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Sfruttamento in/debito. Il ruolo degli Usa nell’ultimo crollo dell’economia mondiale

Intervento di Francesco Schettino al Seminario sulla crisi. Pisa 7 Ottobre 2011

(8 Ottobre 2011)

Dopo un triennio trascorso dagli agenti del capitale nel tentare di obnubilare in ogni maniera, talvolta persino risibile, le condizioni estremamente critiche del capitalismo nella sua interezza, nelle ultime settimane, a seguito dell’impressionante crollo dell’economia mondiale, e delle connesse terrorizzanti prospettive di accumulazione dell’ultimo quadrimestre dell’anno corrente e di quelli che hanno da venire, la parola recessione ha nuovamente trovato grande spazio. Sia nelle pagine dei quotidiani che tra i commenti dei lacchè radio-televisivi e dei sedicenti opinionisti di ogni parte, si è fatto ricorso in maniera massiva a tale terminologia, corredata dai consueti riferimenti ai grandi crack della storia del capitalismo, esclusivamente per indurre i membri della classe lavoratrice a digerire lentamente gli ennesimi “sacrifici” (il riferimento al sacro è assolutamente non casuale...) necessari a garantire i profitti del capitale (vedi altrove in questo numero).

È del tutto evidente, a questo punto – come del resto regolarmente riportato in questa rivista già da alcuni decenni e, più nello specifico, negli ultimi anni – che la crisi attuale, che incontra una manifestazione particolarmente adatta al mezzo televisivo nei quotidiani crolli delle borse mondiali, poiché immanente, per quanto possa essere tenuta al riparo dagli occhi velati della classe subordinata, stia sempre più rapidamente mettendo a repentaglio l’intero sistema di produzione capitalistica: non è, infatti, un caso che persino autorevoli organi di (dis)informazione dominante si esprimano in maniera spesso apocalittica e, forse per la prima volta, sostengano che quella prossima avrà conseguenze travolgenti non risparmiando nessuno, paesi emergenti compresi (l’avvertimento ai cinesi, in questo caso, è evidente).

La sovrastruttura ideologica montata in maniera ineccepibile dalla borghesia mondiale nei mesi passati, principalmente per mezzo dei suoi organi privilegiati, i media, sta mostrando delle crepe lampanti: persino Napolitano, intervenuto recentemente nel meeting del braccio politico della “lobby di Dio” – comunione e liberazione – ha dovuto ammettere che da parte del governo è stata stabilmente proposta una strumentale sottovalutazione della crisi corroborata dai tg di regime dei varii Fede e Minzolini (si rammentino a riguardo, tra le tante, le fandonie berlusconiane sulla crisi “psicologica”). Ma più delle dichiarazioni di un presidente indiscutibilmente ambiguo, per altro tardive perché giunte ormai a fatto compiuto, hanno sicuramente agito le condizioni materiali che hanno destato molte delle coscienze (e le tasche) dei lavoratori sebbene esse non siano state attratte in maniera significativa da alcuna analisi di classe che potesse fornirvi una solida chiave di lettura.

Ad oggi, infatti, le vittime della prima grande ondata dell’ultima crisi, quella di fine 2008 – lavoratori cassa integrati, quelli oggetto di licenziamenti, i precari e i disoccupati e gli altri occupati che hanno subito il peggioramento diffuso delle proprie condizioni di lavoro (sia in termini di valore d’uso che di valore di scambio) – non sono state affatto riassorbite da un’economia mondiale in evidente stato comatoso: il numero di giovani che non riesce a vendere la propria forza lavoro, soprattutto in Europa, ha ormai raggiunto cifre impressionanti, superando addirittura il 30% nei cosiddetti piigs (1.138.000 gli under 35 senza lavoro in Italia, secondo le ultime stime di Confartigianato), al cui interno ci sono zone che si collocano ben al di sopra di tale soglia – vedi disoccupazione femminile nel Mezzogiorno italiano al 45% – mentre il tasso complessivo di disoccupazione non tende ad allontanarsi significativamente dalla soglia dei dieci punti percentuali. Dall’altra parte dell’oceano, del resto, le cose non vanno meglio e ciò viene confermato dalla clamorosa perdita di popolarità di Barack Obama che, nonostante la pantomima dell’eliminazione di Bin Laden, sarà probabilmente punito nelle prossime tornate elettorali proprio per non essere stato in grado di porre riparo alle condizioni drammatiche in cui gli Usa versano da trenta anni almeno e che si sono sensibilmente aggravate a seguito del fallimento pilotato di Lehman Brothers.

