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La questione della Libia. Caratteristiche “originali” di un conflitto “globale”

(30 Aprile 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.caunapoli.org

La questione della Libia. Caratteristiche “originali” di un conflitto “globale”

foto: www.caunapoli.org

Le ultime notizie che giungono dalla situazione libica (1) ci permettono di introdurre il discorso che si intende fare: da un lato Italia e Gran Bretagna hanno dato la loro disponibilità all’invio di istruttori militari in maniera da mettere a disposizione alcune “competenze” militari per l’addestramento delle truppe ribelli mentre Sarkozy ha annunciato un’intensificazione delle missioni aeree per la “salvaguardia” dei civili libici – mostrando in tal senso l’”utilità” della “missione diplomatica” del capo dei ribelli che proprio in questi giorni sta facendo il giro dell’Europa; dall’altro il ministro degli Esteri di Gheddafi Abdul Ati Al Obeidi ha annunciato alla BBC che un’eventuale interruzione delle operazioni belliche della NATO in Libia potrebbe aprire la strada a una soluzione “politica” e “pacifica” del confronto attraverso elezioni politiche sotto il controllo dell’ONU.
In tutto ciò si colloca anche la proposta avanzata dall’Unione Africana (UA), accettata dal governo di Gheddafi il 10 aprile ma rifiutata l’11 aprile dai ribelli, di una road map che prevedrebbe: 1) il cessate il fuoco immediato; 2) cooperazione per la distribuzione di aiuti umanitari; 3) protezione degli lavoratori “immigrati” residenti in territorio libico; 4) mediazione per la costruzione di un dialogo tra le parti. Questo per quanto riguarda gli ultimi aggiornamenti di una certa importanza.

È chiaro allora che per il momento si è ancora lontani da una qualsiasi forma di risoluzione del conflitto. Lo svolgimento della “guerra” vede la prevalenza delle forze di Gheddafi, che controlla la maggior parte dei terminali petrolifici; i ribelli dal canto loro non possono fare altro che “promettere” il petrolio e il gas qualora i “volenterosi” aumentino il loro impegno bellico fino alla sconfitta di Gheddafi. In questa maniera sembra profilarsi un ennesimo cul de sac bellico dato che, in periodo di crisi, i “volenterosi” non hanno voglia di impegnarsi in profondità e soprattutto non si ha intenzione di mandare a morire nessuno sul suolo libico.
Proprio per questo bisogna affrontare la questione della “crisi” libica, cercando di lavorare criticamente su un insieme di problemi per cercare di comprenderne la portata e l’importanza. È chiaro che quando ci si trova a dover fare un lavoro critico su un “qualcosa” che è ancora in atto il rischio di errori di valutazione sono grandi ma nonostante ciò le implicazioni che la questione pone sono troppo vaste per esimersi da un lavoro di questo tipo.

Fermo restando che si tratta di una “guerra” vera e propria – e non di una “missione umanitaria” in favore di una popolazione in difficoltà che subisce dure repressioni da parte di un dittatore bislacco e originale; e fermo restando che questa “guerra” con tutte le sue possibili implicazioni rappresenta un’anomalia nell’andamento delle rivolte in tutto il mondo arabo – è inutile sottolineare che la situazione libica è assolutamente differente dalla situazione egiziana o tunisina o siriana o altra; l’impegno critico deve rivolgersi a sottolineare in cosa consiste questa “anomalia” per cercare di leggere nel presente i possibili sviluppi futuri.

È chiaro che sta succedendo qualcosa di assolutamente “nuovo” nel mondo arabo; c’è chi come Fukuyama, eminente intellettuale neoconservatore americano, esulta perché legge in queste rivolte la conferma che la “fine della storia”, cioè il definitivo affermarsi delle democrazie liberali in tutto il mondo – all’appello mancherebbe ormai soltanto la Cina –, si sta compiendo anche nel mondo arabo; tesi questa che al momento (non troppo stranamente) sembra sedurre più i “progressisti” che i “conservatori”, più le “sinistre” che le “destre” e c’è chi cerca di comprendere in cosa consistano queste rivolte, se siano il 1848 del mondo arabo in cerca di costituzioni, se rappresentino un modo per liberare le forze fondamentaliste perché sarebbero la “vera” strada ricercata dall’Islam, oppure se si tratti di un qualcosa di ancora diverso, una sorta di nuova via araba al progresso e all’emancipazione o ancora di una prima manifestazione “moltitudinaria” delle nuove rivoluzioni dell’era globale.

