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Jerusalem March

Jerusalem March

(30 Marzo 2012) Enzo Apicella

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(20 Maggio 2011)

Anche a Gaza, come in Siria, Egitto e Giordania, la giornata della Nakba di quest'anno è stata segnata da imponenti manifestazioni ai confini di Israele che chiedevano il diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla loro terra, e da una violentissima repressione messa in atto dall'esercito israeliano. Il 15 di maggio è il giorno della Nakba (“catastrofe” in arabo), l'anniversario della pulizia etnica della Palestina da parte delle forze di occupazione sioniste. Solo a Erez, striscia di Gaza, le forze di occupazione hanno causato 105 feriti e un morto.

Verso le 10.30 diverse migliaia di persone si sono recate al check point di Erez ed alle 12 si sono avvicinate al confine israeliano. È stato sorpassato il primo check point gazawo, è stato raggiunto l'inizio del tunnel che porta al territorio israeliano, e ci si è avviati per la strada che costeggia il tunnel. Il senso di questa manifestazione, come delle altre agli altri confini con Israele, era quello di chiedere il diritto al ritorno. Durante la Nakba centinaia di maigliaia di palestinesi sono stati deportati dai loro villaggi e costretti a vivere in terre straniere: solo a Gaza i 75% della popolazione è composta da rifugiati.

Mentre una folla di alcune migliaia di persone si avviava per quella strada, 4 granate sono state lanciate da un carro armato posizionato sulla destra per atterrare alla sinistra dei dimostranti. Il suono delle granate, quando sono vicine, scuote dentro dalla paura, paura che se le granate fossero atterrate nella folla dei manifestanti, avrebbero provocato una strage. Ma la paura, si sa, non riesce a fermare questo popolo fiero, questi uomini, donne e ragazzini. Mano a mano che la folla si avvicinava da due torrette di controllo posizionate vicino al confine le forze di occupazione hanno iniziato a sparare. Spiega Saber: “Sulla torre di fronte a noi c'è un cecchino: quello non sbaglia un colpo, ogni proiettile che spara raggiunge esattamente il bersaglio. Sulla torretta a sinistra invece è montata una macchina a controllo remoto che spara proiettili di calibro molto più grosso, quelli sono illegali secondo la legge internazionale.” E il pericolo aggiuntivo veniva dal fatto che nella linea d'aria tra la torretta a controllo remoto ed i manifestanti c'erano dei cespugli, che impedivano parzialmente o completamente la visuale e che quindi facevano si che l'arma non potesse garantire di colpire esattamente l'obiettivo che chi la manovrava si aspettava di colpire. Sotto quella collina e tra quei cespugli ragazzi palestinesi si nascondevano per riuscire ad issare la loro bandiera in cima alla collina, per dimostrare ed affermare di nuovo che quella è la loro terra. I cecchini non avevano pietà.

Nessuno tra i palestinesi portava armi, nessuno rappresentava una reale minaccia per Israele. La manifestazione era la prima unitaria da quando sono stati firmati gli accordi per l'unità nazionale: sebbene la bandiera più diffusa fosse quella palestinese, c'era chi portava segni evidenti di Fatah, di Hamas e del PFLP. Tutte le fasce della popolazione erano rappresentate, c'erano diversi bambini e donne. Nalan, ragazza di ventun anni, per esempio racconta: “io volevo spingermi più avanti in prima fila, perchè è la mia terra, e volevo stare di fronte. Ma i miei amici mi tiravano indietro e volevano tenermi più al sicuro...”.

Ricordo una donna ferita, intorno ai 30 anni, svenuta e che nella caduta ha sbattuto la testa contro un muretto. Ricordo che in generale era difficile trovare 10 minuti di pausa tra gli spari. Verso le 4, alcuni soldati (probabilmente sei) sono usciti dalla porta del confine ed hanno iniziato ad usare anche lacrimogeni di un gas tossico, pericolosi sia per inalazione sia perchè venivano lanciati in aria e potevano facilmente cadere in testa a qualcuno. Ad un certo punto sento uno schianto -forte da far male al timpano- alla mia sinistra, e, voltandomi, vedo un uomo che sollevava il braccio con una mano inerme ed un grosso buco al posto del polso, si vedeva la carne ed il sangue sgorgava a fiotti. I feriti venivano portati via dai compagni prendendoli per le gambe e le spalle. Uno di questi lo ricordo che si teneva una mano sulla guancia sanguinante, non so se fosse stato colpito alla faccia da un proiettile o da una scheggia ma perdeva molto sangue. Le ambulanze fortunatamente potevano avvicinarsi al luogo delle violenze. Ho imparato che in arabo sangue si dice fosfor, perchè chiunque indicasse la mia maglia lo diceva: un uomo maciullato dai cecchini israeliani vicino a me ha imbrattato la mia maglietta di sangue e mi ha schizzato addosso briciole di carne. Il tuo sangue è il mio sangue, la tua lotta la mia lotta, fratello.

Secondo il Palestinian Center for Human Rights il numero totale dei feriti è 105, tra cui 31 bambini e 3 donne, e 3 giornalisti. Uno dei giornalisti, colpito da una scheggia alla spina dorsale, è rimasto paralizzato. E poi c'è un morto, un ragazzino di 16 anni. Sono stati portati in tre diversi ospedali della striscia, e, incredibilmente, alcuni dei feriti lievi dopo venire medicati in ospedale tornavano in manifestazione. Altri, preferivano rimanere al confine piuttosto che farsi medicare: ho l'immagine di un ragazzo con una gamba ferita, i pantaloni strappati dalla probabile scheggia che lo ha raggiunto e sporcati di sangue, con una bandiera legata alla gamba perché preferiva rimanere in manifestazione piuttosto che farsi medicare.

Saber, entusiasta, alla fine della manifestazione esclama: "spero che ora i media e l'occidente si rendano conto che non siamo violenti, che non siamo terroristi come ci dipingono. Spero che
le cose cambino."
Questi sionisti possono sparare da tutte le torrette del confine e da tutti i potenti carri armati che hanno, i manifestanti hanno dimostrato di non volersene andare. Possono continuare a sequestrare la barche ai pescatori, a sradicare ulivi, a uccidere donne bambini e uomini. Ma con tutte le loro corazze, muri e modernissime armi tecnologiche non riusciranno a sfiancare la volontà di resistere di un popolo che resiste da 63 anni, di un popolo che non abbandona la sua terra, di un popolo che vincerà perchè se non si è ancora arreso non si arrenderà mai.

Silvia

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