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(24 Febbraio 2011) Enzo Apicella
Libia: rivolta di popolo o guerra per il petrolio?

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I lavoratori egiziani, la rivoluzione e l’esercito

(13 Aprile 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

In Egitto, centinaia di agenti della polizia militare hanno sgombrato con la violenza piazza Tahrir al Cairo, ucciso due dimostranti e ferito un numero imprecisato di persone.

Quando cade un regime, c’è un breve periodo di gioia e di festeggiamenti. Tutte le responsabilità e le colpe vengono addossate al dittatore, al tiranno. Strati della borghesia, fino ad allora esclusi dal potere, vengono cooptati e integrati, per cui si forma un nuovo fronte reazionario, più vasto e potente di quello demolito. Così la corrente dei Fratelli Musulmani, che per l’occasione si è data una verniciatura di semilaicismo, ispirandosi all’esempio turco. Si presenterà sotto un nome diverso, “Il Partito dello sviluppo e della democrazia”, dichiarando che il partito non ha una base religiosa. Il referendum sulla riforma costituzionale, più che altro un rifacimento di facciata, è stato approvato col 75% dei sì, e prova che la maggioranza della popolazione ha un livello di coscienza politica assai inferiore rispetto a coloro che hanno portato avanti la lotta.

Sarà necessario seguire con estrema attenzione gli sviluppi delle lotte delle classi in Egitto, cercando di discernere le fonti corrette dalla propaganda interessata della stampa borghese, perché quello che avverrà in questo paese sarà determinante. La centralità dell’Egitto nella rivoluzione araba è evidente, non solo per l’impressionante numero dei suoi abitanti, ma anche perché il paese costituisce una cerniera tra gli arabi d’Africa e quelli d’Asia, ed è contiguo al guardiano dell’imperialismo occidentale, lo stato militare di Israele.

La reazione congiunta del partito nazionaldemocratico (NDP) di Mubarak - ufficialmente sciolto, ma che si ricostituisce in altra forma - dei Fratelli Musulmani e degli alti gradi dell’esercito, costituisce un blocco sociale omogeneo per quanto riguarda gli interessi di fondo, nonostante le differenze ideologiche. L’offensiva, sia contro la piccola borghesia democratica, sia contro i lavoratori delle fabbriche, è cominciata. Le sorti della lotta nel mondo arabo dipenderà dal modo in cui queste classi, in particolare la seconda, riusciranno a reagire.

L’esercito in Egitto, finora, ha agito come un blocco unico. A differenza di quello tunisino, che ha sovente difeso i manifestanti, quello egiziano ha spesso assistito inerte ai tentativi dei fautori di Mubarak di schiacciare i ribelli. La spiegazione è nel diverso atteggiamento di Ben Ali e Mubarak verso i militari: “...Ben Alì temeva le ambizioni dei militari. Fin dalla sua ascesa al potere, nel 1987, l’esercito aveva subito una riduzione di effettivi e di mezzi, oltre all’allontanamento di molti dei suoi comandanti. L’incidente non chiarito dell’elicottero in cui, nel 2002, morirono il generale Abdelaziz Skik e diversi alti ufficiali ha accentuato la diffidenza tra il palazzo di Cartagine e l’istituzione”. Invece, Mubarak permise agli alti ufficiali di costruire “centri commerciali, città nel deserto, stazioni balneari... di occupare tutti i posti di governatore, le direzioni delle grandi imprese, posti nei gabinetti dei ministeri”.(1) Questo coinvolgimento spiega l’atteggiamento ambiguo dell’esercito, che di fatto ha sostituito Mubarak, e, almeno nei suoi vertici, porta avanti un piano gattopardesco.

Le forze che hanno portato alla caduta di Mubarak non sono omogenee. Ahmed Maher, coordinatore del Movimento del 6 aprile, ha dichiarato: “I lavoratori non hanno avuto un ruolo nella rivoluzione. Ne erano lontani”.(2) In realtà, se la piazza ha dato visibilità mondiale alle lotte, l’azione profonda, che ha inciso nel campo economico, si è avuta soltanto con gli scioperi. In Italia, manifestazioni oceaniche in giorni non lavorativi (quindi senza disturbare il capitale) hanno avuto risultati modesti. Neppure l’eroico comportamento di piazza Tahir poteva scuotere da solo il potere.