In poche parole ce n’è per tutti i gusti e già soltanto questo veloce quadro ci fa comprendere la complessità della posta in gioco. Su un dato ci viene da concordare: sta succedendo qualcosa di epocale.
A noi interessa concentrare l’attenzione soprattutto sulla situazione libica, la quale permette di identificare alcuni punti salienti per una lettura “globale” di quanto sta accadendo.

In realtà la Libia è un paese dalle caratteristiche peculiari: dal punto di vista economico si tratta di un paese abbastanza “ricco” ma soprattutto in forte crescita (anche il FMI ha riconosciuto il forte sviluppo della Libia negli ultimi anni), in più si tratta di un paese di immigrazione da parte di altri paesi africani, il che ne fa un capolinea unico all’interno di tutto il Nord Africa, nonché una postazione privilegiata per i flussi migratori verso l’Europa; dal punto di vista politico, invece, è un paese che risente profondamente delle contraddizioni della decolonizzazione: la Libia è un paese nato a tavolino, formato da due regioni la Tripolitania, oggi roccaforte di Gheddafi, e la Cirenaica, oggi roccaforte dei ribelli, unificate solamente “grazie” al fascismo. La questione è che il petrolio è di fatto in prevalenza nelle mani di Gheddafi (perché si trova prevalentemente in Tripolitania) per cui la situazione risulta essere ancora più labirintica: se il petrolio è nelle mani di Gheddafi, i ribelli hanno da offrire qualcosa a chi li aiuta (i “volenterosi”) solamente se vincono la guerra. Gli incontri di questi giorni con i capi di Stato della coalizione “volenterosa” da parte del capo dei ribelli ha proprio questa funzione. La posta in gioco è ovviamente il petrolio e il gas – e da questa considerazione non di deve mai prescindere (noi la diamo per un “dato di fatto” da cui partire) – ma probabilmente si tratta anche di una rinnovata lotta per porre le basi di una “egemonia” globale rinnovata.

Se per “egemonia” dobbiamo intendere la maniera attraverso la quale chi detiene il potere economico e politico riesce attraverso un insieme di dispositivi a mostrare, in maniera sovrastrutturale, la “naturalezza” e la “necessità” del proprio dominio, allora qui ci troviamo dinanzi a un momento decisivo: gli USA sembrano aver perso questa “egemonia”, questa capacità di muovere politicamente il resto del mondo per i propri fini mostrandoli come “globali”, “naturali”, “necessari”; ed è da questo “dominio senza egemonia” che bisogna partire per cercare di comprendere le poste in gioco di questa guerra. La storia occidentale ha mostrato che “l’accumulazione di capitali” si è spesso accompagnata alla necessità di “accumulazione di potere”, al punto che “l’accumulazione di capitali” in una parte del mondo ha necessitato di un’altra parte del mondo mantenuta sotto il livello di sviluppo; forse anche nell’era della globalizzazione, delle multinazionali, della fine (?) degli stati-nazione, sembra riproporsi lo schema per il quale da un lato la macchina del “capitalismo finanziario” lega a doppia trama tutti i paesi del mondo (la crisi finanziaria avendo avuto ripercussioni un po’ ovunque – anche se a uscirne particolarmente malconci sono stati proprio i “paesi sviluppati” e i “paesi sottosviluppati” ma non i “paesi in via di sviluppo”) ma dall’altro la “gestione degli spazi globali” a partire dalla (ormai considerata) vecchia dinamica politica degli stati-nazione sembra essere una necessità non soltanto “economica” (accumulazione di capitali) ma anche politica (governance delle aree di crisi) nel momento in cui si profila un vuoto di egemonia da parte degli USA.
Dopo questa veloce nota metodologica possiamo dire che la tesi da cui si parte è che si tratta di una guerra che solo in parte si inserisce nel solco delle ultime guerre condotte dal “blocco occidentale” nel mondo arabo e non, gli elementi di “differenza” essendo, dal punto di vista critico, più decisivi rispetto a quelli di “sovrapposizione”. Punto di partenza, come si è visto, è quello che possiamo definire il “venir meno” della supremazia egemonica statunitense e del suo ruolo di “poliziotto” globale e in parallelo una riduzione a grado zero della retorica umanitaria (sempre presente ma sempre più “secondaria” anche dal punto di vista pubblicistico). A partire da ciò può essere utile accennare ad altri elementi differenziali: 1) il “protagonismo” europeo; 2) la posizione della Lega Araba e dell’Unione Africana come nuovi interlocutori “globali”; 3) il ruolo dei BRICS.

