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5 Maggio

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(5 Maggio 2010) Enzo Apicella
Si dimette il ministro dello Sviluppo economico, Scajola, coinvolto nell'inchiesta sugli appalti del G8. Avrebbe avuto in cambio una casa con vista sul Colosseo.

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Elezioni turche, l’energia dell’Islam e quella del petrolio

(seconda parte)

(10 Giugno 2011)

Elezioni turche

Nella battaglia dell’urna, che vede il kemalismo umano di Kılıçdaroğlu provare a insidiare la leadership nazionale all’Islam moderato di Erdoğan, un tema al quale ogni turco presta attenzione è il futuro legato al binomio energia-economia. Intrigante è comprendere quanto i programmi dei due schieramenti si differenzino realmente e quanto siano costretti a seguire vie comuni attorno al fabbisogno di gas e idrocarburi ampiamente accresciuto dal boom produttivo. L’attuale Turchia industriale e artigiana dal Pil roboante (l’8,9% di crescita nel 2010) importa il 93% del petrolio e il 97% del gas che consuma. Dagli anni Ottanta a tutti i Novanta, quando ha iniziato a uscire dall’arretratezza e dall’autarchia, gli approvvigionamenti predisposti dall’allora kemalismo di governo seguivano rispettivamente la via araba e quella sovietica. Al di là del sogno nucleare, che è rimbalzato anche sulle rive del Bosforo ma che dopo Fukushima è diventato un incubo da accantonare, il Paese cerca l’energia seguendo il piano elaborato da tempo dall’establishment politico. Piano che vuole avvantaggiarsi della posizione geografica della penisola anatolica posta al centro di un’ampia area di produzione. L’idea dell’hub energetico verrebbe agognata da qualunque premier, certamente è una delle carte che Erdoğan ha giocato a suo favore sin dal primo mandato nonostante quest’obiettivo sia sottomesso all’uso del condizionale, sinonimo delle incertezze della geopolitica. Farsi pagare per l’attraversamento degli oleodotti è un’idea per niente nuova ma sempre redditizia. Col progetto Nabucco, che dal 2002 punta a rifornire l’Europa di gas iraniano e georgiano, tutto sarebbe perfetto. Ma c’è chi ci si è messo di traverso e non è un ingombro da poco.

Un’attenuazione alla centralità dell’hub turco viene da uno dei poteri forti dell’economia russa e dei colossi energetici planetari, la chiacchieratissima Gazprom. L’azienda vezzeggiata e protetta da Putin, non tanto per l’immagine del made in Moscow quanto per i personali interessi del presidente-premier, è stata ampiamente favorita dai rapporti che egli stesso ha creato con alcuni governanti europei, primo fra tutti Silvio Berlusconi. Così a fare concorrenza a Nabucco, in cui Eni è coinvolta, è comparso da quattro anni il progetto South Stream che grazie a Gazprom diventerà la seconda fornitura di gas russo all’Unione Europea. Il governo Erdoğan ha cercato di galleggiare fra i due programmi e nel 2009 ha firmato con Russia e Italia l’accordo per l’utilizzo dei fondali del Mar Nero di giurisdizione turca dove la pipeline dovrà passare, ma è stata più una forzatura che una scelta. Con la diffusione tramite Nabucco del gas iraniano e georgiano la Turchia, oltre a emanciparsi direttamente dai diktat russi, ne ridimensiona lo strapotere fra gli Stati Ue e stabilisce con l’Iran un rapporto che si sposta dal fronte economico a quello dell’egemonia strategica sul Grande Medio Oriente. “Nessun problema coi vicini“ è il motto che il ministro degli esteri Davutoğlu ha mutuato da tattiche millenarie e che usa nella guida comune con Erdoğan. Il conseguente confronto con l’Islam politico degli ayatollah prevede abbracci e sfide aperte, ma sicuramente nessun confronto muscolare. La fede maggioritaria delle due nazioni, sunnita e sciita non importa, ha intessuto uno stretto rapporto col sistema produttivo e mercantile. O viceversa. Per mettere in sintonia credo e capitale c’è chi ricorda come Maometto fosse anche un mercante.

Si dice che la forza politica dell’Akp sia nelle campagne anatoliche. E’ vero. Ma se la cosmopolita e fascinosa Istanbul, dove i seguaci del laicismo kemalista non demordono, vede allargarsi sempre più la presenza fisica dell’islamismo esibito, e non solo dalle donne velate, altri serbatoi di consenso sono nel sud-ovest o nella Cappadocia profonda e ovunque s’è radicata la borghesia dei piccoli e medi imprenditori del cosiddetto ‘calvinismo islamico’. I padroncini che per le proprie maestranze sostituiscono la pausa per la sigaretta con quella per la preghiera. Producono di tutto, dai mobili al tessile, anche se con loro il governo deve fare i conti per due peccati mortali: l’infortunistica e l’evasione fiscale. La prima ha percentuali inferiori alle nostre (tre morti al giorno contro il ‘trevirgolaottantasette’ italiano) anche se spesso i dati sono falsati dall’occupazione in nero. Per dar fede al programma di giustizia (adalet) insito nel nome dell’Akp il premier ha perorato alcune leggi e nel 2009 il ministero della salute ha vietato, ad esempio, la pratica della sabbiatura per sbiancare i jeans che faceva ammalare di silicosi gli addetti (5000 i casi accertati). Ma nel distretto industriale di Kayseri, dove ora si creano manufatti per Rifle e Levis e un tempo si costruivano aerei e carri armati, la mortalità da lavoro continua a essere drammaticamente elevata. Gli esperti d’infortunistica accusano la flessibilità, che secondo il dogma della globalizzazione chiede all’operaio di obbedire senza fare domande, e la frammentazione della filiera produttiva che incentiva i subappalti. Chi sta nei cantieri navali a Tuzla o Trebisonda queste storie le conosce bene. Dal canto suo lo Stato non può esimersi dalla responsabilità di controllore e chi vuol governare deve misurarsi con una moderna legislazione e soprattutto con la sua applicazione, visto che in certi casi le normative esistono.

Però su questo fronte le leggi di mercato rischiano di diventare l’unico verbo di certa imprenditoria che orienta la politica. I lavoratori musulmani non avranno sorriso alla notizia delle recenti norme varate per loro dal Parlamento in materia di salute. Esse prevedono la privatizzazione degli istituti preposti ai controlli, un successo per i padroncini islamici visto che nelle loro aziende si verifica il 50% degli incidenti. Finora l’astuto Erdoğan ha giocato a nascondino, da tempo il suo partito afferma di voler predisporre una legge ad hoc per la tutela della salute nei luoghi di lavoro. Ma sostiene di volerlo fare democraticamente e con ampia condivisione insieme alle Confederazioni del lavoro e agli Ordini di categoria di medici, ingegneri, architetti. Finora non è accaduto nulla e di lavoro anche in Turchia si continua a morire senza nessuna benedizione di Allah.

7 giugno 2011

Enrico Campofreda

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