La divaricazione tra settori di piccola borghesia, interessati solo alla democrazia politica, e i lavoratori che vogliono aumenti salariali, riduzione dell’orario di lavoro, migliori condizioni rispetto alle condizioni infernali delle fabbriche, diventa inevitabile. Importa poco per i lavoratori avere elezioni non truccate e il diritto di parola, se lo strumento specifico della lotta proletaria, lo sciopero, viene limitato o proibito col pretesto degli interessi comuni della nazione, come stanno cercando di fare i “nuovi” governanti.

Sarebbe un grave errore, però, se i lavoratori volessero fare tutto da soli, considerando, alla maniera lassalliana, il resto della società una massa reazionaria. Più che con la piccola borghesia cittadina, i contatti vanno cercati con gli sfruttatissimi strati contadini. Non solo con i salariati agricoli, che sono proletari a tutti gli effetti, ma anche col piccolo contadino cosiddetto indipendente.

Ancor oggi c’è che storce il naso quando sente parlare di contadini. Eppure sono passati circa 90 anni da quando i comunisti condannarono l’atteggiamento dei massimalisti - Serrati in testa – che, sulla base di una presunta ortodossia, sdegnavano l’impegno politico presso i contadini. Si trattava di realizzare una forma di organizzazione che permettesse “di lavorare non solo fra i salariati agricoli, che stanno fondamentalmente sulla stessa linea dei salariati industriali, ma anche fra gli affittuari, piccoli coltivatori ecc., all'interno delle organizzazioni che difendono i loro interessi... Bisogna cercare di porre questa questione di fronte ai piccoli proprietari contadini, e presentare un chiaro programma contro la loro oppressione ed espropriazione. Bisogna romperla completamente con l'atteggiamento ambiguo del partito socialista in questo campo.”(3)

In un paese, come l’Egitto, in cui quasi il 30% della manodopera è ancora impiegato nell’agricoltura, sarebbe un suicidio trascurare la propaganda in questo settore.

La crisi economica è l’elemento risolutivo per le lotte, perché quando l’economia è florida non è possibile nessuna lotta rivoluzionaria. L’aumento del prezzo del petrolio, provocato dal conflitto in Libia, ha tuttavia un effetto duplice: un crescente malcontento per le conseguenze devastanti sulle popolazioni povere dei paesi dipendenti e delle metropoli imperialistiche, ma anche il rafforzamento di alcune roccaforti della controrivoluzione, a cominciare dalla monarchia saudita, che vedono incrementare i loro guadagni. Ma se il proseguire della rivoluzione o la sua sconfitta dipendono in ultima istanza dalla crisi economica, le scelte politiche dei lavoratori hanno grande rilievo. E tra queste, il giusto atteggiamento nei confronti dell’esercito. I rapporti di forza tra classe operaia e forze armate si sono sempre più modificati a favore di quest’ultime. Nella prima metà dell’ottocento, le rivoluzioni avevano le loro manifestazioni più imponenti nelle barricate, e spesso una grande città era in grado di resistere alle truppe dei monarchi. In seguito, con gli enormi progressi dell’arte militare, il rapporto tra truppe e città insorte divenne troppo squilibrato. Uno dei compiti della rivoluzione fu da allora la conquista di almeno una parte dell’esercito, togliendo all’avversario il più potente strumento di repressione. Nessuno insistette su questo problema più di Engels, anche se i tagli ai suoi articoli fatti da Wilhelm Liebknecht, timoroso di un ritorno delle leggi antisocialiste, e soprattutto interpretazioni superficiali o tendenziose di questi scritti, fecero sembrare Engels un antesignano delle deviazioni parlamentaristiche. Lenin e Trotsky capirono benissimo il problema, si batterono contro la pratica anarchica della diserzione o la mitologia del disarmo, e per il lavoro politico dentro l’esercito. E il frutto fu grandioso: il giorno stesso dell’insurrezione di Pietrogrado, il barone Budberg, comandante di un corpo d’armata, scriveva: “Lo scioglimento si avvicina, e l’esito non può essere dubbio: nel nostro fronte ormai non c’è un solo contingente... che non sia controllato dai bolscevichi”.(4)