In questa guerra gli interlocutori sono tantissimi: da un lato l’Europa in senso lato (soprattutto l’asse Sarkozy-Cameron), dall’altro gli USA, ma ormai anche i BRICS e infine la Lega Araba e l’Unione Africana. La posta in gioco, a nostro avviso, non può essere solamente la “gestione” delle risorse della Libia (pur essendone il motore principale) ma anche la percezione che la situazione globale necessita di un nuovo ordine fondato (probabilmente) su basi differenti.
Il venir meno della supremazia USA e riduzione a grado zero della retorica umanitaria

È un dato di fatto ormai ampiamente riconosciuto che il ruolo degli Stati Uniti, dopo le due amministrazioni Bush e soprattutto dopo l’imporsi sempre più decisivo dei paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e, ultimo arrivato, Sudafrica), quanto a “egemonia” globale si sia fortemente indebolito. Credo che tutti abbiano notato le imbarazzanti incertezze dell’amministrazione Obama sulla posizione da prendere per quanto riguarda il conflitto libico. Questa è sicuramente una delle grandi novità di questo conflitto e questo per una serie di motivi: in primo luogo è evidente che la crisi finanziaria ed economica non è stata ancora risolta (ma come potrebbe?) e anzi gli USA faticano sempre di più a risollevarsi (inutile ricordare il forte debito pubblico, finanziato per una grossa fetta dalla Cina; inutile ricordare il “gioco a perdere” rappresentato dalle guerre in Iraq e Afghanistan); in secondo luogo un impegno americano, dispendioso quanto a costi militari, sociali e umani, in un’ennesima guerra – la terza “in contemporanea” –, che potrebbe profilarsi lunga e difficile e soprattutto in cui gli interessi europei sembrano essere prevalenti, sembra non essere vista di buon occhio da tanta pubblicistica che si potrebbe definire neo-isolazionista (in USA, comunque, è sempre tempo di campagna elettorale!) Nonostante ciò Obama ha deciso per l’intervento promettendo all’opinione pubblica che nessun piede americano avrebbe solcato il suolo libico (le guerre sì! ma i morti non sono più accettati – la “sindrome del Vietnam” essendo stata riaccesa dai caduti americani in Iraq e Afghanistan e dalla “degenerazione morale” palesata da alcune inchieste). In questo quadro appena delineato la posta in gioco è ancora più complicata per gli USA: da un lato questo intervento dei “volenterosi” con a capo Sarkozy ha mostrato che l’Europa sembra avere la capacità di fare da sé (il che è in primo luogo sintomo di “debolezza” da parte degli USA, più che necessariamente una prova di “forza” da parte dell’Europa), dall’altro un mancato coinvolgimento rischierebbe di far perdere agli USA la sua posizione fondamentale all’interno del gioco politico-economico del mondo arabo a tutto vantaggio di nuove potenze come la Cina. Le domande fondamentali che si pone l’amministrazione Obama sono pressappoco queste: che fine faranno le rivoluzioni di Egitto e Tunisia? e altre possibili rivoluzioni in Siria o Bahrein? dal momento che al di sotto di queste c’è stata comunque la longa manus dei servizi segreti statunitensi? La strategia USA è di dare avvio e di intervenire in tutti i processi rivoluzionari o più in generale di trasformazione sociale e politica – del resto è ciò che fanno dalla seconda guerra mondiale in poi – ma questa volta sembrano esserci dei problemi. Il “venir meno” della supremazia statunitense in questa guerra, una sorta di “vuoto egemonico”, apre la strada ad altre potenze ed esigenze di accumulazione di potere e capitali: l’Europa, i BRICS, la Lega Araba e l’UA. In effetti la situazione dal 1991 a oggi è profondamente cambiata: nella prima guerra del Golfo gli USA erano riusciti a strappare agli “alleati” aiuti economici sostanziosi in quanto, dopo il crollo del muro di Berlino, erano riusciti a imporre la propria “egemonia”, cioè a mostrare che una propria guerra è la guerra di tutti; poi nascono le “guerre umanitarie” con l’intervento (fallimentare) in Somalia e l’ascesa degli USA può dirsi compiuta nel momento in cui la guerra in Kosovo era stata condotta senza la necessità di una risoluzione ONU; poi c’è la cesura dell’11 settembre e i disastri delle guerre in Afghanistan e in Iraq, guerre irrisolvibili e dunque irrisolte, quest’ultima essendo cominciata senza neanche la ratifica da parte della NATO; ed è proprio la seconda guerra del Golfo a segnare uno spartiacque decisivo: gli USA non sono riusciti a ottenere grandi finanziamenti dagli alleati, non essendo ritenuto più necessario il suo ruolo di “protettore” e di “poliziotto globale”. La guerra in Libia, allora, è del tutto differente: gli USA hanno un ruolo marginale mentre il tutto è partito dall’Europa e dalla sua pressione sull’ONU per l’emanazione della risoluzione 1973 che prevede una no-fly zone sulla Libia (da sottolineare che la no-fly zone è già sempre una violazione della giurisdizione di uno stato sul proprio territorio ed è dunque già azione di guerra).

