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Referendum

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(23 Maggio 2011) Enzo Apicella
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Tutti al voto (e nessuno in lotta)!

(12 Giugno 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Come speriamo sia noto a chi ci segue, il nostro microbico Nucleo non partecipa nelle presenti situazioni di fatto (“scelte” e forze sociali e politiche in campo) ad alcun tipo di consultazione elettorale, referendaria compresa. Non si tratta di un a-priori “di principio” valido in assoluto (e in tanto parliamo di esame concreto delle situazioni concrete), non escludendo noi che, in altre circostanze concrete l’obiettivo rivoluzionario possa attraversare il “libero, democratico gioco elettorale” per scardinarlo anche utilizzando il voto (alla maniera indicataci da Lenin nell’Estremismo). L’essenziale è che le forze accumulate sul terreno extra ed antiparlamentare siano su di esso scatenate a pro del movimento di rottura rivoluzionaria, eventualmente utilizzando su questa base anche il ricorso al voto ove intervengano condizioni utili a spostare il campo di forza da quello cosiddetto “democratico”, dei “cittadini liberi e sovrani”. Eventualità abbastanza improbabile nell’epoca attuale e nell’area dei paesi imperialisti, ma a cui non chiudiamo pregiudizialmente ogni e qualsiasi possibilità in assoluto. Tanto per ricordare un antecedente (scandaloso per certi “principisti” della nostra stessa corrente d’origine): nel caso del referendum sul divorzio e l’aborto noi ci siamo schierati per la partecipazione ad esso in quanto si trattava, di fronte ad una scelta netta di pur “semplice”... democrazia, di sanzionare anche col e nel voto una scelta “progressista” (borghese, si badi bene!) di fronte al contrattacco forcaiolo DC e l’emersione di un vasto fronte di lotta, ben al di là di una semplice espressione di “opinioni”, che era riuscito ad imporre la scelta divorzista e dell’autodecisione femminile in materia di aborto alle stesse forze parlamentari della “sinistra” su ciò traccheggianti ed, anzi, disposte ai peggiori compromessi forcaioli anche e persino sul terreno dei “diritti democratici borghesi” (per noi interessanti in quanto elemento di decantazione e passaggio più spedito verso i nostri obiettivi, tutt’altro che racchiudibili entro quest’ambito provvisorio).

Detto questo, di volata, vediamo quel che c’è da dire a proposito delle recenti elezioni amministrative e degli incombenti referendum.

Il miserabile piccolo-borghese travestito da “comunista” ci ha opposto, in occasione di queste amministrative, questo “convincente” argomento: compito prioritario dei “compagni” è licenziare Berlusconi e la sua miserabile squadra. E voi non ci state? Sì, noi ci stiamo, ma su ben diverse e contrarie postazioni. In generale, ogni e qualsiasi “scelta” elettorale propone un problema vero, in questo caso – per l’ appunto – il licenziamento di cui sopra. Ed è anche vero che, ove ci si basasse sulla semplice, astratta scelta in gioco, non è la stessa cosa che ad amministrare... il capitale ci vadano personaggi puliti (si fa per dire!) o sporchi, efficienti o scatafascisti. Le nostre Tesi di Roma lo indicano chiaramente: anche una vittoria del “fronte riformista” può, in date situazioni, costituire un elemento utile per noi, a condizione che su di esso si faccia sentire il peso del nostro fronte rivoluzionario nel senso di costringere il primo a fare i conti con una mobilitazione di classe dal basso, per quanto provvisoriamente “illusa” sul fatto di essere rappresentata dalla direzione riformista e conquistare alle nostre posizioni la massa proletaria tuttora legata a prospettive intermediste per portarle al decisivo aut aut sul tappeto. Ciò implica necessariamente un posizionamento del partito (oggi: dei pochi nuclei comunisti più o meno conseguenti) in termini di piena ed assoluta indipendenza teorico-programmatica, politica ed organizzativa: nessun appoggio, per quanto “critico”, a qualsivoglia frazione borghese “migliore”; ci basta ed avanza appoggiare senza ambagi di sorta il nostro fronte di lotta antagonista nei confronti di migliori e peggiori, ad esso chiamando i proletari disposti a combattere sul serio, anche e soprattutto quando non si tratti di “masse” rilevanti e decisive.

