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Arabia inaudita

Arabia inaudita

(19 Giugno 2011) Enzo Apicella
Le donne dell'Arabia Saudita sfidano il divieto di guidare un auto

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Riflessioni sulla Libia e sulla rivoluzione araba

(6 Aprile 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Per formulare giudizi sicuri sulle gigantesche lotte che si svolgono nel Nord Africa e nel Medio Oriente sarebbe necessaria una conoscenza approfondita delle condizioni sociali, delle strutture politiche dei principali stati, della lingua araba e della storia dell’intera regione. Conoscenze non molto diffuse in Italia. Non bisogna mai dimenticare che il marxismo – diceva Engels - è un filo conduttore per i fatti storici e sociali, e non uno schema preconfezionato sul quale tagliare su misura i fatti storici e sociali, come sul letto di Procuste, senza darsi la pena di studiarli a fondo.

Altro grande ostacolo è la mancanza di esperienze rivoluzionarie recenti. I bolscevichi avevano fatto la grande prova generale della rivoluzione del 1905. Noi, per avere una guida nell’interpretazione dei fatti, dobbiamo compulsare i libri che sintetizzano le grandi esperienze del passato. Quanti “uomini d’azione” hanno creduto di cogliere la giusta posizione politica senza un’accurata analisi, e si sono ritrovati a combattere su posizioni che non appartenevano alla loro classe, ma a quella avversa. Per quanto importanti, le lotte sindacali, le manifestazioni di piazza, le denunce politiche, e anche le forme di repressione subite, non possono sostituire una vera esperienza rivoluzionaria.

Questo, per mettere in rilievo il carattere generale e provvisorio delle considerazioni che seguono.

Le sollevazioni popolari toccano zone vastissime, e sarebbe un errore isolare una rivoluzione egiziana, una tunisina, una yemenita, una libica, ecc. Se una rivoluzione è veramente tale, è difficile circoscriverla nello spazio, e ancor più in profondità. Guai a sottovalutarla, e, se adesso pone l’accento sulle rivendicazioni di libertà politica, guai a classificarla come rivoluzione borghese pura e semplice. E’ menscevismo porre un muro tra la rivoluzione borghese e quella proletaria. La rivoluzione russa cominciò con l’abbattimento dello zarismo, poi si sviluppò in profondità, e non solo abbatté il potere borghese, ma mise in crisi avversari e alleati. Di fronte alla propaganda proletaria, l’esercito più potente del mondo, quello tedesco, che aveva tenuto testa a una grande coalizione, cominciò ad entrare in una crisi irreversibile, quando ancora occupava vastissime zone dei paesi antagonisti. Per alcuni anni, molti paesi d’Europa, vincitori o vinti, e la stessa Cina furono sconvolti da lotte sociali potentissime.

Il paese determinante della rivoluzione araba è senza dubbio l’Egitto, con oltre 80 milioni di abitanti gremiti in un territorio più piccolo della Danimarca, perché solo una minima parte del grande stato non è desertica. Col suo proletariato e le vastissime masse di semiproletari e diseredati, costituisce senza dubbio il polo rivoluzionario del mondo arabo.

In Egitto, la situazione al momento è sotto il controllo dell’esercito, e se lo scontro fosse tra questo e la masse, non ci sarebbe speranza. Ma, nei periodi di fermento sociale, nell’esercito si accentuano le divergenze tra i gradi elevati di origine borghese e quelli più bassi d’origine popolare, se non proletaria, e gran parte della truppa può essere conquistata alla rivoluzione. E’ la condizione senza la quale ogni tentativo insurrezionale si frantumerebbe contro un muro d’acciaio.

Bisogna tener conto, poi, che negli alti gradi è probabile uno scontro tra nazionalisti e fautori della subordinazione agli USA, tra i quali molti ex seguaci di Mubarak riciclati, e i rivoluzionari potrebbero utilizzare questi contrasti, a patto di non concedere la loro fiducia a nessuna delle due fazioni.

