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(21 Ottobre 2011) Enzo Apicella
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Libia: cardini, all'italia vanno le briciole

Lo scenario, dice lo storico italiano, è quello di un futuro governo libico filo occidentale che si occuperà di spartire le ricchezze del Paese. All'Italia andra' quel poco che ci lasceranno i francesi.

(27 Agosto 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.nena-news.com

Libia: cardini, all'italia vanno le briciole

foto: www.nena-news.com

Roma, 27 agosto 2011, Nena News - La situazione libica domina i media di tutto il mondo. La frenesia degli ultimi accadimenti e le incertezze sul futuro concorrono a creare uno scenario poco chiaro su quello che capita nel Paese nordafricano. PeaceReporter ha intervistato Il professor Franco Cardini, storico e saggista, docente di Storia medievale all'Istituto italiano di Scienze umane a Firenze ed esperto di Medio Oriente e Islam, che commenta quello che succede in Libia, alla luce dei fattori storici, politici - interni ed internazionali - e culturali che hanno portato al collasso, o quasi, del regime di Gheddafi.

Come si è arrivati, in Libia, alla situazione attuale?

La situazione attuale in Libia si è generata in seguito alle oscillazioni del colonnello Gheddafi in politica internazionale e per la scarsa chiarezza delle sue posizioni, con i continui spostamenti rispetto ai possibili protagonisti della scena mondiale e rispetto al potenziale petrolifero libico. Anche, forse, per la situazione geopolitica generale, sia africana che mediterranea. Voglio dire che non ci si può continuamente spostare da simpatie panafricane ad ammiccamenti con quelli che noi, a torto o a ragione, riteniamo fondamentalisti, passando per atteggiamenti superficialmente filo Nato o filo statunitensi dell'ultima ora e poi, come ha fatto Gheddafi a partire dallo scorso anno, dopo essersi avvicinato ai paesi della Nato e soprattutto alla Francia, tornare sui suoi passi.

Come è accaduto in passato con Saddam Hussein, amico dell'Occidente, osannato e foraggiato in chiave anti iraniana, anche se sapevamo benissimo che sterminava i curdi, scaricandolo subito dopo quando ha minacciato di sostituire l'euro al dollaro come unità monetaria di riferimento nelle transazioni petrolifere irachene, abbiamo scoperto che era un dittatore quando non ci faceva più comodo. Questa volta non abbiamo commesso l'errore fatto in Iraq, con un intervento diretto, ma abbiamo sostenuto un intervento indiretto.

Cosa intende per intervento indiretto?

All'inizio del 2010 Gheddafi ha scoperto le carte, allontanandosi dalle potenze occidentali, lanciando segnali di vicinanza al blocco che si contrappone all'egemonia statunitense.

Le differenze con i blocchi della Guerra Fredda, con schieramenti molto netti, sono tante. In primo luogo il fatto che il potere decisionale è molto più nelle mani delle lobbies economiche che in quelle dei governi. Le divisioni, però, esistono. La Russia, la Cina, l'Iran, il Venezuela, piuttosto che paesi emergenti come Brasile e India, rappresentano un blocco alternativo rispetto a quello egemonizzato dagli Stati Uniti. Non si può parlare di Guerra Fredda, certo, ma una divisione esiste. E' un mondo che si muove, i blocchi interstatali e sovrastatali esistono e contano ancora. La Nato, ad esempio, esiste ancora e non sono neanche troppo chiari i suoi fini. La Cina, parlando chiaro, si sta mangiando l'Africa. La Libia, in questo gioco, con le sue riserve petrolifere, non poteva lasciare indifferente i paesi occidentali. Come nel 1956 a Suez. Per chi ha memoria di storia della diplomazia del Mediterraneo la similitudine con l'intervento anglo-francese contro il panarabismo di Nasser è evidente. Sono intervenuti anche questa volta. Con i finanziamenti, con i media, con la politica. Hanno sostenuto il movimento degli insorti in Libia, nato a Bengasi, dove è partita la rivolta. Gheddafi ha pagato la sua svolta dell'inizio del 2010, il suo ultimo cambio di campo. A caro prezzo. Francia e Gran Bretagna sono intervenute - e qui c'è un altro parallelismo con il 1956 - contro o senza l'assenso degli Usa. Le prove di questo appoggio ai rivoltosi ci sono, anche se in Italia non ne parla nessuno. La stampa francese, invece, lo sta denunciando con chiarezza. Lo scenario non è roseo. Potrebbe arrivare la guerra civile. Ma senza l'appoggio della Nato, che ha fatto la forza d'interposizione solo per un paio di giorni, poi è passata a bombardare unilateralmente i lealisti, non ce l'avrebbero mai fatta.

E l'Italia?

I nostri osservatori, ammesso e non concesso che ne abbiamo di validi, sapevano già come stavano andando le cose. Quando abbiamo firmato il Trattato di Amicizia, che poi altro non è che un trattato di non aggressione, e lo abbiamo fatto per una serie di motivi contingenti che ci hanno portato anche a tollerare le sue buffonate a Roma, sapevamo che stavamo cercando un piccolo vantaggio per le nostre imprese petrolifere, per un certo nostro business, pur consci di essere su un piano inclinato.

