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La nuova sindrome cinese: liberismo ed autoritarismo in salsa nostrana

(28 Settembre 2011)

La crisi finanziaria e la crisi di accumulazione che il capitalismo atlantico si trova ad affrontare si può far risalire, seppur schematicamente ad una crisi di sovrapproduzione di merci e di capitale.

Questa da una parte ha determinato la crescita della finanziarizzazione e dell'impiego di capitali a più alto tasso di rendimento in paesi ed in luoghi che non fossero soggetti a vincoli sociali ed ambientali, rendendo autonomia a quelle borghesie di continenti prima assoggettate al capitale atlantico, ed oggi in grado, come la Cina, di determinare politiche industriali e finanziarie e di acquisire un ruolo sempre più egemone a livello mondiale.

Dall'altra parte la crisi ha comportato una progressiva perdita di importanza economica dell'Europa come catalizzatore di flussi di capitali e di merci, e, come nel caso della succitata Cina, la maggior acquisizione di peso di altre aree geografiche. In Europa, la conseguente diminuzione di crescita economica e di ricchezza prodotta, ha comportato l'inasprimento della lotta di classe intorno alla distribuzione del reddito. In queste fasi critiche, contrassegnate da una diminuzione delle risorse disponibili, l'elemento determinante nella definizione delle scelte politiche ed economiche della società capitalista, e cioè i rapporti di forza tra le varie classi economiche, acquisisce ancor più maggiore rilevanza.

In piena espansione della bolla finanziaria abbiamo assistito agli Stati che corrono in soccorso del Capitale finanziario accollandosi i cosiddetti titoli tossici, mentre i lavoratori che sono stati ingannati dalle sirene degli investimenti e della speculazione finanziaria sono rimasti con un palmo di mano, così come successe per i bond argentini.

La banca europea ha concesso prestiti alle banche private a basso costo, le quali a loro volta hanno reinvestito in forme di finanziarizzazione degli Stati a tassi molto più elevati.

In questo modo gli Stati sono divenuti i principali debitori delle banche private, le quali, preoccupate che questi non falliscano, impongono - attraverso i comandamenti della BCE - loro politiche restrittive nei confronti del welfare e della spesa pubblica.

È un circolo vizioso, in cui le politiche keynesiane, che in parte potrebbero ritardare gli effetti della crisi, non sono all'ordine del giorno.

Il settore dell'economia reale, da cui comunque è partita la crisi finanziaria, ne subisce gli effetti più pesanti con un erosione delle plusvalenze. Ma il sistema per continuare a funzionare ha bisogno di garantire a chi investe, cioè ai capitalisti, sempre il suo margine di profitto.

È qui che si innesca l'inevitabile conflitto tra Capitale e Lavoro, di cui ne abbiamo un esempio in quello che è successo alla FIAT, con il modello Marchionne che ha fatto da apripista per il nuovo corso contenuto anche nell'ultima manovra finanziaria, a ridisegnare i rapporti sindacali scaricando sulla pelle dei lavoratori i costi della crisi, e con la benedizione di tutto un ceto politico, che va dal Partito Democratico agli uomini del Governo Berlusconi e che, per bocca di Sacconi e dei media complici, già intravedeva nel prossimo futuro rapporti aziendali dove sia per sempre bandita la possibilità dei lavoratori ad organizzarsi collettivamente per contrattare la propria condizione ed il proprio salario.

Proprio dal punto di vista dei rapporti di forza, all'interno di questo scenario, registriamo in Italia una grande debolezza delle classi subalterne ad iniziare dalla classe lavoratrice.

Sono caduti uno ad uno i pilastri della sicurezza sociale che nel secolo scorso ed in decenni di lotta la classe proletaria era riuscita a darsi ed a costruire negli anni, dai partiti di massa alle organizzazioni sindacali, che, trasformandosi nel tempo hanno garantito, soprattutto all'interno dei propri stati nazione un contratto sociale che permetteva una redistribuzione della ricchezza a favore delle classi popolari, e dove le borghesie nazionali, in un periodo di espansione capitalista, accettavano che le conquiste della classe operaia smussassero ogni antagonismo rivoluzionario. Ma ora, ridotti i margini delle plusvalenze, tutto ciò non è più possibile. La lotta per la distribuzione delle ricchezze prodotte si inasprisce e chi è più debole soccombe.