Un articolo di Silvia Mollicchi su Peace Reporter cerca di ricostruire il clima presente in Egitto, e nota una divaricazione tra operai e attivisti. Ricorda che, quando il sit-in di Tahrir perdeva intensità, “sono state le mobilitazioni dei lavoratori, che, fermando l'economia, hanno rilanciato la protesta, contribuendo in maniera forse determinante all'estromissione di Mubarak”. Oggi, nei cartelloni e nei cori di piazza Tahrir non c’è traccia delle rivendicazioni operaie, mentre i lavoratori rispondono: “quando scrivi ricorda: questa è una protesta di lavoratori, la politica non c'entra. In passato abbiamo promosso iniziative politiche, ma non questa volta”.(1)

Certo, può darsi che i lavoratori esitino a rendere pubbliche le loro posizioni politiche, almeno individualmente. Oppure ciò può indicare una diffidenza e un fastidio per parole d’ordine troppo lontane dalle rivendicazioni economiche e sociali degli operai. Ma questo non significa che non abbiano posizioni politiche e che abbiano abbandonato la lotta, che ha un effetto oggettivo enorme. Per cui è significativa l’osservazione della Mollicchi: “Forse, chiedersi quanto ci sia di politico dietro il discorso dei lavoratori incontrati, adesso, semplicemente non è il punto della questione. L'importante è che queste lotte vincano e non solo per il bene di chi le promuove, ma anche per evitare che la "rivoluzione" egiziana resti incompleta.” Questo è profondamente giusto, perché le lotte precedono e contribuiscono a formare la coscienza politica, anche se da sole non bastano.

L’intervento dei paesi imperialisti in Egitto è molto forte. Col pretesto del pericolo islamista, i consiglieri del governo tedesco della Fondazione SWP (Stiftung Wissenschaft und Politik – fondazione scienza e politica) propongono una ristrutturazione dello stato egiziano e di altri paesi arabi secondo il modello turco, un governo islamico che collabora con l’occidente. E’ una delle insidie più pericolose, perché viene da un paese, come la Germania, apparentemente defilato, dove sono numerosi gli esperti - di origine turca, ma non solo - che conoscono a fondo il mondo musulmano, e sanno trovare gli argomenti più convincenti.

Fattore indispensabile per il successo delle lotte è la formazione di una direzione rivoluzionaria, un partito che non si limiti ad agire in un solo paese, ma si occupi dell’intera area. Non è corretto dire che ci sono tutte le condizioni rivoluzionarie, ma manca la direzione, perché questa è una condizione essenziale, senza di cui, come dice Marx, anche il proletariato più combattivo è un giocattolo nelle mani della borghesia.

Se il polo rivoluzionario è l’Egitto, polo controrivoluzionario nel mondo arabo è invece l’Arabia Saudita, il paese che si regge su una gigantesca rendita petrolifera, è armato fino ai denti, e può provvedere alla repressione delle rivolte che si sviluppano nell’aria circostante. Il proletariato è in gran parte di origine straniera, e non riesce ancora ad avere peso politico. La monarchia teme un colpo di stato da parte dell’esercito, e, per sorvegliarlo, oltre agli sgherri del regime, ci sono anche esperti militari americani, nonché gli uomini della CIA.

La collaborazione tra USA e Arabia risale al 1945, all’incontro tra Abd el Aziz e il Presidente Roosevelt: il primo garantiva il petrolio, il secondo protezione. Da allora la collaborazione non si arrestò neppure con la scoperta che la moglie del principe Sultan, allora capo dell’intelligence, aveva finanziato Al Qaeda. Gli Stati Uniti li hanno riforniti di modernissimi missili, radar, e possono permettersi di reprimere i movimenti interni e quelli del Bahrein, senza che gli umanitari dell’occidente cerchino di esigere dall’Onu, non diciamo un bombardamento “umanitario”, ma neppure una censura.