E’ pietoso lo spettacolo offertoci, in quest’occasione, dai “compagni che contano” (generalmente contano uno o due punti percentuali od anche degli zero virgola zero o zero virgola qualcosa). Il Manifesto esulta per la “vittoria delle sinistre” (scarti ex-DC ed ex-fascisti compresi, all’occorrenza), cosa a noi ben nota sin dal ’72 quando esso si presentò come “polo rivoluzionario” (bum!) per la “riconversione” e “rifondazione” della “sinistra” (allora strettamente PCI da “riorientare”). I poveri zombies di Rifondazione fanno lo stesso e non vi si sottraggono nemmeno i presunti “purissimi” alla Ferrando invocanti il “potere operaio” sulla canna del fucile di... Pisapia.

Per tutti costoro vale questa regola: in mancanza di più appetibili “alternative” ben venga il “meno peggio”, cui noi offriamo il nostro appoggio “critico” rinunziando programmaticamente ad avanzare un programma antagonista per il comunismo (che verrà, semmai, in seguito come derivato della “comune” vittoria sul berlusconismo). Poco può importare, di conseguenza, se le prime parole del “nostro comune” vincitore Pisapia siano state in omaggio ai nostri valorosi “combattenti per la pace” e “contro il terrorismo” di Herat (sulla Libia poi...). Nella proletaria Torino, poi, stravince un Fassino che, al pari del suo predecessore Chiamparino, bacchetta la FIOM per il suo sterile “estremismo”... (vi si accomodi, se se la sente, Ferrando). I più “logici” in materia ci sembrano certi ignoti (a noi e alle masse) rappresentanti di un fantomatico (nuovo)PCI che, senza tanti giri “critici”, così estremizzano (ridicolizzandolo, come merita) un certo senso comune “comunista rivoluzionario”: “Con le elezioni amministrative le masse popolari (popolo, popolo,n.) hanno inferto un serio colpo alla banda Berlusconi e alla Corte Pontificia (!, n.): continuiamo, allarghiamo e rafforziamo l’offensiva! Raccogliere i risultati della campagna elettorale: promuovere la moltiplicazione e il rafforzamento delle Organizzazioni Operaie e delle Organizzazioni Popolari, sviluppare il lavoro operaio del Partito, costituire Comitati di Partito clandestini (ma democraticamente presenti alle urne!, n,). Le Organizzazioni Operaie e le Organizzazioni Popolari possono costituire il Governo di Blocco Popolare”. Che si tratti di semplici dementi residuali dello stalinismo è ovvio, ma, al di là delle proposizioni paradossali e francamente ridicole, nulla toglie che vi si interpreti il percorso intrapreso da formazioni politiche e personaggi più “seri”.

Chi non è in grado di capire questo non ha e non avrà mai nulla a che fare con la causa del comunismo, e qui chiudiamo.