Anche grazie alla debolezza e all'inadeguatezza delle storiche rappresentanze politiche e sindacali di classe, dal completo asservimento dei sindacati di servizio CISL, UIL e UGL, alla completa subalternità della CGIL, il cui gruppo dirigente, Camusso in testa, è impegnato a comprimere la spinta alla generalizzazione del conflitto che viene non solo dalla classe operaia, ma anche da altri settori della società reale, del lavoro e del non lavoro. Una subalternità che trova linfa nei riti che puntano alla salvaguardia della burocrazia sindacale e nello squallido legame tra buona parte di questa e il Partito Democratico.

Ma anche all'interno della parte più conflittuale della CGIL, la FIOM, ci sono resistenze alla generalizzazione del conflitto, nonostante l'importante ruolo svolto come catalizzatore del fronte sociale.

D'altra parte pezzi di sindacalismo di base, nel tentativo di acquisire visibilità, sono spesso bloccati da sterili operazioni di salvaguardia delle proprie sigle di appartenenza, dimenticando troppo spesso che il primo fine sarebbe quello di unificare le lotte dei lavoratori che loro stessi rappresentano e, mettendo per prima la rappresentanza rispetto ai rappresentati, finiscono spesso nel non riuscire a catalizzare le espressioni di conflitto che provengono dalla naturale lotta delle classi.

Tutto questo mentre nella società reale la crisi sta producendo ondate di indignazione e di lotta in tutti i paesi del mondo, dove giovani e non solo, al di fuori delle classiche forme organizzative, stanno riscoprendo in una dimensione collettiva la propria capacità di lotta.

Un conflitto attualmente ancorato ad un rapporto politico- istituzionale, ma che presto si renderà conto dell'impossibilità di un percorso istituzionale, non perché le oligarchie al potere ne osteggeranno l'avanzamento, ma perché è appunto impossibile ridefinire ruoli di trattativa con un capitale che deve salvare se stesso. E se il pericolo è che le lotte espresse in questo periodo e quelle che verranno siano dirottate dai vertici burocratici, in vista di una probabile futura crisi politica, verso le viscide e sterili paludi dell'elettoralismo, e che tutta questa espressione del conflitto diventi linfa per le future beghe elettorali di ciò che rimane della sinistra, perché questa è la fine a cui abbiamo assistito troppe volte negli ultimi tempi, il movimento che sta emergendo sembra avere in nuce assorbito l'ossatura pratico-teorica di nuove forme organizzative autogestionarie all'interno della società reale. Nonostante l'elitarismo e la debolezza politica di buona parte della galassia anarchica incapace di influenzare questi moti spontanei, e di renderla cosciente della sua componente libertaria e di classe, di cui questo movimento sembra raccogliere prassi sedimentate. Nelle parole d'ordine e nelle pratiche che dovranno essere capaci di contrastare, all'interno di ogni paese, la nuova tendenza del capitalismo mondiale, permeata su una sintesi tra liberismo economico e autoritarismo politico, con il modello di sviluppo cinese a fare scuola col suo cocktail di centralismo politico e liberismo economico, e dove sono i grandi investitori finanziari e le banche centrali a determinare le scelte politiche degli Stati.

Infatti l'orientamento delle oligarchie politiche è quello che, all'interno delle mura statali, restringe progressivamente gli spazi democratici concentrando il potere politico, applica politiche antisociali erodendo le risorse prima destinate alle classi più povere, smantella i beni comuni svendendoli al capitale privato. Così come in Italia, dove una classe politica legata alla parte più corrotta e parassitaria del capitalismo, oltre a blindare i privilegi dei faccendieri finanziari e degli evasori plurirecidivi, nel tentativo di riacquistare la fiducia dei partner europei e degli investitori esteri, ma ovviamente incapace di generare scelte che andrebbero contro i loro stessi interessi, partorisce una manovra che colpisce direttamente le classi sociali più povere, una manovra oltretutto depressiva anche dal punto di vista della crescita capitalista perché riduce la capacità di consumo della società.