La propaganda nell’esercito è determinante, non solo in periodi in cui si profila la conquista del potere, ma anche nelle fasi difensive. Se i lavoratori considerassero l’esercito come un blocco unico, non avrebbero alternative alla sconfitta. I massimi gradi sono parte integrante della borghesia, ma la truppa è di estrazione sociale molto più modesta, operaia o contadina. L’agitazione e la propaganda in questi settori è una condizione per mantenere ai lavoratori condizioni tollerabili di agibilità politica, e il modo più sicuro per prevenire tentativi di golpe da parte degli alti gradi militari. La formazione di una coscienza politica classista tra le truppe è una delle migliori garanzie per l’avanzata dei lavoratori. Non a caso, il lavoro politico nei confronti delle truppe era una delle condizioni di adesione alla III Internazionale.

E’ un presupposto per poter continuare a strappare nuovi risultati alla borghesia, senza essere ricacciati indietro con la forza. Gli alti ufficiali non possono reprimere i lavoratori quando sanno che i soldati si rifiuterebbero di sparare sulla folla. Oggi, purtroppo, hanno questo controllo sulla truppa, e, non essendo competere con loro sul piano della forza, è necessario e urgente il lavoro politico per togliere loro questo strumento.

Il nemico dei lavoratori arabi non è solo la borghesia locale, ma anche l’imperialismo. Non bisogna mai sottovalutare i suoi interventi, nelle sue forme apertamente militari, ma anche con le pressioni politico–diplomatiche, e con l’azione delle sue “agenzie”, di cui la famigerata CIA è solo la più famosa. E’ vero che USA e Inghilterra rischiano la bancarotta finanziaria, ma proprio ciò accentua il carattere di rapina del loro imperialismo. Il controllo della moneta in un paese occupato permette di succhiare il sangue di un intero popolo, anche indipendentemente da clamorose razzie. Si pensi, poi, alla cosiddetta privatizzazione di pozzi petroliferi, o miniere in Iraq, affari giganteschi e assai loschi. E chi gestisce il traffico di droga da paesi dove c’è un intervento americano, per esempio, Afghanistan e Colombia? La malavita organizzata? Certo, ma la forma di malavita organizzata più potente è proprio lo stato imperialista. Gli USA sono indebitati verso molti paesi? Quando mai uno stato superarmato ha accettato di andare a rotoli prima di mandarvi i creditori? Uno stato, che impedisce persino alle magistrature dei “paesi amici” di giudicare propri soldati per reati comuni o aver provocato disastri, non si formalizza certo per i debiti. Quale occasione migliore di una guerra, per togliersi d’impaccio? La decadenza economica alla lunga comporterà anche quella militare, ma non si può pensare a un rapporto meccanico tra i due processi.

E’ puramente illusorio pensare che gli USA non abbiano o non avranno, nell’immediato futuro, la possibilità di intervenire dovunque contro la ribellione araba, che potrà vincere solo se riuscirà a suscitare un movimento di solidarietà negli Stati Uniti e negli altri paesi imperialisti. Solo puntando sull’internazionalismo il movimento operaio può conseguire risultati positivi.

12 aprile 2011

Note:

1) Salam Kawakibi e Bassma Kodmani, “Gli eserciti, il popolo e i dittatori.”, Le Monde diplomatique”, marzo 2011.
2) Raphaël Kempf, “Radici operaie della rivolta egiziana”, Le Monde diplomatique”, marzo 2011.
3) Rapporto sul fascismo al V Congresso dell’Internazionale Comunista, tenuto da Amadeo Bordiga.
4) Lev Trotsky, “Storia della rivoluzione russa”, parte II, “L’arte dell’insurrezione”.

Altri articoli consultati:

“Egitto: esercito spara in piazza Tahrir, 2 morti”, http://www.nena-news.com e il pane e le rose, 10 aprile 2011.news.com
Alberto Tundo, “Egitto, l’ombra della restaurazione”, Peace Reporter, 11/4/2011
Dante Lepore, “L’imperialismo nel grande gioco Nord Africano”.
Dino Erba, “Il vento del Nordafrica e i sospiri dell’Italia”.

Michele Basso

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