Ci fa piacere aver ricevuto, in contrasto a ciò, delle prese di posizione un tantino più in riga, perlomeno a livello di denuncia del bluff “progressista”. Ne citiamo solo alcune. Ad esempio, un compagno di Sesto San Giovanni correttamente annota quanto segue: “A Milano Giuliano Pisapia è stato sostenuto dal Comitato “oltre il 51 per cento” guidato da Pietro Bassetti (primo presidente della regione Lombardia, ex parlamentare DC e presidente della Camera di Commercio) forte di circa 200 firme di rappresentanti e personaggi influenti del mondo dell’economia” (e traetevene voi le conclusioni). Ancora uno stralcio utile, da altra fonte: “Opportunamente, dopo il voto del primo turno, i compagni (disastrati, n.) che hanno dato vita all’esperienza della Lista Napoli non si piega hanno dichiarato che la figura di De Magistris ha saputo intercettare la voglia di cambiamento e di riscatto sociale dei napoletani stanchi ed avviliti dal bassolinismo e dalle sue varie repliche amministrative consumate nel corso dei decenni”, ma “la concreta e complessa realtà della metropoli napoletana non tarderà a presentargli, comunque il conto.” (Senza troppi giri di parole diciamo pure che la loro Napoli si è programmaticamente piegata alle leggi del capitale). Un altro compagno (ex dei nostri, ma poco ci importa e sorvoliamo su certe boutade sul marxismo obsoleto del secolo scorso di cui faceva pur parte) scrive di De Magistris: “Appena conosciuto il risultato che lo avrebbe portato al ballottaggio esordì: “Sono contro le oligarchie e la libera concorrenza” e ancora: “Voglio un paese e una Napoli veramente liberale”, a tal punto liberale che l’ex-presidente della Confindustria D’Amato (quel signore che appena eletto scatenò un attacco frontale ai lavoratori per abolire l’articolo 18) non ha esitato a fare pubblico appello per la sua elezione”. Giusta la conclusione: “Siamo in presenza di una Inazione del proletariato e dunque di una assenza di classe dello stesso”. Peccato che se ne derivi che “basta avere la pazienza e saper “aspettare”” che... l’inattivo si riattivi. “Aspettiamo che il cadavere della borghesia passi sotto il ponte”, diceva qualcuno. E il ruolo dei comunisti (“separati” dal proletariato in quanto pretenderebbero di lavorare per il partito?): “aspettare”, pena il “sostituzionismo”. Ma se sei così convinto che tutto sta nelle facoltà sovrane e indiscutibili di un metafisico Proletariato “in sé” lascia stare anche le tue “sostituzionistiche” considerazioni sull’Inazione. Aspetta e spera...

Sarebbe da proporre un’antologia a prezzo economico delle lettere pervenute al Manifesto e, pensiamo, solo in parte pubblicate per avere il polso dello smarrimento indotto dalla “mobilitazione” elettorale risultata poi “vincente”: c’è chi prende nota che non sarà proprio la rivoluzione (intenta, al solito, a russare da quelle parti), ma che hanno trionfato gli “onesti” delegati ad onestamente amministrare le leggi del capitale in loco e chi invece parla proprio di “rivoluzione” in atto, con tanto di “centri sociali al potere”. Ed anche chi, fortunatamente, tira ben altre realistiche (o “pessimistiche”, se volete) conclusioni su ciò che ci aspetta a partire da questa presunta “vittoria”. Peccato – lo annotiamo a margine, di sfuggita – che il web “socializzante” giochi piuttosto a rinchiudere ciascuno nell’ambito dell’espressione delle “proprie idee individuali”, senza dar luogo a qualsivoglia socializzazione vera di battaglia. Il trionfo del Battilocchio!

VENI VIDI VICI, PAROLA DI PIRRO

Arriviamo all’“analisi del voto” di cui tutti, “a sinistra”, si dimostrano inebriati. Ci limitiamo qui a qualche smilza notazione in vista di qualcosa di più approfondito e che va ben al di là degli esiti elettorali immediati.

Non c’è dubbio che il PDL abbia preso una solenne batosta per nulla controbilanciata dal (disatteso) essor della Lega. Il “liberal-riformismo” berlusconiano ha fatto flop, in mancanza di un vero partito radicato tra le masse (comprese certe frange proletarie ad esso non insensibili) stretto com’era ed è tra contrastanti opzioni al proprio interno. Sarebbe, però, un po’ troppo concluderne che dall’altra parte si configurino delle “alternative” e persino che siamo in presenza della sparizione di esso. Non dimentichiamoci che in tutte le recenti vicende elettorali europee i partiti al potere hanno duramente pagato gli effetti della crisi, di cui essi sono stati unanimemente imputati dai votanti: si vedano i tracolli (ben peggiori di quelli berlusconiani) della “destra” Merkel o del destro Sarkozy (cui non è rimasto in pugno neppure uno straccio di... Varese) e delle “sinistre” Labour Party o Zapatero. Questa “disaffezione” verso i supposti padroni del vapore, tanto di destra che di “sinistra”, rappresentano qualcosa di interessante, ma molto al di qua di una presa di coscienza di classe, tuttora latitante, ed è abbastanza curioso, ad esempio, che gli indignados spagnoli non s’indignino più di tanto nel votare a destra o nel rifugiarsi in uno sterile astensionismo privo di prospettive politiche a misura che assente risulta una visione teorico-programmatica antagonista. Non siamo ancora neppure all’argentino se ne vayan todos, salvo, forse, qualche sprazzo greco. (E persino in Argentina abbiamo assistito alla riconversione di questa parola d’ordine, impulsata da una protesta di classe vera, nel senso di un accodamento all’obiettivo intermediata di un “nuovo peronismo”, Madres – ahinoi! – comprese).

