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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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(5 Settembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Il cammino è tortuoso e l’avvenire incerto … se non sapremo essere all’altezza dei compiti che la situazione ci impone

La crisi del sistema capitalistico ci pone quotidianamente di fronte alla contraddizione fra la spontanea ribellione “difensiva” di ampi strati della popolazione (investiti dalle conseguenze catastrofiche delle “manovre e degli intrallazzi” di una borghesia disperatamente tesa al recupero di margini di profitto ormai impossibili) e l’incapacità dei comunisti di dare le risposte adeguate che la gravità del momento imporrebbe.
E’ il PARTITO, strumento collettivo di elaborazione di strategie, organizzatore politico e centro di direzione cosciente delle lotte, che manca. E questa mancanza non può essere superata dallo sforzo “eroico” di qualche pensatore comunista, ne’ esorcizzata col comodo argomento “materialista” che saranno le masse stesse, nel corso della lotta, a creare il LORO partito.

Diciamo subito che la mancanza del Partito è anch’esso il prodotto storico della fase precedentemente attraversata nell’Occidente capitalistico. L’epoca del “benessere” economico – a cui qualcuno crede ancora sia possibile ritornare – l’epoca del welfare, dello sviluppo senza freni dell’economia basata sul debito pubblico e privato, l’epoca in cui era possibile mantenere, all’interno delle cittadelle del capitale, una estrazione apparentemente “soft” del plus-valore.
C’erano sempre gli sfruttati e gli sfruttatori, ne’ cambiava la natura del lavoro salariato. Permanevano “abusi” crudeli in settori meno tutelati dalle leggi, che settori più avanzati e organizzati della classe erano riusciti a imporre. Si continuava a morire sulle catene di montaggio e nei cantieri. Ma in fondo la coesione sociale era garantita da un surplus (vero o creato dal credito che un’economia in espansione poteva rastrellare) che si trasformava in quegli “ammortizzatori” sociali (mai termine è stato così azzeccato!) che evitavano che il conflitto si trasformasse in ribellione: pensioni e cassa integrazione, sanità e scuola pubblica, case popolari e asili gratuiti. C’era perfino la “scala mobile” che “automaticamente” dava l’illusione di recuperare (e in parte ci riusciva) quello che i meccanismi del mercato sottraevano al salario. Era lo stato sociale: strumento principe nella creazione del consenso, vera e propria “assicurazione sulla vita” per la borghesia che, per pagarne il premio, “rinunciava” a una parte dei profitti estorti ai salariati. Un “lusso” che poteva permettersi in una fase in cui le crisi erano derubricate al rango di “recessioni” i cui effetti sarebbero stati “inevitabilmente” recuperati da un “nuovo ciclo economico” di “sviluppo”.

Pensare che in una fase simile potesse nascere la stessa esigenza del Partito - del Partito rivoluzionario che poneva come elemento centrale del suo programma “l’abbattimento dello stato borghese” e “l’espropriazione degli espropriatori” – era semplicemente pretendere che la coscienza sociale si sviluppasse a prescindere dalle condizioni materiali di esistenza.
Semmai, quelle condizioni materiali di esistenza, creavano “altri” partiti a cui interessavano poco o niente “gli interessi futuri del proletariato”.
I decenni passati hanno visto lo svilupparsi incontrastato delle correnti riformiste e opportuniste, dalla “via italiana al socialismo” (che pure aveva la pretesa e la “dignità” di una strategia alternativa al marxismo rivoluzionario) fino al miserabile appello ai “forconi” del “comunista” Diliberto contro chi – votando contro la guerra – metteva in pericolo la governabilità del centrosinistra.
E, mentre Marx ammuffiva in soffitta assieme alla sua “obsoleta” teoria, fioriva il “revisionismo” in tutte le sue varianti, foglia di fico “teorica” della collaborazione di classe praticata quotidianamente da partiti di “sinistra” e sindacati, sempre meno organizzazioni di lotta – seppure all’interno dei limitati confini imposti dalle “compatibilità” del sistema economico – e sempre più strutture organiche dello stato borghese, da esso stipendiati e sponsorizzati.
Intanto, nella palude della pace sociale, cresceva a dismisura il peso di un ceto politico di “sinistra”, votato al mantenimento “dello stato di cose esistente” in cambio del “riconoscimento” del ruolo “responsabile”, assolto collettivamente, e della promozione sociale individuale (quanti deputati e senatori “comunisti” si godono e si godranno i lauti vitalizi che la loro “esperienza” politica gli ha garantito?). Un ceto di politicanti borghesi che imponeva la propria direzione politica in tutte le organizzazioni che i proletari storicamente si erano costruite. Mediatori nel conflitto sociale, prima, collaboratori attivi nella creazione del consenso alle politiche antioperaie (e perfino antidemocratiche), man mano che i venti della crisi costringevano il padrone a stringere i cordoni della borsa e accorciare la catena.

