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Non violenza e ministeri

articolo di Marco Ferrando pubblicato su Liberazione del 4 febbraio

(5 Febbraio 2004)

Non violenza, religione, partito della sinistra europea non rappresentano ambiti separati di dibattito ma tre diverse angolazioni di un unico tema di fondo: dove va il nostro partito? Un interrogativo che non riguarda solamente il cielo stellato delle idee, ma il terreno concreto della politica. Un interrogativo che chiama in causa la svolta politica di prospettiva che da un anno la maggioranza dirigente del Prc ha varato: la prospettiva di un governo comune con l'Ulivo e, quindi, di scioglimento dell'opposizione comunista in Italia.
E' mia precisa convinzione che questa svolta politica sia la base materiale della svolta culturale in atto, il suo alimento, la sua cifra. E che senza cogliere questa connessione si rischi non solo di "distrarre" il partito con la finzione, fosse pure involontaria, di un dibattito culturale separato, ma di disperdere senso e ragione dello stesso confronto teorico e dei suoi contenuti. Del resto: quando mai nella lunga storia del movimento operaio i dibattiti "teorici" sono stati avulsi dai confronti politici di linea sulla stessa dislocazione di classe dei comunisti?

"RITORNO A MARX" NEL NOME DELLA "NON VIOLENZA"?
"E' a priori indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della forza, sia in singoli episodi della lotta di classe come per la conquista finale del potere statale: è la forza che può prestare anche alla nostra attività pacifica e legale la sua particolare energia ed efficacia." (Violenza e legalità, 1902). Così Rosa Luxemburg -assunta incredibilmente come icona del nuovo partito non comunista della sinistra europea- polemizzava un secolo fa con le "nuove" teorie "non violente" della socialdemocrazia belga.
Come si vede il tema teorico della violenza ha una lunga storia politica nella vicenda del movimento operaio. E contrariamente a quanto si cerca di suggerire non ha mai riguardato la questione dei mezzi, se non di riflesso, ma essenzialmente la questione dei fini.
"Riforma sociale o rivoluzione?", così scriveva Rosa. La quale chiariva che l'alternativa non riguarda affatto la diversità dei mezzi (più lenti o più rapidi) per raggiungere i medesimi fini, ma proprio la diversità dell'obiettivo: o la conquista rivoluzionaria del potere politico da parte delle classi subalterne come leva della trasformazione socialista, o "inessenziali modifiche dell'ordinamento capitalista". Questo è stato sempre il discrimine di fondo tra rivoluzionari e riformisti, non altro. Ed ha attraversato, in forme diverse, due secoli di storia. Perfino il movimento operaio pre-marxista ne fu segnato: come nella lotta della sinistra "babuvista" in Francia contro il riformismo istituzionale di L. Blanc, o nella lotta dell'ala radicale del cartismo inglese contro la sua componente più moderata (che opponeva la "forza morale" alla "forza fisica"). Ma fu soprattutto Marx e il marxismo rivoluzionario, sin dal Manifesto del '48, a sancire la rottura con quello che definì "socialismo borghese": che "ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario in nome di semplici miglioramenti amministrativi che non cambiano affatto i rapporti di produzione tra capitale e lavoro ma, nel migliore dei casi, diminuiscono alla borghesia le spese del suo dominio" (Il Manifesto). Ed è sempre il Manifesto, com'è noto, a rivendicare la centralità della conquista del potere politico come "elevarsi del proletariato in classe dominante", possibile "solo con l'abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente": e ciò in polemica proprio col pacifismo riformistico delle vecchie sette del socialismo utopista che "respingendo ogni azione rivoluzionaria vogliono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici e cercano, con piccoli e vani esperimenti, di aprire la strada al nuovo vangelo sociale con la potenza dell'esempio" (Il Manifesto). Peraltro fu Marx a vedere nell'organizzazione e nella forza della Comune di Parigi, quale prima esperienza della dittatura del proletariato, "la forma finalmente scoperta dell'emancipazione del lavoro": attribuendo oltretutto le ragioni della sua sconfitta non certo già all'uso della violenza ma, al contrario, ad una politica troppo difensiva, anche sotto il profilo militare. E al riformista positivista di nome Duhring che con la predica della "non violenza" minacciava di influenzare il movimento operaio tedesco, fu Engels a contrapporre la difesa rigorosa del marxismo: "Per Duhring la violenza è il male assoluto: ogni uso di violenza avvilisce colui che la usa, egli dice: ma che la violenza abbia nella società anche un'altra funzione, una funzione rivoluzionaria, che essa sia secondo le parole di Marx, la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova... in Duhring non si trova neppure una parola. E questa mentalità di predicatore, fiacca ed insipida, ha la pretesa di imporsi al partito più rivoluzionario che la storia conosca?" (Anti-Duhring, 1878).
Siamo sinceri: teorizzare il "ritorno a Marx" nel nome della "non violenza" è davvero un'operazione insostenibile e, francamente, grottesca.