Questa è la terribile situazione attuale. Gli imperialisti sono particolarmente attenti a questa zona, perché sanno che se la rivoluzione toccasse l’Arabia Saudita, tutto l’immenso apparato repressivo e di controllo messo in opera dagli USA e dall’occidente in generale, salterebbe in poco tempo, e la permanenza degli americani in Iraq diventerebbe pressoché impossibile. Non solo, diverrebbe insostenibile anche la situazione di Israele. Se lo sconvolgimento dell’intera area fosse forte e coinvolgesse l’Arabia Saudita, la stessa Israele potrebbe esserne contagiata. Questo paese, di fatto, è un esercito al servizio dell’occidente nel cuore del mondo arabo, e la sua popolazione prima o poi si stancherà di svolgere questo lavoro di Sisifo pericoloso e che le procura un odio immenso. La storia c’insegna che a volte i centri di reazione si mutano in punti di forza della rivoluzione. Nessun popolo è per natura reazionario o rivoluzionario, sono le situazioni storiche che lo portano a seguire l’una o l’altra via. La rivoluzione in Israele un’ipotesi remota, ma non impossibile. Chi, alla metà degli anni ’30 del secolo scorso avrebbe potuto pensare che il popolo vietnamita, non solo avrebbe cacciato i giapponesi, ma anche i francesi e gli americani? Che Cina e India avrebbero compiuto, in forme diverse, le loro rivoluzioni? O che gli imperi mondiali inglese e francesi si sarebbero dissolti, e i terribili militarismi di Germania e Giappone, nonché quello velleitario di Mussolini sarebbero crollati? Non confondiamo il realismo con la miopia politica di chi non si aspetta mai grandi cambiamenti, e non li vede neppure quando si svolgono sotto i suoi occhi.

Per quanto riguarda invece la Libia, il paese è caratterizzato dal peso enorme della rendita petrolifera. Il 90% del valore delle esportazioni è legata al petrolio. Se i dati dei giornali sono esatti, dei sei milioni di libici, circa un milione è dipendente dello stato. Il proletariato vero è proprio è composto in buona parte di immigrati. In assenza di un diffuso proletariato autoctono, le sorti della rivoluzione in Libia saranno decise o dall’imperialismo o dalla ripresa della rivoluzione egiziana. Il proletariato immigrato è stato cacciato. Ha influito certamente l’equivoco riguardante gli immigrati di colore, confusi con i mercenari di Gheddafi, ma questo sospetto poteva essere rapidamente dissipato, invece è stato rinfocolato ad arte. E la cacciata ha riguardato anche proletari tunisini ed egiziani, sui quali non poteva esserci errore, visto che parlano arabo come i libici. Quindi, non si può negare l’esistenza di una forte xenofobia. Una vera rivoluzione integra gli stranieri rivoluzionari, non li caccia.

Tra gli insorti, il grosso della popolazione - tra cui molti giovani consapevoli di non avere un futuro in questa società - essendo per 40 anni vissuto (e spesso nato) sotto il regime di Gheddafi, non ha esperienza politica. I dirigenti, in parte ex collaboratori di Gheddafi, o addirittura monarchici (la bandiera di re Idris esibita più volte avrà ben un significato!), si sono curati soprattutto di chiedere l’intervento dei paesi imperialistici, e non hanno provveduto a organizzare militarmente i giovani e gli altri settori di popolazione in grado di combattere. Più volte, quando i raid aerei hanno costretto le truppe di Gheddafi ad arretrare, molti si sono precipitati ad inseguirle, cadendo inevitabilmente in agguati. Errori, che neanche un caporale ben addestrato commetterebbe. Questo perché i dirigenti considerano i ribelli più un pericolo che una risorsa, e li lasciano andare allo sbaraglio, perché il vero aiuto se lo aspettano dall’imperialismo. Alla stampa internazionale hanno fatto capire che prima o poi disarmeranno i ribelli, ma attendono il momento giusto, per non creare un grave conflitto interno.

La cosa è particolarmente grave, anche perché Gheddafi sta adottando la tattica della guerriglia. Victor Kotsev scrive: “Dov'è finito l'esercito libico? Pochi giorni prima, aveva rappresentato una minaccia per Bengasi, città di oltre 500.000 abitanti e roccaforte dei ribelli.” “Le persone che passano per la strada che costeggia Sirte dicono che le forze di Gheddafi sono concentrate a circa 60 chilometri fuori dalla città, nascoste sugli alberi” (Al-Jazeera, il Lunedì). Un esercito di alberi in attesa del nemico - sembra un’immagine tratta dal Macbeth di Shakespeare. Non che sia una cosa molto strana – l’agguato è una parte fondante delle operazioni militari - ma questo segna certamente un cambiamento nella tattica di Gheddafi. Una guerra manovrata, alla Mao. La si può descrivere come un incrocio tra una guerra di posizione (difesa e conquista del territorio, strategia che gli eserciti solitamente applicano) e guerriglia (“tattica mordi e fuggi”, cioè piccole unità che si confondono tra la popolazione civile e che scompaiono facilmente).”(2) Questa tattica rende poco efficace il bombardamento aereo ed è insostenibile per i gruppi di ribelli, privi di un comando centrale e senza alcuna formazione militare.