Altro elemento, sicuramente marginale, ma comunque connesso, è che si ha la sensazione che in questa guerra l’ombrello umanitario non sia poi così indispensabile nella retorica che ha accompagnato lo scoppio delle ostilità e questo forse per due ordini di motivi. Da un lato la guerra in Libia è discesa immediatamente sotto il livello di attenzione dei media; tutti, credo, hanno notato come se ne parli poco o nulla, di come si sappia in realtà poco di quanto stia accadendo e soprattutto non si sappia nulla di questi “ribelli” (chi sono? chi erano prima dello scoppio della rivolta? quale fetta della società libica rappresentano? etc.), di come l’attenzione (almeno in Italia) si concentri su ben altre questioni di politica pornografica interna; in effetti è probabile che realmente non ci creda più nessuno all’ossimoro “guerra umanitaria” se non – e questo dà il polso della situazione di tanta sinistra (anche radicale) in Italia – partiti e movimenti di sinistra che appoggiano l’intervento (in maniera cieca e acritica) solamente per il fatto (verissimo) che Gheddafi è un dittatore; la situazione (sempre banalmente) manichea che si è creata è questa: o si appoggia l’intervento dei “volenterosi” o si è con Gheddafi (dinamiche simili si erano sviluppate anche con Saddam Hussein ma ora in maniera più pervasiva), in poche parole si sceglie tra il tifo o il colera (non esiste “male minore”!), il che equivale a dire la fine di ogni spirito critico ma soprattutto l’incapacità di cogliere le novità di questo conflitto. Dall’altro la “riduzione a grado zero della retorica umanitaria” è connessa a un’altra “novità” di questo conflitto: l’utilizzazione mediatica che si sta facendo del problema dei migranti; anche dopo le guerre di Jugoslavia si era prodotta una situazione simile ma non era stata “proposta” politicamente e mediaticamente come un’emergenza apocalittica; questo conflitto, soprattutto (ma non solo) in Italia, è divenuto un conflitto anche con le popolazioni migranti le quali vanno controllate, gestite, organizzate e possibilmente scaricate sugli altri; dal canto suo l’Europa non vuole minimamente accollarsi neanche uno di questi migranti (forse a ragione, forse a torto, ma non è qui il punto!) La situazione è grossomodo questa: si bombarda la Libia per motivi umanitari, ma non si gestisce la questione, strettamente connessa, dei migranti in maniera umanitaria. Ancora una volta l’ormai vecchio paradosso dei “diritti umani”; ma ormai svelato pienamente. Non ci crede più nessuno e non si tenta neanche più di imporre questa retorica alle masse. Le masse sono ben educate e disciplinate (nonché mantenute sotto il livello di consapevolezza critica di un problema) dunque non ce n’è più bisogno. Che restino a morire nel loro paese!