LE VIE "PACIFICHE" DI SOCIALDEMOCRAZIA E STALINISMO
E' vero invece che la "non violenza" e più in generale il pacifismo strategico ha costituito un tema centrale della battaglia politica e culturale antimarxista per oltre un secolo. E non per astratte ragioni etiche, ma in funzione della salvaguardia della società borghese o della riconciliazione con essa.
Ciò è avvenuto, in primo luogo, dall'esterno del movimento operaio: laddove ad esempio il celebrato Gandhi -già sostenitore dell'imperialismo inglese nella prima guerra mondiale, nella guerra anti-boeri e nella repressione sanguinosa della rivolta degli zulù in Sudafrica- elevò la bandiera della non violenza anche in opposizione al bolscevismo "a difesa del principio della proprietà privata e di Dio."
Ma è avvenuto anche dall'interno del movimento operaio e socialista. Tutto il revisionismo positivista che si sviluppò nella II Internazionale, a partire da Bernstein, sotto la pressione della burocrazia parlamentare della socialdemocrazia tedesca, elaborò la teoria della "via legale e pacifica" al socialismo come paravento ideologico del proprio adattamento al capitalismo: ciò che significherà, naturalmente nel nome... della "non violenza", il voto ai crediti di guerra, la repressione armata della rivoluzione tedesca, l'assassinio della Luxemburg e di Liebnecht. E' appena il caso di ricordare che il biasimato "comunismo novecentesco" di Lenin, Trotsky (e della stessa Luxemburg) nacque e si sviluppò esattamente nel segno del (vero) ritorno a Marx contro quella deriva.
Così lo stalinismo approderà alla "via pacifica al socialismo" lungo le orme della vecchia II Internazionale per dare copertura teorica alla svolta di governo dei fronti popolari con la borghesia liberale e alla propria integrazione progressiva nella democrazia borghese: ciò che significò, a difesa della "nuova" via... pacifica, la soppressione spietata non solo dei comunisti rivoluzionari ma di tutte le forze di classe che contrastavano la sua politica (Spagna, '36-'39), per di più spianando spesso la via alla peggiore violenza reazionaria. O vogliamo separare la sacrosanta denuncia degli orrori dello stalinismo dalla politica per cui vennero consumati?

COMUNISMO IN CIELO, MINISTRI IN TERRA
Ecco allora, a me pare, il lato abnorme della celebrazione ideologica della "non violenza" come nuovo asse identitario del nostro partito.
L'enormità non sta solamente -ciò che già è stato giustamente osservato- nello scarto tra questa ideologia e la cruda e immediata materialità dello scontro di classe internazionale, tanto più nella svolta d'epoca segnata dal ritorno prepotente delle politiche di potenza dell'imperialismo. Né solamente nello scarto con l'esperienza storica della lotta di classe di generazioni e di popoli oppressi. Né solamente nella pretesa, tutta idealistica, e davvero non nuova, di individuare nella violenza, astrattamente intesa, il peccato originario della storia umana al di là e al di sopra della storia reale: ciò che ad esempio consente l'assurda equiparazione di leninismo e stalinismo, entro un'unica filiera "culturale" ("la violenza"), e a dispetto della loro contrapposizione materiale (sociale e politica) nella storia.
L'enormità sta soprattutto nella prospettiva che la nuova ideologia di fatto rivela, in profonda continuità con il riformismo storico novecentesco: l'adattamento "critico" a questa società e a questo mondo, alle sue istituzioni e ai suoi governi borghesi "riformisti" (oggi oltretutto controriformatori). Naturalmente, come sempre, nel nome di "un nuovo mondo possibile" e delle migliori suggestioni etiche e filosofiche. Ma dentro un processo in cui lo stesso riferimento al comunismo slitta sempre più su un piano metafisico e celeste, perciò compatibile con il richiamo religioso e con la sua esaltazione: liberando il campo, nel mondo terreno, per le più disinvolte prospettive ministeriali. Perché proprio questa è la legge fisica della storia: chi respinge la conquista del potere dei lavoratori, magari nel nome della "non violenza", finisce col chiedere ministri nei governi della borghesia, che sono massimi organizzatori di violenza.

L'URGENZA DI UN CONGRESSO STRAORDINARIO
Già, la borghesia.
Sullo sfondo di un capitalismo italiano che vive, come ovunque, sulla violenza quotidiana dello sfruttamento, della frode, di un nuovo militarismo coloniale, il centro liberale dell'Ulivo e la sua stampa -già sostenitori di tutte le imprese imperialiste dell'ultimo decennio- mostrano esplicito apprezzamento per la svolta della "non violenza" da parte di Bertinotti, dentro il plauso per la più generale svolta di governo del Prc. Di più: vedono e applaudono in tutto questo la "Bad Godesberg" del Prc.
Si sbagliano, "non capiscono" da poveri ingenui la trama rivoluzionaria del nuovo disegno? Oppure capiscono sin troppo bene, la valenza politica del nuovo corso e il segnale rassicurante che configura: un comunismo ridotto alla terra promessa dell'al di là e il realismo di ministri ed assessori nella valle di lacrime dell'al di qua?
La verità -a me pare- è che la sola prospettiva di un governo con l'Ulivo e i suoi banchieri sotto la guida di Prodi già trascina alla deriva l'intero impianto politico-culturale del partito. Cosa mai comporterebbe la realizzazione pratica di quel governo se non la messa in discussione della ragione stessa del Prc e la distruzione definitiva della rifondazione?
Per questo credo che il congresso straordinario si confermi, una volta di più, come un'urgente necessità per tutto il nostro partito.

Marco Ferrando

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