisia dall’Italia, ma che a breve potrebbero essere ripristinati (e aggravati).

Ma questi flussi sono solo la prima manifestazione di un fenomeno molto più profondo. Come ho già sottolineato (Fuga, Fame, Finanza: a proposito di esodi biblici), rappresentano le avanguardie di un immenso esercito industriale di riserva, costituito dalla crescente massa di proletari «senza risorse», la cui sorte è strettamente legata ai chiari di luna del modo di produzione capitalistico. Alle spalle del Nordafrica, c’è l’Africa sub-shariana, dove una situazione di endemica miseria genera da anni un costante flusso migratorio. Oltre a disoccupazione e fame, ci sono le guerre (più o meno «civili») e i regimi dispotici che inducono migliaia di persone alla fuga, come gli eritrei e i somali. In questi ultimi anni, secondo dati del Ministero di Polizia, le prime dieci nazionalità dei migranti sbarcati in Sicilia erano: Somalia, Nigeria, Tunisia, Ghana, Marocco, Egitto, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Eritrea e Togo. Alcuni sono in cerca di asilo politico, che le restrizioni rendono tuttavia molto aleatorio: dal 2001 le domande d’asilo accettate da 44 Paesi industrializzati sono passate da 620mila a 358.800 nel 2010 (l’Italia è passata dai 30.300 del 2008 ai 8.200 del 2010). La maggior parte cerca migliori condizioni di vita, affrontando mille pericoli. Difficile stabilire il loro numero, poiché molti arrivi sfuggono ai controlli e ai censimenti polizieschi.

La meta sono alcuni Paesi europei, Francia e Germania in primis. Per molti, l’Italia è solo un punto di transito, anche se spesso finiscono per restarci, invischiati dalle leggi securitarie, che favoriscono non solo il lavoro nero, ma anche intrallazzi a loro danno, fatti di ricatti e minacce. Chi ne trae vantaggio sono i padroni italiani, che si ritrovano una forza lavoro a buon mercato e sottomessa.

Da una decina d’anni, i punti di partenza dell’emigrazione sub-sahariana verso l’Italia si sono spostati in Libia, lungo le coste tra Zuwarah e Tripoli, dove si congiungono le rotte dei migranti, provenienti sia dall’Africa Occidentale sia da quella Orientale, da cui giungono anche i migranti dell’Oriente (Bangladesh, Sri Lanka, Filippine). Gli accordi italo-libici di questi ultimi anni hanno cercato fermare il flusso, con misure repressive e sanguinarie. Ma ora, sotto i colpi dell’insorgenza libica, gli ostacoli sono saltati e gli imbarchi potrebbero riprendere, ingrossati dalla presenza dei libici stessi.

Le conseguenza del conflitto libico si stanno ripercuotendo in una vasta zona dell’Africa, gettando benzina sul fuoco che alimenta i flussi migratori. Il 31 marzo 2011, l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati (ACNUR) ha calcolato che dall’inizio del conflitto (poco più di un mese) 423mila persone hanno lasciato la Libia: 200mila sono fuggiti in Tunisia, 160mila in Egitto, 18mila in Niger, 10mila in Algeria, 5mila in Ciad, 3mila in Sudan, a costoro si aggiungono i 2mila profughi sbarcati in Italia e a Malta.

Contro la guerra, con chi. E come

L’intervento militare contro Gheddafi ha ulteriormente sconvolto lo scenario nordafricano. L’intervento è avvenuto all’insegna dell’avventura (Francia e Inghilterra) e dell’incertezza (USA), svelando il grado di declino delle residue potenze imperialiste. L’Italia, maggior partner commerciale della Libia, si è schierata in seconda fila. Lo scopo vero della guerra è il controllo delle ribellioni, che ormai da tre mesi scuotono il Maghreb, l’Egitto e il Medio Oriente. E che non accennano a sedarsi, anzi, stanno assumendo più definite connotazioni di classe, alimentando una diffusa instabilità. Ovviamente, gli aggressori pensano anche di trarre qualche vantaggio immediato: c’è il petrolio e c’è anche la finanza (vedi Andrea Fumagalli, La guerra finanziaria in Libia, che mette il luce alcune spinose implicazioni. Ma difficilmente in Libia potranno mutare più di tanto le attuali sfere di influenza, frutto delle delicate mediazioni costruite negli anni, che sarebbe pericoloso turbare. I contendenti hanno tutti il fiato corto e possono giungere solo a soluzioni di compromesso, senza escludere Gheddafi. Tutte le più ardite aspirazioni di un Sarkozy e di un Cameron devono fare i conti con la crisi sistemica del modo di produzione capitalistico che, da un momento all’altro, può far scoppiare inaspettate e imprevedibili ribellioni, dove meno se le aspettano. Anche in casa loro.

In Italia, il movimento contro la guerra ha provocato reazioni sparute e soprattutto confuse, in un pantano in cui si intrecciano cretinismo democratico e nostalgie nazional-stataliste. Sono scesi in campo gli ultimi pacifisti «senza se e senza ma» e i soliti «antimperialisti», pronti a scagliarsi contro gli USA, sfumando così il ruolo dell’imperialismo italiano. E soprattutto sfumando le insorgenze arabe, se non infamandole (come fanno i nazional-comunisti della la Rete dei Comunisti-Contro Piano & Co.). Così facendo, intralciano l’unica vera risposta alla guerra, quella dei proletari.

Le insorgenze, le rivolte, le ribellioni, che stanno sconvolgendo Nordafrica e Medio Oriente, sono il vento nuovo contro oppressione e sfruttamento, che ora, con l’arrivo dei profughi, comincia a soffiare anche in Italia. Ed è su questo terreno che si gioca la battaglia internazionalista, contro il nostro governo e contro la nostra borghesia. E contro un sistema economico, il modo di produzione capitalistico, che fa acqua da tutte le parti.

Oggi, in Italia, internazionalismo proletario significa lottare contro i CIE e i nuovi lager, che frettolosamente il governo sta allestendo, e contro ogni provvedimento repressivo e razzista. Significa contrastare i controlli polizieschi sugli extracomunitari, che con il pretesto dell’emergenza profughi si stanno inasprendo. Significa favorire e promuovere nei posti di lavoro e nei quartieri l’unità di lotta tra lavoratori italiani ed extracomunitari. Significa rivendicare il diritto di libera circolazione per tutti. Significa partecipare alle iniziative di sostegno alle insorgenze dei Paesi arabi.

Tutto il resto sono chiacchiere, inutili e dannose.

3 aprile 2011

Dino Erba

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