La soluzione “politica”? Da un lato eccitare gli animi attraverso un bombardamento mediatico volto a “costruire” l’immagine di un paese assediato dai nuovi barbari, dall’altro tenere tutto sotto il livello medio di informazione, semplicemente attraverso il meccanismo lapalissiano del “tacere”. L’importante è slegare i due fenomeni e non permetterne un’articolazione critica da parte dell’opinione pubblica (anche questo è da notare: sono trattati come due “problemi” differenti; il vecchio “adagio”, divide et impera, vale anche nell’era dei media).
Il protagonismo europeo. Le mediazioni di Lega Araba e Unione Africana. Il ruolo dei BRICS e soprattutto della Cina.

In questo vuoto di egemonia lasciato dagli USA si inseriscono alcune delle più importanti novità di questo conflitto:

1. il protagonismo europeo caratterizzato prevalentemente dal “decisionismo” del (mediocre) gollista Sarkozy; come è stato ben sottolineato nel documento del Collettivo Politico Fanon, La guerra che verrà, questo intervento non è stato assolutamente “improvvisato” ma è stato preparato economicamente e politicamente (non è necessaria in questo tipo di conflitti la “preparazione militare”) da anni di lavoro e di espansione economica, di tipo imperialista, nel Mediterraneo: «in risposta a tutti coloro i quali sostengono che questo attacco militare nulla abbia a che vedere con l’imperialismo in quanto per i capitali europei Gheddafi era il “miglior alleato possibile” e sarebbe stato superfluo, anzi dannoso, “farlo fuori” possiamo dunque dire che il leader libico rappresentava sì per la borghesia italiana, e in particolare per quel blocco facente capo all’attuale Governo, un ottimo partner economico e commerciale, ma in una prospettiva “europea” - quale quella adattata dalla Francia - di estensione della sfera di influenza UE in area mediterranea, Gheddafi costituiva un ostacolo. Per fugare ogni dubbio teniamo a sottolineare come il leader libico costituisse uno scomodo interlocutore, non certo grazie alla sua spesso millantata tendenza all’antimperialismo o addirittura al socialismo, ma piuttosto al suo - legittimo, visto che parliamo di libero mercato - desiderio di vendersi al miglior offerente ritagliandosi un certo margine di autonomia» (2). Sul fatto che l’Europa sia ora capace di maturare una propria politica estera indipendente e soprattutto unitaria non ne siamo del tutto convinti; a nostro avviso si tratta del protagonismo di una parte dell’Europa, la Francia, che è riuscita a trascinarsi l’Inghilterra e, in un primo momento, la Germania, la quale, però, in questi ultimi giorni, ha reso ben chiara la sua posizione, sul conflitto, essenzialmente isolazionista. Se l’Unione Europea è ancora alle prese con le sue prove di maturità “imperialista”, il problema è centrato laddove si sottolinea il fatto che Gheddafi ha probabilmente commesso l’”errore” di vendersi al migliore offerente (e, ultimamente, il “migliore offerente” è spesso la Cina con i suoi capitali in esubero) perché è proprio in questa questione che si connettono l’esigenza parallela di “accumulazione di capitali” e “accumulazioni di potere”.