Nella presente situazione italiana chi può vantarsi di aver vinto contro Berlusconi?

Non certo il PD, scalzato dalle scelte per Milano e Napoli (ed abbiam detto poco!). L’“alternativa” che si è imposta si basa su due elementi fondamentali: a) il massiccio astensionismo, nell’ordine di una metà circa degli elettori, che manifesta un marasma di cui la “sinistra” ha potuto giovarsi in termini di risultati utili, ma di cui essa e noi tutti, per altri motivi, si farebbe bene a farsene carico; b) l’emergere di “personaggi” cosiddetti fuori dai giochi politici tradizionali visti come possibili deus ex machina capaci di imprimere alla politica stessa delle soluzioni “nuove”, “inedite”, non meglio precisate. Nel che, contrariamente alla massa degli “analisti”, noi vediamo profilarsi un pericolo serio di “antipolitica” senza sbocchi, se non dei peggiori in senso “autoritario”, da “uomini del destino” (di breve corso quanto a loro stessi!). Li vedremo ben presto all’opera questi homines novi e “Giustizieri del Mezzogiorno” alla prese coi problemi reali di una gestione del capitalismo in crisi che non ammette escamotages di sorta! Il fattore astensionismo è ben lungi dal compiacerci, in quanto frutto non di una politica contro, ma di uno smarrimento proletario incapace di affermarsi fosse pure come semplice petizione attiva nei confronti delle forze in campo. La sirena del “nuovo che avanza al di fuori dei partiti” lo è del pari. Quanti, nell’“estrema sinistra” ignorano questi dati di fatto beandosi della “parziale” vittoria conseguita, concorrono a potenziare questo smarrimento ed a comprometterne ogni possibile via d’uscita. Il futuro che ci attende, se noi non sapremo contrastarlo a tempo e modi debiti, sarà quello inesorabile di una un’ulteriore concentrazione del potere borghese “senza lacci e laccioli”. Fiat Dux! (niente di personale, beninteso!). Il “progressismo” postulato a prezzo gratuito può facilmente rovesciarsi nel suo opposto.

La “scesa in campo” di Berlusconi nel lontano ’94, con un programma liberista da portare avanti a suon di “decisionismo”, aveva compattato attorno al cavaliere il grosso dei vari strati borghesi (ed anche una qualche fetta di proletariato deluso dalle manfrine “concertative” della “sinistra” via via dimostratesi prive di risultati tangibili), e ciò in presenza di un fronte “di sinistra” tuttora altalenante tra “liberismo buono” e “rappresentanza dei deboli” (caricatura della rappresentanza sia pur riformista di classe). Il vecchio retaggio DC ha vanificato il disegno berlusconiano, prima col defilarsi dell’UDC ed altri messeri ad essa vicini, poi con quello del FLI. E’ rimasta, a sostegno di una certa innovazione (non è un complimento!) la Lega, dopo la parentesi anti-Berluskaiser osannata a furor di popolo da parte del settore proletario della Lega stessa, in nome di un preteso “realismo” intento ad appoggiare l’ex-nemico in cambio di risultati tangibili sul terreno del federalismo. Qualcosa, in questo campo, si è ottenuto, ma nel senso di un federalismo sempre più staccato e contrastante con le aspirazioni (pur balorde) della parte proletaria della Lega. E questa parte, oggi, ha mandato a Bossi ed i suoi un chiaro segnale: noi non ne abbiamo avuto nulla da guadagnare e non intendiamo più sporcarci le mani a servizio del... Berluskaiser. Questo è un dato su cui meriterà soffermarci più in dettaglio, proprio perché interessa una rilevante fetta del nostro campo sociale (chi parla della Lega come di un semplice settore “bottegaio” dice una fesseria!). Tra le altre cose, è da notare che proprio i proletari della Lega furono in prima linea nell’opposizione alla guerra “sinistra” contro la Jugoslavia ed oggi, con analoghi sentimenti (non trascurabili, anche se distantissimi da noi), prendono le distanze dall’intervento in Libia, cui lo stesso Berlusconi già “amico di Gheddafi” si è piegato sotto la pressione dei peggiori dei suoi arnesi, in quanto “intervento per conto terzi” (come correttamente scrive anche Rinascita in nome del suo nazional –“socialismo” di riferimento). E questo mentre un’infinità di fessi (che non è un’offesa, perché altrimenti dovremmo definirli criminali) della “sinistra” e dell’”ultrasinistra” si schierano a favore di quest’ennesimo interventismo imperialista (“in affitto”) sulle orme del buon Napolitano.