Quel trattato, firmato nonostante tutto, è stato disatteso. La nostra posizione attuale è quella di un Paese che dopo aver firmato un trattato di amicizia l'ha rotto unilateralmente e non bisogna dimenticarsene facendo finta di niente. Quando si parla di fedeltà alla parola data e agli impegni non si può privilegiarne alcuni rispetto ad altri. Noi siamo membri della Nato, ma siamo un Paese sovrano e avevamo stipulato un patto con la Libia governata da Gheddafi. Oggi il tiranno è in prima pagina, ma nessuno può dire che non si sapeva cosa faceva Gheddafi. L'abbiamo sempre saputo. Non sono d'accordo con il presidente della Repubblica Napolitano, e mi spiace, perché lo stimo molto, ma citando la nostra fefeltà ai trattati si dimentica che ancora una volta, come nel 1915 e nel 1943, l'Italia è venuta meno a un impegno internazionale. Come cittadino italiano mi sento in imbarazzo, in difetto.

Ma la Libia quanto è davvero un Paese unito?

La Libia non è mai stato un Paese unitario. I turchi lo sapevano benissimo e, fino all'aggressione militare italiana del 1911, tenevano ben distinti i governatorati di Tripolitania e Cirenaica. Il resto non è storia, sono chiacchiere. Tripolitania e Cirenaica son due cose diverse, nel mezzo c'è la Sirte, un deserto che separa queste due realtà molto più di quanto non farebbe un braccio di mare. La Cirenaica è un'appendice dell'Egitto, la Tripolitania è già area berbera, è già Maghreb. Son due cose distinte, diverse, abitate da tribù diverse. Se una vita nazionale condivisa in Libia c'è mai stata, è esistita solo durante il governo di Gheddafi. Adesso sta andando in onda il solito film della fine del tiranno, sempre uguale. Dietro questa storia c'è la solita retrobottega di smemoratezza. Dietro l'unità della Libia c'è quell'ufficiale affascinante, il bell'uomo che all'epoca della Rivoluzione stregava il mondo e che oggi è quel grottesco vecchietto in fuga. Sono la stessa persona. Per anni, in tutto il mondo arabo, Gheddafi ha goduto di un consenso secondo solo a quello goduto da Nasser. La Libia è, in definitiva, un Paese abitato da tribù arabe e berbere. Prima della rivoluzione era una terra di pastori e città costiere con un minimo di attività commerciale. Una borghesia libica non esisteva, se non nella componente ebraica della società, influenzata per vicinanza dall'Italia e dall'Egitto. Meno della Francia, attraverso la Tunisia. La Libia non è mai stata una nazione indipendente, con una sua identità forte. Poi è arrivato prima Graziani con i crimini di guerra, altro che 'italiani brava gente', e in seguito Balbo con una politica più accorta, a creare la Libia unita. Un regime coloniale, non uno Stato unito. La stessa parola Libia è una definizione moderna. Si tornerà alla situazione dell'impero turco? Non credo. Dopo il 1945 le potenze vincitrici hanno assegnato la Libia al Gran Senusso, il leader della famiglia tribale che godeva del prestigio religioso, i Senoussi, appunto. E' diventato il re della Libia. Una monarchia fasulla, che si reggeva su un sentimento religioso abbastanza condiviso, ma politicamente debole appoggiata soprattutto dagli inglesi. Fino alla rivoluzione socialista di Gheddafi. Se la Libia esiste come Paese, e forse non esiste neanche adesso, lo si deve alla rivoluzione. Tutto questo è stato travolto, perché anche il socialismo arabo è fallito.

Alla fine della guerra che Libia ci sarà alle porte dell'Europa?

Difficile dirlo. Quello che gli stati occidentali stanno cercando di fare è appoggiare un governo di coalizione tra le diverse anime e le diverse tribù della Libia. Ci sono elementi vicini all'Occidente, ma anche elementi che guardano con favore a un Islam radicale, compresa quell'area che un po' genericamente da noi viene definita al-Qaeda. In questo momento, tutte queste forze hanno un interesse comune, un nemico comune. La fine di Gheddafi, qualunque sia, è l'obiettivo condiviso. Ucciso, processato, suicidato non è importante...è finita. Difficile che non vada così. Dopo? Nessuna analisi seria è stata fatta fino a ora. Una borghesia illuminata, nella storia della Libia, manca. Nessun paragone con le società civili di Tunisi, del Cairo, di Damasco o di Amman. Siamo davanti a uno dei paesi arabi più arretrati da questo punto di vista. Anche perché, come detto, la Libia non è mai esistita prima della colonizzazione italiana. C'è una gran confusione e ciascuno tenta di accaparrarsi quello che può della Libia del futuro. In questo brilla la Francia di Sarkozy, senza intralci di sorta da parte dell'opposizione. Le potenze occidentali tenteranno in tutti i modi di tenere unite queste anime, per non far scivolare il Paese nella lotta tra bande. Anche se, in questi giorni, alcune fazioni dei ribelli si sparano già tra loro. Ma di questo sulla stampa italiana non c'è traccia. Lo scenario più probabile è quello di un governo di coalizione, a grandi linee filo occidentale e - almeno per i nostri mass media - democratico. Che si occuperà di spartire le ricchezze del Paese, come dimostra l'Italia, che in tutta fretta ha voltato le spalle a Gheddafi. Riusciendo, come l'Eni, a raccogliere le briciole lasciate dai francesi. Nena News

questa intervista e' stata inizialmente pubblicata dal sito Peacereporter

CHRISTIAN ELIA - Peacereporter

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