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Il soldato Manning

Il soldato Manning

(4 Marzo 2011) Enzo Apicella
Rischia la pena capitale il soldato statunitense accusato di aver rubato centinaia di migliaia di informazioni segrete e di averle passate a Wikileaks

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(17 Settembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

In crescente difficoltà sul piano economico, i paesi imperialisti cercano di scaricare i loro problemi interni attraverso il più classico dei rimedi, la guerra. La politica estera è la continuazione di quella interna, e gli sfruttatori, che usano diverse forme di coercizione nel proprio paese, dalle varie polizie alla magistratura, per metter a tacere le reali opposizioni (per quelle gattopardesche come il PD basta un Berlusconi qualsiasi), adoperano la forza dello stato anche verso l’esterno, per imporre ai paesi più deboli una politica che soddisfi a pieno le esigenze delle multinazionali.

I tempi sono cambiati rispetto ai primi decenni del secolo scorso e la terminologia del colonialismo è fuori moda. Non si parla più di conquistare un paese, di assoggettarlo, ma di “liberarlo” da un tiranno. Non importano i mezzi usati, i missili a uranio impoverito, la viltà senza pilota dei predator, l’invio di mercenari - pudicamente denominati “Contractors” - o di armi in palese violazione delle stesse indicazioni dell’ONU - che finge di non vedere, o che, se costretto a vedere, non fa nulla. Stampa e Tv rappresentano il coro della menzogna, che deve sciorinare mille storie: il viagra dato ai soldati per indurli a violentare le donne, un normale cimitero spacciato per una fossa comune, i bombardamenti sulla folla in piazza, atrocità inventate per nascondere quelle autentiche dei bombardamenti “mirati”, con gli ovvi “effetti collaterali”.

A quale paese toccherà ora, alla Siria, all’Iran? Quali che siano le colpe dei regimi, i bombardamenti colpiscono le popolazioni, ma i “liberatori” sono pronti a sacrificarle.

La guerra degli schiavisti, espressione politica dei banchieri, dei lupi di borsa e dei capitalisti in generale, non ha ancora incontrato una sufficiente opposizione nelle metropoli.

Un tempo gli imperialisti si dividevano le colonie: Iraq e Palestina alla Gran Bretagna, Siria e Libano alla Francia, alla faccia degli arabi, che avevano combattuto per essere indipendenti dai Turchi. Allora c’era un Laurence d’Arabia, forse non interamente consapevole del ruolo a cui il suo governo l’aveva destinato, ora ci sono agenti segreti e mercenari, pienamente consci del loro compito brigantesco. E ci sono Sarkozy e Cameron, che pretendono di giocare la parte dei protagonisti.

Però, mentre si pavoneggiavano a Tripoli nei panni dei “liberatori”, acclamati come eroi, le dichiarazioni dell’ambasciatore Ivo Daalder, rappresentante Usa presso la Nato, dimostravano quanto ridicola fosse la vanagloria dei due superuomini: “...il 27 marzo, la direzione è passata dal Comando Africa degli Stati Uniti alla Nato comandata dagli Stati uniti. Sono loro, precisa Daalder, che hanno diretto l'iniziativa per ottenere dal Consiglio di sicurezza il mandato e far decidere la Nato a eseguirlo... Sono sempre gli Stati Uniti che hanno diretto la pianificazione ed esecuzione della guerra. Sono loro che all'inizio hanno neutralizzato la difesa aerea libica e continuato a sopprimere le difese per tutto il corso del conflitto, impiegando Predator armati. Sono loro che hanno fornito il grosso dell'intelligence, individuando gli obiettivi da colpire, e hanno rifornito in volo i cacciabombardieri alleati. Ciascuno di questi elementi, è stato decisivo per il successo dell'operazione, con la quale la Nato ha distrutto oltre 5mila obiettivi senza subire alcuna perdita.”(1)

Si vedono chiaramente i rapporti di forza, e si capisce che Francia e Gran Bretagna sono imperialismi vassalli (quello italiano, valvassino), ossia fanno parte della banda di briganti che sfrutta il mondo, ma in posizione subordinata. E questo dà la possibilità all’angelico Obama di presentarsi come colui che non voleva la guerra, trascinato dalla protervia di Sarkozy, costretto a intervenire per non lasciare nei guai gli alleati, pur essendo più vicino alla cautela di Robert Gates che all’impeto della signora della guerra Clinton. Una recita, quella dell’hollywoodiano premio Nobel per la pace, che gli permette di respingere l’assalto di coloro che gli rinfacciano la spesa eccessiva: la libertà (del capitale, aggiungiamo noi) non ha prezzo. Il territorio libico sarà la testa di ponte per la penetrazione militare, politica, finanziaria, visto che Francia e Gran Bretagna non sono in grado da sole di frenare l’avanzata cinese (a suon di dollari, per quanto sembri paradossale, ma la Cina ne ha una valanga).

Non la vecchia spartizione tra imperialismi indipendenti, ma la delega USA a Francia e Gran Bretagna a fare la guerra, a occupare paesi. Sarà intatta, però, la fetta del padrone di oltreoceano. Agli imperialismi gregari come l’Italia, poi, vengono richiesti sacrifici senza ricompense. Il governo accetta senza protestare, con La Russa, Frattini e tutta l’opposizione ancora più masochisti.

Una tremenda delusione per quei nazionalisti, vecchi e nuovi, di destra e di sinistra, che immaginavano un Berlusconi erede di Mattei, o del Craxi di Sigonella, in difesa dell’ENI, e dei rapporti con l’Iran, la Libia, la Russia, sulla questione dell’oleodotto South Stream. Sui rapporti con l’Iran il cedimento è stato immediato, per quanto riguarda la Libia il governo ha partecipato alla guerra contro gli interessi dell’imperialismo italiano; cederà anche sull’amico Putin. I nazionalisti hanno puntato su un uomo ricattabile, duro con i deboli (pensionati, precari, immigrati), ma di pastafrolla con i potenti. Noi internazionalisti non piangiamo per le sconfitte dell’imperialismo patrio, a noi interessano le sorti dei lavoratori, che devono scegliere se subire tutte le angherie di una classe dirigente corrotta e incapace, oppure riscoprire le vie della lotta, come hanno saputo fare tante generazioni prima di noi.


16 settembre 2011

Note

1) Manlio Dinucci, “ L’arte della guerra. Sia chiaro chi ha il comando”, il Manifesto, 13-9-2011.

Michele Basso

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