Sarà difficile per il PDL, a questo punto, far quadrare i conti. Il Giornale (5 giugno) suona un giusto campanello d’allarme. “Tentazione centrista. Allarme, torna la DC”. “Torna la DC”, tornano i “compromessi storici”, torna il vecchio marasma paludoso di cui Berlusconi sognava di potersi liberare, con un effetto di immobilizzazione della situazione italiana che non promette nulla di buono, né per la stessa borghesia nazionale né tantomeno per noi. Se poi si dovesse tornare a “proporzionalisti parlamentari” di vecchio stampo davvero saremmo fritti! Le leggi della concentrazione e centralizzazione del capitale, nella presente situazione di crisi sistemica del capitale, men che mai ammettono risultati del genere!

REFERENDUM: IL “POPOLO SOVRANO” E’ SEMPRE PIU’ NUDO

Veniamo ora ai referendum. Ci sorprenderebbe che qualcuno ipotizzasse che, scartata l’opzione elettorale, i referendum offrissero un campo “diverso” ed “alternativo” di “libera scelta” da parte dei “cittadini” su questo o quel quesito sottratto alle leggi del capitale. Il “popolo” chiamato ad esprimersi su di essi può giocare effettivamente solo in ragione di una propria precedente e pesante mobilitazione extraparlamentare, come fu, per l’appunto, sulla questione del divorzio e dell’aborto, con l’effetto di costringere le istituzioni a ratificare determinate scelte “democratiche” (cioè entro l’ambito del sistema) “progressiste”, in nessun caso comunque antisistemiche e pazienza se qualche fesso si sogna di poter un domani “referendare” sull’abolizione del capitalismo. E per ognuna di queste scelte compatibili vi è, sempre e comunque, la possibilità da parte delle istituzioni di “scantonare”: vedi la questione del finanziamento pubblico dei partiti, bocciato dai referendum a pro di... finanziamenti moltiplicati (sotto altra voce) o della stessa opzione antinucleare, già a suo tempo “sanzionata” refendariamente con effetti zero.

L’attuale tornata referendaria è stata studiata principalmente non per affermare dei “diritti universali”, ma per assestare un secondo “decisivo” colpo a Berlusconi all’indomani (si sperava in contemporanea, ancor più profittevole per le “sinistre”) delle amministrative. Già questa cosa puzza, ma lasciamo stare ed entriamo nel merito. Non parliamo neppure della questione del “legittimo impedimento” da cancellare perché – sentite sentite!
– la legge dev’essere eguale per tutti. Dato l’assalto giudiziario permanente al Berluska per fatti veri, presunti o presumibili od anche francamente inventati ad arte (l’ultima “inchiesta” sugli eccessi di interviste TV; ci manca solo l’accusa di turpiloquio ed abigeato per completare il quadro) ci verrebbe quasi da comprendere le ragioni del nostro nemico: si può governare e contemporaneamente presenziare a cento ed una causa giudiziaria messavi ad intralcio? Lasciamo a quanti pensano che comunque si tratta di cacciar via il mostro e ben venga all’uopo la “Giustizia” (così come costoro pensano che i giudici possano surrogare le sconfitte operaie da essi stessi propiziate a suon di deliberati delle varie corti togate: vedi altro nostro intervento in materia).