2. le mediazioni della Lega Araba e dell’Unione Africana le quali si sono rivelate “fallimentari” ma che permettono l’apertura di un altro piano della questione “guerra in Libia”. La posizione della Lega Araba è ambigua: da un lato, sin dai primi giorni, la Libia è stata sospesa dalle riunioni del Consiglio e dalle varie commissioni e in più vi è stata la conferma del sostegno alla no-fly zone e alla risoluzione 1973; dall’altro, e parallelamente, c’è stata la critica alla maniera attraverso la quale venivano condotti i bombardamenti soprattutto da parte francese come una sorta di eccesso nell’interpretazione della stessa risoluzione 1973. È di una settimana fa la richiesta (che con ogni probabilità rimarrà assolutamente inascoltata) di una no-fly zone in Palestina proprio pochi giorni prima della fine se non altro “strana” di Vittorio Arrigoni. Ma l’ambiguità delle posizioni della Lega Araba anche per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese non le permette di porsi come un interlocutore efficace. In realtà la Lega cerca di ritagliarsi a livello internazionale una posizione non più liminare ma maggiormente autorevole soprattutto nel dialogo con l’Occidente. Il problema è che la Lega Araba sembra contare ancora poco all’interno dello stesso mondo arabo. Però questa sua ricerca di protagonismo potrebbe essere connessa anche a un altro elemento di un certo interesse: l’affermazione di una certa borghesia araba “ricca”, il cui potere probabilmente è ancora limitato, e che, però, comincia a controllare dei media fondamentali come ad esempio Aljazeera, fonte indiscussa, anche per l’Occidente, di quanto accade nel mondo arabo. Se in Italia, come si è visto, il livello dell’informazione è bassissimo, sembra che siano proprio questi nuovi media arabi a dominare quella che può essere definita la gestione della “narrazione” di quanto accade. In questo senso anche il ruolo di questi media assume una posizione fondamentale e vanno inseriti nelle valutazioni globali che possono essere fatte di questa guerra. Anche l’Unione Africana si è posta come interlocutore possibile per una risoluzione pacifica del conflitto(3): Zuma, presidente del Sudafrica (stato ormai membro del BRICS) ha proposto, come si è già detto, una road map accettata da Gheddafi e rifiutata dai ribelli. Rispetto all’Unione Europea e alla Lega Araba sicuramente è riuscita in un’operazione diplomatica capace di includere lo stesso Gheddafi. In realtà anche l’UA non sembra essere un attore credibile: lo stesso processo di creazione dell’UA è partito dal vertice di Sirte (in Libia) del 1999. In più la Libia è un paese che ha agito in profondità in molte questioni che riguardano l’Africa sub-sahariana e, del resto, si è rivolta alle questioni del continente dopo che i paesi arabi le hanno rifiutato il sostegno diplomatico e politico a seguito dell’embargo sancito dall’ONU nel 1992. L’interazione politico-economica della Libia con diversi pesi africani si è spesso ridotta alla vendita di armi nei continui contenziosi che investono l’Africa, in cambio della possibile gestione delle risorse naturali. In questo senso la Libia di Gheddafi, oltre ad essere paese di immigrazione, sembra essere anche un paese che ha imparato a dovere la lezione dell’imperialismo occidentale. Per tutto questo insieme di problemi l’UA non ha la forza e l’unità per porsi come interlocutore serio: l’Africa soffre ancora dei meccanismi mai risolti della decolonizzazione per cui è continuamente attraversata da crisi anche in questo senso “irrisolvibili”, o comunque per il momento “irrisolte”. Resta il fatto che, all’interno dell’Africa, la Libia risulta essere un interlocutore importante e dal punto di vista economico e dal punto di vista politico.