Una manovra che dà la svolta definitiva alla cancellazione del contratto nazionale del lavoro, che dà via libera alla libertà di licenziamento, all'impossibilità di opporsi, anche per via legislativa, al peggioramento delle condizioni di lavoro e di salario, che taglia le pensioni dei lavoratori e delle lavoratrici e ne innalza l'età di accesso e che in definitiva spazzerà via diritti e tutele conquistati in decenni di lotte operaie.

All'esterno la tendenza neoautoritaria del capitale a livello internazionale, con la lotta per la spartizione delle risorse energetiche ed economiche produce conflitti armati a bassa intensità.

E, in una sorta di perenne riproduzione dell'appropriazione originaria, ne fanno le spese le popolazioni dei paesi più poveri, rapinati delle loro risorse naturali, usati come discarica dei paesi ricchi, privati delle loro libertà decisionali.

E nella ridefinizione delle aree d'influenza, il capitale, nella sua perenne guerra ha trasformato in miti soldati i ceti popolari dei paesi più ricchi, ridottisi a difendere il proprio capitale e quindi la propria borghesia.

In questo scenario è estremamente probabile che in Europa il conflitto tra lavoratori, disoccupati e diseredati da una parte e il capitale e lo Stato dall'altra aumenterà progressivamente, come d'altronde hanno dimostrato non solo il variegato movimento degli "indignati", ma anche le forme meno politiche come la risposta dei senza potere inglesi, al dominio del mercato ed alla mercificazione delle proprie vite, che peraltro valgono sempre meno.

Molto probabilmente questo sarà lo scenario diffuso nell'Europa dei prossimi mesi, ed in particolare in Italia, dove la compressione sociale sta raggiungendo limiti insopportabili.

Dall'altra parte ci immaginiamo già giornalai di corte e sociologi prezzolati ad accorrere in soccorso del potere tanto bistrattato, schiere di politicanti mafiosi e venduti, sindacati complici che hanno scelto di stare dall'altra parte della barricata, ed hanno scelto la criminalizzazione di ogni risposta di classe prima ancora che questa si manifesti.

In questo scenario di ridefinizione dei rapporti sociali a tutto vantaggio del capitale, ogni pratica democratico parlamentare è del tutto insufficiente perché serve a perpetuare il grande inganno. Ogni strada che un tempo si sarebbe detta riformista ci è preclusa. Di fronte ad un capitale ed un potere statale che mai come oggi si fanno così minacciosi servono risposte di lotta a livello territoriale e sui posti di lavoro, serve un fronte unico del sindacalismo conflittuale, che sappia promuovere ed unire la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici su una piattaforma di richieste semplici e chiare in difesa delle libertà sindacali e dei diritti economici. Serve una unione di tutto il sindacalismo conflittuale con un'azione coordinata dal basso, e non spezzettata nei mille rivoli delle rappresentanze verticistiche. Serve un coordinamento tra il sindacalismo conflittuale e i comitati territoriali cittadini che difendono l'ambiente, le periferie e gli spazi liberi dall'aggressione degradante del capitale e un coordinamento con tutte le forme associative territoriali o di categoria anticapitaliste.

Ed è fondamentale inoltre favorire tutti quei coordinamenti anticapitalisti che oltrepassino i confini dei singoli paesi e diano un respiro internazionale all'organizzazione del conflitto.

In questo scenario è fondamentale che si confrontino e si impegnino i militanti anarchici e libertari, a partire dalla definizione delle linee di intervento politico, nel produrre analisi e materiali in un dibattito allargato interno ed esterno all'ambito libertario, ma che sappia individuare nella crescente risposta internazionale alla crisi la necessità della critica anarchica, valorizzandone i contenuti, per arrivare alla partecipazione militante e organizzata nelle lotte del proletariato europeo.

Consiglio dei Delegati
Federazione dei Comunisti Anarchici

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