I quesiti più pesanti, il cui contenuto ipotetico anche a noi interessa, sono quelli relativi al nucleare ed alla cosiddetta “privatizzazione dell’acqua”.

Sul primo, brevemente: noi non siamo di quelli che “per principio” si oppongono all’uso del nucleare, ma lo contrastano in ragione dell’applicazione che il capitalismo necessariamente ne farebbe tagliando i costi destinati alla sicurezza in nome della “profittabilità” tutta e subito. Sottoscriviamo, in un certo senso, la dichiarazione della Hack (Il Manifesto, 3 giugno), elettrice per il “sì”: “Certo voterò quattro sì. Ma questo non vuol dire che sia giusto anche bloccare la ricerca come si fece dopo Cernobyl, e fu un grosso sbaglio. Credo che in futuro l’energia nucleare ci vorrà (quindi: addio al sì assolutista, n.) e l’Italia non può restare fuori per decenni... Lo dice la scienza”. Il recente caso giapponese ne dà un’eloquente immagine: ci costruiscono le centrali dove e come più facili siano le ricadute contabili alla faccia della sicurezza della popolazione e sarà quel che sarà (speriamo bene...questa la logica; quando arriva la catastrofe è lo stato “di tutti” a farsene carico seppellendo i morti e spennando i vivi per rimettere le cose a posto). L’Italietta nuclearizzata nulla farebbe di diverso, questo è un fatto, e noi saremmo pronti anche ad acquistare tecnologie arretrate a scopo di lucro immediato (magari trascurando la tettonica). L’investimento a lunga distanza non fa, non può far, parte delle leggi del capitale (ciò che si vede in un’infinità di altri settori socialmente vitali, tipo l’assetto idrogeologico che nel nostro paese sta andando letteralmente a pezzi).

Tra l’altro, mentre noi ci dissociamo dal nucleare “in casa” continuiamo a comprarlo ai nostri confini (Francia, Slovenia e domani... Russia, Cina). Cosa abbastanza curiosa. Ovvio che noi siamo per la ricerca e l’uso di “fonti alternative” più sicure e pulite (semmai possano, entro il presente sistema, esserlo al 100%). Ma il problema fondamentale, scansato dai referendari, è proprio quello del controllo e dell’uso sociale delle fonti stesse (a, b e c...). Niente di male che i “cittadini” preoccupati della propria salute votino per la seconda volta “sì”, in attesa di una terza, ma ciò non ci solletica affatto.

Quesito sull’acqua.

Noi salutiamo con simpatia e calda partecipazione la lotta dei vari comitati contro una politica usuraia sull’acqua. Questo tipo di lotta ha già impedito che passassero indenni rincari a raffica su questo bene primario, ed esso segna la strada di ulteriori battaglie.. Ciò su cui non possiamo convenire è che la questione sia ridotta alla difesa di un supposto “potere pubblico”, scambiato per sociale, contro il programma di privatizzazione gestionale, promosso dal “pubblico” stesso sprofondato nel marasma, in quanto sinonimo, per l’appunto, di “sociale” e l’affermazione che “l’acqua non è una merce” se ed in quanto tutelata da quest’ultimo. Si dovrebbe dire: l’acqua (e non solo) non devono essere una merce contabilizzata in conto-capitale; il che sarà possibile solo ed esclusivamente sottraendo al capitale il potere su di essa (ed annessi). L’identificazione “pubblico” (sia dello stato che nelle sue infinite diramazioni locali)­“sociale” è una semplice bufala, che, in fin dei conti, si condensa nella infelice boutade “lo stato siamo noi” (noi servi dello stato del capitale).

