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Una nazione di assassini

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(11 Maggio 2011) Enzo Apicella

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Da Kabul alla Val Susa. La guerra dell’Italia in Afganistan

(3 Agosto 2011)

Giovedì 4 agosto
ore 21
Da Kabul alla Val Susa. La guerra dell’Italia in Afganistan
Interviene Marco Rossi, autore di “Afganistan senza pace”

Presidio resistente “Garavela” a Chiomonte – nei pressi della centrale
idroelettrica

*******

La guerra in casa
Quattro incontri sulle guerre dell’Italia. Dall’Afganistan alle periferie urbane, da Napoli all’Aquila, dai CIE alla Val Susa

L’Italia è in guerra da molti anni.
È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.

Gli stessi militari delle guerre in Somalia, Bosnia, Iraq, Afganistan, dall’estate del 2008 sono nei CIE, le galere per migranti senza carte, nelle nostre città, nei quartieri dove la povertà e la crisi che si mangiano il futuro di tutti.
Gli stessi militari hanno partecipato alla repressione delle popolazioni campane in rivolta contro discariche e inceneritori. Hanno militarizzato le zone terremotate dell’Abruzzo, inaugurando una nuova politica della catastrofe: i soldati a sorvegliare le popolazioni vittime del terremoto, la lobby trasversale del cemento e del tondino a gestire il business.
Gli alpini della Taurinense – dopo l’esperienza maturata in Afganistan - da una decina di giorni sono alla Maddalena, per presidiare il fortino degli affari e dell’arroganza di Stato.

Nel nostro paese la cultura pacifista e, in parte, anche quella antimilitarista, erano molto radicate.
Ci sono voluti trent’anni per indebolire il rifiuto della guerra. Trent’anni nei quali abbiamo assistito a numerosi salti di paradigma.
Si è cominciato con il definire l’intervento bellico “operazione di soccorso umanitario”: i militari come supporto ai professionisti dell’aiuto. È il caso della Somalia: peccato che morti ammazzati, torture e stupri abbiano un po’ appannato la vetrina, messa su per mettere in ombra i numerosi interessi italiani dell’ex colonia.
L’alibi umanitario è stato mantenuto anche quando dalla guerra umanitaria si è passati prima all’operazione di polizia internazionale – Iraq, Bosnia, Kosovo – poi alla guerra al terrorismo – Afganistan, seconda guerra del Golfo. In difficile equilibrio tra l’operazione di polizia e il contrasto al terrorismo si colloca il recente intervento in Libia.

Il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle dispute internazionali è stato così abilmente aggirato dai vari governi di centro destra come da quelli di centro sinistra.

Il paradigma della guerra come operazione di polizia, così come la guerra al terrorismo hanno reso sempre più labile la separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia.
Saltano tutte le regole formali di regolazione del conflitto e di attenuazione della ferocia della guerra.
Se il nemico è criminale tutto diventa lecito: dalle torture ai lager come Guantanamo, ai bombardamenti di città e villaggi, tutti covi di terroristi.
Nei 150 dell’Italia come non ricordare la guerra contro i ribelli del sud, ancora oggi definiti come briganti?
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Lo rivela l’armamentario propagandistico che le sostiene. Le questioni sociali, coniugate sapientemente in termini di ordine pubblico, sono il perno concettuale dell’operazione.
L’impiego dei militari per sottomettere le popolazioni ribelli del nostro paese è l’ultimo tassello di un mosaico che ben rappresenta la democrazia reale. Chi dissente è considerato un criminale. Un nemico, come in tutte le guerre. Lo scarto tra guerra e politica, tra diplomazia e bombe, tra nemico ed avversario si attenua, diviene impalpabile. Se la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi, è vero anche il contrario: la guerra è la prosecuzione della politica con ogni mezzo.
L’utilizzo di gas vietati in guerra contro la popolazione della Val Susa, l’occupazione militare del territorio, il tentativo di imporre con la forza la devastazione del territorio e lo sperpero di risorse pubbliche sono il segno che la distanza, pur ancora grandissima, tra Kabul e Chiomonte, sta progressivamente diminuendo.

Il confine tra guerra interna e guerra esterna è divenuto impalpabile. Si è frantumato in Libia, nelle galere per gli immigrati respinti dall’Italia, tra le acque del Mediterraneo, nelle campagne di Rosarno, nelle periferie delle metropoli, nelle gabbie per senza documenti, dietro il filo spinato delle tendopoli.
Alla Maddalena di Chiomonte trasformata in fortino presidiato dagli alpini
della Taurinense.

La guerra umanitaria, l’operazione di polizia internazionale, la guerra giusta, la guerra totale hanno di volta in volta modellato le politiche del governo contro i nemici “interni”. Sono gli immigrati poveri, e con loro, i miliardi di diseredati cui la ferocia di stati e capitale ha sottratto un futuro. Sono tutti coloro che si battono contro un ordine
ingiusto, fondato sulla rapina delle risorse, la distruzione del territorio, la negazione di ogni socialità senza merci. Sono quelli che si mettono di mezzo, che sanno che la libertà, quella vera, non si mendica ma si conquista, passo a passo, giorno dopo giorno.

La guerra va fermata, inceppata, boicottata.

I quattro incontri organizzati al presidio resistente “Gravela” di Chiomonte, a due passi dai cancelli che delimitano l’area occupata e militarizzata della Maddalena saranno occasione di approfondimento e confronto.

Parleremo della guerra dell’Italia in Afganistan, degli scenari di guerra “interna” delineati dalla NATO, dell’impiego dei militari contro la gente della Campania e dell’Abruzzo, di Finmeccanica, un colosso dell’industria di guerra italiana

Federazione Anarchica Torinese - FAI

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