3. il ruolo dei BRICS e soprattutto della Cina non è del tutto secondario; credo che tutti abbiano notato l’impatto che l’inizio del conflitto ha avuto sulla folta comunità cinese che lavora(va) in Libia. Circa trentamila cinesi che si accalcavano sulle navi per tornarsene a casa. Abbiamo “scoperto” dunque che la Cina, lungi dall’essere una realtà chiusa in sé e nel proprio sviluppo, sta “in maniera silenziosa” entrando all’interno di tutte le questioni che riguardano le zone di interesse economico ed energetico del pianeta. Arrighi sostiene che la vera vincitrice della seconda guerra del Golfo è stata proprio la Cina (4); non ci sbilanciamo fino a questo punto ma bisogna capire quale sarà la sua posizione all’interno di questo primo conflitto che vede l’assenza della guida da parte degli USA. Quando l’ONU ha deciso per la risoluzione 1973 sia la Cina che la Russia si sono astenute e non hanno fatto valere il diritto di “veto” che avrebbe bloccato i lavori. Per quale motivo? In realtà probabilmente si sta profilando una sorta di conflitto di “interessi” tra l’ONU e la NATO. Quest’ultima nata come Patto Atlantico in funzione essenzialmente anti-sovietica, assume oggi un ruolo se non altro “strano” e “ambiguo”, una volta crollato il blocco socialista. La Cina probabilmente ha interesse affinché funzioni a dovere l’ONU e si ridimensioni la NATO; opporre un “veto” a una risoluzione che vedeva d’accordo anche alcuni paesi del mondo arabo (compreso quelli da cui la Cina si rifornisce di petrolio – vedi Arabia Saudita), avrebbe potuto significare il “blocco” o forse addirittura l’esautorazione dell’ONU da questa situazione di crisi a favore della NATO. Anche in questo senso è chiaro che ci si trova dinanzi alla necessità di fondare un nuovo ordine ed equilibrio internazionale. Ma non ci sono soltanto questioni di ordine geopolitico. È necessario sottolineare il ruolo economico che svolge la Cina al livello globale: il paese che ha fatto della “pacifica ascesa” nelle relazioni internazionali il suo motto (5), sta attuando un’importante politica economica di accordi (spesso bilaterali) con tutta una serie di paesi (è di poche settimane fa un’importante incontro con il Brasile della Rousseff che ha sancito importanti accordi commerciali); anche nel cosiddetto “sud del mondo”, Africa e Sudamerica, la Cina sta portando avanti una penetrazione economica caratterizzata da due elementi: 1) non si tratta di “imperialismo di rapina” (alla vecchia maniera “occidentale”) perché la Cina si impegna anche nella costruzione di importanti infrastrutture, ponendosi nella posizione di cooperante allo sviluppo; 2) non si tratta di “imperialismo ideologico” nel senso che la Cina non impone alcun modello culturale (contrapponendosi in questo senso alle forme di penetrazione “missionaria” tipica sia dell’“Occidente cristiano” sia dell’”Oriente islamico”). È probabile, infine, che la Cina guardi con estremo interesse se non addirittura con un pizzico di apprensione a quanto accade in Libia anche perché una situazione di instabilità nel mondo arabo potrebbe portare a una crescita dei prezzi del petrolio e quindi a una generalizzata inflazione. Non che ci sia la possibilità concreta di forme di rivolta in Cina; la crescita è ancora poderosa anche se le disuguaglianze nella redistribuzione del reddito cominciano a essere “violente”, per cui una seppur leggera instabilità sembra poter essere prevedibile.

Gli elementi che si è cercato di mettere in campo per la comprensione della questione libica vogliono essere soprattutto una sorta di piccolo “armamentario critico”. È paradossale – e vogliamo ripeterlo in questa brevissima conclusione – il silenzio “irreale” che in Italia avvolge questo conflitto; forse la stessa “paradossalità” è conseguenza del fatto che ci troviamo di fronte a un fatto “nuovo”, incomprensibile, e in cui è difficile prendere posizione o parteggiare; una volta che non si può più scodinzolare dietro agli USA, che posizione bisogna assumere nelle controversie internazionali? In questo senso rimane in particolar modo “grottesca” la posizione della sinistra, compatta in favore dell’intervento, ma schiacciata da una retorica “fuori tempo massimo” e da un’insipienza nel confrontarsi con i fatti della realtà.

(1) Da Roma, Londra e Parigi istruttori militari Obeidi: "Stop ai raid, elezioni fra sei mesi" (laRepubblica 20-04-2011)
(2) Collettivo Politico Fanon, La guerra che verrà, p. 7.
(3) Cfr. La crisi libica e le ambiguità dell’Unione Africana (di M. Guglielmo, Limes)
(4) Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Milano, 2008.
(5) La “dottrina Hu Jintao” della “pacifica ascesa” si fonda su 4 no (no all’egemonia, all’uso della forza, ai blocchi contrapposti, alla corsa agli armamenti) e 4 sì (sì alla fiducia reciproca, alla cooperazione, nell’evitare lo scontro, nel superamento delle difficoltà)

Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli

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