La realtà è che tutto, nel presente ordine sociale, è merce capitalisticamente contabilizzata. Anche quando, come nel “socialismo reale” di cui qui si vagheggia una versione “ammodernata”, certi servizi possono (o meglio: sono potuti essere offerti) a “prezzo simbolico”. Nella vecchia Russia “socialista” gas, luce, acqua, pane e latte (i beni essenziali) erano effettivamente forniti “sottocosto”, salvo che i costi di essi venivano comunque scaricati sul proletariato attraverso altre vie contabili. Chi paga? Pantalone sempre. Ed anche lì è arrivato il momento in cui questa elargizione “sociale” è dovuta venir meno e tutto è da pagare in solido secondo le leggi di mercato.

L’“intervento pubblico” nel nostro, come in tutti gli altri paesi, ha di caratteristico che vi si associano le leggi di mercato ed una gestione parassitaria, sulla base di baracconi clientelari (dai direttori generali iper-pagati per non fare un c... sino alle assunzioni di “proletari” garantiti dalle varie clientele), con la ricaduta di servizi di merda. Il “pubblico”–stato ci offre la scuola che sappiamo, l’acqua che si disperde per tubature trascurate, le strade dissestate, la tutela del territorio (vedi le “guardie forestali” ipertrofiche e nullafacenti di certe regioni), la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti (per cui paghiamo tariffe sempre più alte, comprese le regioni in cui le strade ne sono ingombrate), i trasporti pubblici, le prigioni che, per ogni carcerato costretto a vivere in condizioni disumane, ci costano un occhio alla testa, le mille polizie incaricate di “proteggerci” con un numero di addetti infinitamente maggiori rispetto ad ogni altro stato con cui si dovrebbe concorrere per efficienza, etc, etc. “Pubblico” è il monopolio dei tabacchi “che provocano tumori”, ragion per cui lo stato aumenta costantemente il prezzo della merce... omicida con la scusa di voler dissuadere i consumatori dall’uso della merce da esso stesso offerta a prezzi usurai (“per il nostro bene”). “Pubblico” è l’intervento sulla benzina, preziosa come l’acqua per chi si deve recare al lavoro, alla propria galera salariale, su cui si prende un 80% del prezzo senza metterci niente in quanto lavoro di ricerca, estrazione, commercializzazione etc. (A quando la consegna “la benzina non è una merce”?).

Volete semplicemente la gestione pubblica di tute queste belle cose? E allora imparate a doverle pagare per il “giusto prezzo di mercato”, comprese le false spese per i baracconi “pubblici”.

Noi poveretti ci troviamo quotidianamente a computare il prezzo delle bollette che ci arrivano, sempre più salate, per tutti questi sevizi e ove non ci fosse l’intervento privato, sappiamo benissimo che il conto sarà, preservando il “pubblico” senza metterne in causa la logica capitalistica, sempre più esoso “per esigenze di bilancio”. Certamente non vogliamo pagare di più ai privati ad esso sostitutivi, specie se i maggiori costi debbano essere suddivisi tra profitto privato e ricariche a favore dei poteri pubblici “concessionari” disposti all’incasso gratuito di quote di esso senza muovere un dito per assicurarcene il “valore d’uso”. Ma questo, ben si vede, è tutt’altro discorso, che impone, per i comunisti coscienti, la lotta contro questo perverso duplice intreccio pubblico-privato. Sono finiti i tempi delle “nazionalizzazioni” (si ricordi quella agitata per l’energia elettrica) quale garanzia di “servizio sociale”, più o meno “gratuito”, non mercantile.

Bassanini, Chiamparino, Renzi etc. sono per il “no” al quesito e capitalisticamente ragionando non hanno tutti i torti. L’acqua “bene di tutti”, e presunta “non merce”, va, col sistema della gestione pubblica criminale, bellamente sprecata sino al 60%; occorrono investimenti che solo i “privati” ci possono assicurare in cambio (sorpresa!) di adeguati profitti: Ed, oltretutto, “è una norma del governo Prodi nel 1996, ministro Antonio Di Pietro” (Renzi dixit). Ci vuole ben altro per offrire alla società servizi essenziali “non mercantilizzati”. E chi ha filo da tessere, tessa!

6 giugno 2011

Nucleo Comunista Internazionalista

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