Eppure, anche negli anni in cui la classe operaia era serva illudendosi di non esserlo, sognando l’accesso a quell’ascensore sociale (la scuola pubblica e gratuita) che avrebbe permesso ai propri figli “meritevoli” di emanciparsi dal destino di sfruttati, mentre gli gnomi di turno si stancavano di guardare il mondo appollaiati sulle spalle “dei giganti che ci hanno preceduti” e sprezzanti ne annunciavano la morte, i comunisti hanno continuato a tenersi stretti a quei giganti, unica bussola strategica che oggi ci permette di comprendere, senza isterismi ne facili entusiasmi, la bufera che ci colpisce. Che colpisce TUTTI, tutte le classi sociali, perfino i capitalisti (all’interno della cui classe cresce il conflitto e la lotta per la sopravvivenza). Un calderone, quello della crisi, di interessi, bisogni, conflitti, forze e tendenze antagoniste che, difficilmente, senza “un buon paio di occhiali”, è possibile discernere.
Gli “occhiali” sono la TEORIA. Quella teoria a cui, anche negli anni più difficili, - spesso calunniati e derisi dai venditori di “un nuovo mondo possibile” dove padroni e servi potessero convivere pacificamente – i comunisti hanno fatto riferimento, non perdendo la BUSSOLA anche quando l’isolamento e l’incomprensione degli stessi strati sociali delle cui istanze si sentivano portatori rendeva il loro compito difficile e ingrato.

Non sappiamo quale ruolo la storia (o molto più modestamente la cronaca) ci riserverà. Quale importanza avrà avuto il nostro lavoro. Di certo il non essere finiti nel “pantano”, quando le “sirene” delle “nuove vie” al socialismo (?) ci invitavano a farlo, ci permette oggi, con più credibilità di ieri, di riaffermare quella che (per pochi) è una verità elementare, mentre, (per molti) è ancora un elemento di conoscenza (e di coscienza) difficile da acquisire: la necessità del partito rivoluzionario.
Ma se, per l’intellettuale comunista, l’esigenza del Partito è un dato acquisito “a priori” dal confronto con le condizioni materiali e con lo stato della lotta di classe in atto, frutto dei suoi studi teorici, di quella TEORIA che non è altro che il concentrato cristallizzato dell’esperienza storica dell’intera umanità (e non solo del proletariato!), ben diversamente l’acquisizione di coscienza avviene a livello di massa.
Le masse popolari (non solo i proletari) vivono la crisi, provano a combatterne (più o meno spontaneamente) gli aspetti che più devastano la loro esistenza.
Provano a lottare. Nella lotta sentono l’esigenza di organizzarsi per essere più forti, per condividere le vittorie e NON restare soli nelle sconfitte, imparano a individuare e conoscere i propri nemici. Immaginano un partito che li DIFENDA, un sindacato che salvi il loro lavoro,… perfino una chiesa che curi i loro bambini affamati. La coscienza politica arriva dall’esterno, dagli intellettuali comunisti, dall’esperienza cristallizzata in teoria che si trasforma in parole d’ordine POLITICHE.
I due elementi, i comunisti e le masse, non sono separati. Sono due aspetti del medesimo processo che si influenzano a vicenda. La pratica della lotta di classe senza la teoria diventa cieca ribellione senza scopo e senza prospettive nemmeno sul terreno limitato delle conquiste parziali. La teoria si isterilisce in un noioso “confronto” fra accademici, non si sviluppa, muore.
Così come “il movimento reale” ha bisogno di una bussola per orientarsi, la teoria ha bisogno di buone braccia e gambe muscolose per diventare forza trasformatrice.
L’avanguardia cosciente della classe in lotta e la teoria, il presente del movimento operaio e il passato della storia dell’umanità, trovano la loro massima espressione nel Partito dove dialetticamente si combinano.
Senza il Partito l’incontro fra le due istanze rimane episodico, parziale, alla fin fine “improduttivo”.