L’Italia ha riconosciuto come solo interlocutore il governo provvisorio di Bengasi, e un potere riconosciuto da Frattini non può essere rivoluzionario.

Il vero aiuto per i ribelli libici, le donne e gli uomini del popolo, quindi, può arrivare solo da una ripresa della rivoluzione egiziana, perché altrimenti saranno sconfitti, sia nel caso di un successo di Gheddafi, sia di una sua cacciata con l’aiuto compromettente dell’imperialismo, che diverrebbe il vero padrone della Libia.

Gli Stati Uniti, in questi giorni, hanno assunto una posizione più defilata, e hanno ritirato dalle operazioni gli aerei del tipo Thunderbolt e AC-130, pur trattenendoli in zona “nel caso che le forze di Gheddafi costituissero ancora una minaccia... Poiché Francesi e Britannici non dispongono di simili apparecchi, la Nato non potrà più aiutare i ribelli in modo altrettanto efficace che all’inizio della campagna”. Questa posizione americana avrebbe provocato “un vivace alterco tra Barack Obama e Nicolas Sarkozy la scorsa settimana. Secondo molte fonti, i due si sono duramente affrontati lunedì scorso durante la videoconferenza... (alla quale partecipavano anche Angela Merkel e David Cameron)”.(3) Certamente, si tratta di una vittoria provvisoria di Robert Gates sulla “Signora della guerra” Hillary Clinton, ma ciò non deriva certamente dal desiderio di ottemperare alle direttive dell’ONU, che ipocritamente parla di proteggere le popolazioni civili e non di rovesciare Gheddafi, ma dalla volontà di spostare il peso maggiore della guerra sui partner europei e di alzare il prezzo del proprio intervento, lasciando deteriorare la situazione finché gli altri invocheranno gli Usa come salvatori. Una prassi non nuova, ma sperimentata in ben due guerre mondiali. Ne faranno le spese il popolo libico certamente, ma anche il demagogo Sarkozy, che forse si sta già pentendo di essere partito troppo presto, e di essersi assunto un carico troppo pesante per le sue spalle.

“Alimentare i conflitti, "balcanizzare" il territorio, lasciare rovine, frammentazioni etniche e sociali, affidarsi a emergenze umanitarie... Tutto ciò consente agli squali di abbuffarsi copiosamente. Nascono nuovi affari. Perché, nel caos, è più facile costruire nuovi equilibri. Fino a quando riemerge un altro rais, con il quale stringere altri patti. E la giostra ricomincia. Fino alla bomba successiva. E alla selva di nuovi commenti scandalizzati. Lo chiamano "sano realismo". (Che, per le diplomazie di mezzo mondo, significa solo badare al proprio business). Dobbiamo accettare passivamente di far parte di questo teatrino dei burattini?”.(4)

Chi ha osato smascherare così i grandi della terra, gli umanitari per definizione? Quale bolscevico ha scritto questo brano? Si tratta in realtà del giornale dei padri comboniani “Nigrizia”. Tutt’altra posizione da quella del “cappellano militare ad honorem”, cardinal Bagnasco.

4 aprile 2011

Note:

1) Silvia Mollicchi, Peace reporter,25/02/2011, “Egitto, viaggio tra i lavoratori del Delta industriale. L'ondata degli scioperi in Egitto ha un obiettivo ben preciso: portare a termine il processo di cambiamento iniziato con la fine di Mubarak”.

2) Victor Kotsev, “Gheddafi come Mao”, atimes.com, in ComeDonChisciotte, 03 aprile 2011

3) http://globe.blogs.nouvelobs.com/archive/2011/04/03/sarkozy-et-obama-s-affrontent-sur-la-libye.html

4) Nigrizia, 1/4/2011.

Altri siti consultati:

http://corrieredellacollera.com/2011/03/11/il-contagio-sciita-tocca-larabia-saudita-ma-la-prima-linea-e-a-bahrain/

Joe Parkinson e Sam Dagher, “La repressione in Bahrain ha l’appoggio dei paesi vicini”.

Michele Basso

Fonte

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