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"Ecco perchè muoiono gli italiani a Herat"

(14 Settembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.radiocittaperta.it

"Ecco perchè muoiono gli italiani a Herat"

foto: www.radiocittaperta.it

Checchino Antonini, Liberazione 14 settembre 2011

Questa è una storia nascosta per troppo tempo. E’ la storia che spiega perché muoiono i “nostri” ragazzi a Herat. Proprio mentre tornava la salma della quarantunesima vittima italiana, il Senato votava l’ennesimo rifinanziamento della missione in Afghanistan. Eppure dal 2008 è triplicato il dato sulle vittime italiane. Nei primi quattro anni della missione erano solo 12.

La storia che crediamo di poter ricostruire in larga parte inizia proprio tre anni fa. E la racconta Alì, giornalista pachistano e fonte del Sismi, come si chiamavano i servizi segreti militari prima della riforma. Fu allora che una serie clamorosa di errori ha consentito di smantellare il network clandestino di intelligence che gli italiani avevano tessuto tra Pakistan e Afghanistan per tutelare i “nostri”.

«Era la rete che aveva fatto liberare Clementina Cantoni», racconta a Liberazione Alì. Cantoni, giurista e volontaria di Care International, fu rapita a Kabul la sera del 16 maggio 2005, mentre tornava a casa da una lezione di yoga. Per quel giorno era stato emesso un avviso di sicurezza che consigliava agli stranieri a non mettere il muso fuori di casa. Fu rilasciata nel pomeriggio del 9 giugno 2005 dopo 24 giorni di prigionia; si presume che il rilascio sia stato possibile in cambio del rilascio della madre del rapitore che era stata arrestata in quanto sospettata del coinvolgimento in un altro sequestro.

Sullo sfondo, a sentire Alì, c’è una lotta intestina al Sismi tra gente di Pollari e gente di De Gennaro, probabilmente. E, all’interno della fazione dell’ex capo del Sismi tra “calipariani” e “manciniani”.

Poco prima dei fatti, l’ammiraglio Branciforte - già “senior national representative” a Tampa, negli Usa, durante l’Operazione Enduring Freedom, uomo gradito agli americani, aveva preso il posto della controversa figura del generale della finanza chiamato da Berlusconi al Sismi. Pollari aveva inciampato nel rapimento di Abu Omar – il Sismi avrebbe collaborato con Mancini alla rendition organizzata dalla Cia a Milano – e poi nell’affare dell’archivio segreto di Pio Pompa, il suo braccio destro che aveva schedato mezzo mondo politico italiano. Sul fronte caldo della guerra guerreggiata, tutto ciò avrebbe significato l’emarginazione dei colleghi più fidati di Nicola Calipari, ucciso mentre liberava Giuliana Sgrena a marzo del 2005, e il crollo dell’attività operativa del Sismi.

L’episodio clou del racconto di Alì è ambientato nei giorni di quel marzo quando a Karachi atterrano quattro italiani con passaporto diplomatico. A riceverli in aeroporto c’è il referente ufficiale in loco dei servizi italiani. Due o tre giorni dopo è un venerdì, giorno festivo in quel paese islamico, ma il consolato italiano è aperto e dà parecchio all’occhio. I quattro sono sbarcati per una operazione di debriefing, una sorta di chiamata a rapporto: si doveva fare il punto con i capirete della struttura clandestina. All’uscita ci saranno gli uomini dell’Isi pakistana che arresteranno tutti i sette informatori indigeni. E anche i quattro italiani verranno identificati poco dopo in aeroporto. E’ così che si guasta, dopo un’operazione a dir poco goffa, stando al racconto di Alì, è il rapporto tra italiani e colleghi pakistani. I due servizi sono collegati e il fatto che uno dei soci abbia messo in piedi un network parallelo viola l’accordo bilaterale. Per gli arrestati saranno mesi di prigione e di tortura. La rete ormai è senza rete, neutralizzata. Così faranno capire i carcerieri ad Alì. L’Isi si sarebbe lamentata con i nuovi capi del Sismi che stava trasformandosi in Aise e Roma avrebbe spiegato che quegli informatori dovevano servire alla sicurezza dei “nostri” sul campo. Era composto, il network, da giornalisti e funzionari statali. Il primo ad essere preso è Syed K. A., sulla sessantina, che era infiltrato nel mondo delle madrasse, le scuole islamiche. Lo hanno costretto a telefonare al suo caporete che però avrebbe mangiato la foglia. Solo due o forse tre referenti, insospettiti dalla procedura “disinvolta” (non è usuale una riunione tra persone che non si dovrebbero conoscere tra loro), sono scampati alla retata disertando quel summit. Gli informatori frequentavano il circuito delle madrasse e avevano relazioni con il sistema tribale afgano. Syed sarebbe stato costretto a identificare i partecipanti alla riunione fotografati. Alcuni di loro, forse, potrebbero essere stati addestrati in Italia. Uno, in particolare, sarebbe stato attivato nella prima fase del rapimento di Daniele Mastrogiacomo, un anno prima del debriefing. Ed è lo stesso uomo che, poco prima della retata, si incatenò innanzi all’ambasciata italiana di Kabul lamentandosi che gli italiani non lo pagavano ma senza spiegare perché si aspettava dei denari. Alì ci dice che si chiama Nazir B. B., ora ha 36 anni. Forse la rete clandestina era già incasinata.

Quando termina il racconto di Alì vengono in mente le parole di Mario D’Auria. Suo figlio Lorenzo, 33 anni, sottufficiale del Sismi fu ferito a morte nel blitz che lo avrebbe dovuto liberare dai rapitori. Gli assassini, disse quel padre, sono quelli che li hanno mandati a morire laggiù. Dieci anni di “libertà duratura” - costata vite umane e tagli al welfare - non bastano ancora per indignarci?

Liberazione

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