Ma anche questo ragionamento rischia di rimanere astratto e di non farci fare molti passi avanti se non sul terreno della consapevolezza teorica. E allora dobbiamo domandarci se ci sono oggi le condizioni per riproporre con più forza e più autorevolezza la questione del partito, e se ci sono le condizioni affinché questa consapevolezza diventi patrimonio di quelle avanguardie che spontaneamente la lotta di classe, “contro gli effetti della crisi”, crea.
Certamente ci sono. La crisi aggrava le condizioni di vita di milioni di persone, non distrugge solo la speranza (e le aspettative) di un futuro migliore ma rende impossibile alla stragrande maggioranza della popolazione continuare a vivere “come si è vissuto fin’ora”.
Strati sociali fino a ieri “privilegiati” si ritrovano, di colpo, in condizioni di miseria economica simile (se non peggiore) a quella del proletariato.
Non ci sono più spazi (e risorse) per la ricerca di un consenso che nemmeno il controllo orwelliano dei mezzi di comunicazione di massa può più garantire, poiché sempre più stridente appare il contrasto fra la propria vita materiale e la propaganda di regime.
Perfino i tentativi di mettere assieme i cocci delle passate avventure riformiste per ricostruire una “sinistra” comunista “moderna” falliscono con la stessa velocità con cui vendono proposti. E il riciclaggio dei vecchi rottami opportunisti, che pur fino a qualche anno fa furoreggiavano nei salotti televisivi e incettavano i voti “utili” a garantire ai governi una copertura popolare, è opera vana di fronte alla sfiducia diffusa e all’odio (di classe) verso una “casta” considerata nel suo insieme responsabile delle peggiori ruberie.

La mancanza del Partito non frena di certo la lotta degli strati sociali investiti dalla crisi. Ma appunto perché manca una forza organizzata capace di indicare gli obiettivi strategici di queste lotte, le risposte che vengono date, le soluzioni che vengono ricercate, sono infinite e spesso contraddittorie. Ogni lotta, ogni soluzione proposta, ogni “parola d’ordine” porta il segno della classe (o dello strato sociale) che scende in campo. Viviamo in un periodo di grande “confusione”. In periodi come questo “piccoli gruppi compatti” sono diventati forti partiti operai capaci di porsi e perfino risolvere la questione del potere.
Ma periodi come questo hanno anche prodotto il fascismo.
Non saremmo certo noi a ritrarci terrorizzati di fronte “all’impetuoso svolgersi degli eventi”, e a rimpiangere una fase di apparente pace sociale all’ombra della quale si sanciva la morte delle aspirazioni presenti e future della classe operaia, ma comprendiamo che la complessità della situazione pone, oggi più di ieri, la questione di come influenziamo chi si ribella assaltando i (moderni) forni o gettando con disprezzo monetine sul politico di turno.
Indicare una strada (proporre un programma fatto di PAROLE D’ORDINE comprensibili e capaci di indirizzare verso obiettivi chiari la rabbia di chi si ribella) è compito di oggi. Non possiamo rinviarlo a quando avremo un (non si capisce come) Partito perfettamente organizzato (ammesso che sia possibile costruire un partito “al di fuori” dello scontro di classe in atto) e nemmeno lasciare che i proletari “ci arrivino da soli” sbagliando e provando sulla loro pelle gli effetti dei loro errori, ripercorrendo percorsi che ai comunisti sono già noti.
Su questo dovremmo discutere nei mesi a venire.
Non più (o non solo) da attenti osservatori dei fenomeno sociali che si dipanano sotto i nostri occhi, ma da artefici coscienti della trasformazione rivoluzionaria della società.

5 settembre 2011

Mario Gangarossa

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