Se a tutto questo pandemonio sociale si affiancano i primi dati che provengono dai principali centri del potere economico mondiale si può iniziare a delineare quali possano essere le cause del terrore spettrale che si aggira magnificamente tra le filiere della produzione di ogni parte del mondo. Accanto all’ennesimo rallentamento della produzione dei paesi occidentali per l’ultimo trimestre dell’anno corrente, che sono ben peggiori di quanto previsto in precedenza (per gli Usa si è giunti ad uno striminzito 1% a fronte del già poco edificante precedente 1,8%), è il settore bancario a sembrare in grande sofferenza: nel momento in cui, il 24 agosto scorso, la Bce ha ricevuto una richiesta di liquidità pari a ben 2,8 mrd €, lo sconcerto ed il panico ha attraversato tutti gli operatori convinti che si fosse tornati, nonostante le mirabilanti iniezioni di euro e di dollari pompate sia da Bce che da Fed nei mesi passati, ad una mancanza di liquidità, elemento che si verificò proprio alla fine del 2008, salvo poi ricondurre tale comportamento ad una ambiguità giustificabile come anomalia statistica: a detta di Reuters si tratterebbe di una forma di precauzione che le banche stanno prendendo in previsione di nuove inevitabili tensioni che presumibilmente si verificheranno su tutti i mercati a partire già da settembre. Nonostante la ambigua, e forse troppo sbrigativa, giustificazione fornita dagli operatori, va detto che il settore bancario sta subendo forti sollecitazioni: tra agosto e settembre sono previsti, sic rebus stantibus, ben 60 mila licenziamenti: persino la banca svizzera Ubs taglierà 3.500 posti di lavoro nell’ambito del programma di riduzione dei costi pari a 2 mrd di franchi svizzeri come annunciato alla fine di luglio facendo eco a quanto dichiarato da Credit Suisse che prevede un taglio 2 mila posti a livello mondiale. Anche Bank of America ha deciso di correre ai ripari, a fronte del crollo del 47% della sua capitalizzazione di borsa, annunciando di poter giungere a sopprimere 10 mila posti in totale dopo i 3.500 già annunciati, nel quadro di una ristrutturazione battezzata “Project New Bac”, che traghetterà il gruppo alla riduzione del 15% delle proprie agenzie in tutti gli Usa. Tutto ciò, a detta dell’autorevolissimo Bloomberg, è il provvedimento più pesante, in termini di contrazione dell’occupazione, adottato dal sistema bancario statunitense dalla fine del 2008. Inoltre, c’è da notare come, nell’ultimo anno, i colossi del credito, abbiano subito una significativa riduzione del proprio valore in termini di capitalizzazione di borsa: rispetto alla fine del 2010 Intesa San Paolo, Uncredit, Ubs, Credit Suisse, Deutche Bank, Société Générale, Bnp Paribas, Banco Santander e Bbva hanno osservato sgonfiare il proprio valore per un importo compreso tra il 10% ed il 50%, inducendo i titoli Unicredit e Intesa ad una probabile fuoriuscita dall’indice Stoxx 50 che racchiude i cinquanta titoli maggiormente rappresentativi dell’eurozona. Questo sembra essere solo l’inizio di una tendenza di dimensioni largamente più importanti, giacché, a fronte di sollecitazioni negative nel settore bancario, il comparto produttivo solitamente reagisce amplificandone gli effetti nefasti.

La crisi, il debito e la speculazione

I mesi a cavallo dell’estate del 2011 sono stati caratterizzati principalmente da un diffuso senso di panico in particolare all’interno dei paesi dell’area dell’euro: gli indici azionari, seguiti a ruota dagli omologhi relativi alla produzione reale, hanno toccato livelli molto prossimi a quelli registrati nell’ultimo quadrimestre del 2008. Dopo aver mal sopportato il grave attacco speculativo del 2010 ai danni del disastrato debito pubblico greco, l’area dell’euro è stata costretta a subire un innalzamento del livello del conflitto valutario, del tutto interno alla classe dominante, quando ad essere colpita è stata l’Italia, sempre per mezzo della propria struttura debitoria, che, a differenza della Grecia, rappresenta, a livello di produzione complessiva, uno dei paesi più importanti dell’intera area (detenendo, oltretutto, dopo la Germania, la riserva aurea maggiore); con questa nuova offensiva è stata posta in serio pericolo – e questo era evidentemente uno degli scopi della manovra – la stabilità dell’unione e l’esistenza stessa della valuta europea. Senza entrare nel dettaglio della questione e delle contromosse adottate sia a livello locale che sopranazionale per fronteggiare tale drammatica offensiva (per cui si rimanda ad altri articoli presenti in questo volume), ciò che ci preme sottolineare in questa sede è come tutto ciò sia frutto dello scontro sempre più duro e palese tra dollaro ed euro (cfr. anche no.131 e no.135) ossia della forma valutaria che l’attuale fase dell’imperialismo ha assunto da ormai quasi un decennio.

Difatti, come ormai è noto, l’indebitamento pubblico (e privato) non è una peculiarità esclusiva dei paesi del vecchio continente, ma la sua esplosione, al contrario, è un fenomeno che negli scorsi decenni ha riguardato tutti i paesi capitalisti, Usa in primis, essendo una forma connaturata allo sviluppo del modo di produzione capitalistico che raggiunge, per evidenti ragioni, il livello di massima espansione proprio nelle fasi di crisi di accumulazione: “il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo si indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà  di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società  per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il giuoco di Borsa e la bancocrazia moderna” [K.Marx, Cap. I, 24,§6].

Le ondate speculative che si sono verificate negli ultimi mesi non sono dunque ascrivibili esclusivamente alla vulnerabilità del debito dei paesi che di esse ne sono state vittime, bensì principalmente allo stato assolutamente pessimo dei conti del paese d’origine di tali flussi di capitale fittizio: il tentativo di sconvolgere il principale antagonista interno alla stessa classe (da bravi fratelli nemici), ossia il capitale legato all’euro, ha senza dubbio l’obiettivo di sostenere il dollaro e tutta la struttura produttiva e finanziaria che su esso basa la propria attività di sfruttamento in giro per il mondo, provando ad evitarne un rovinoso e drammatico crollo, altrimenti inevitabile: la strategia adottata sembrerebbe esser dunque consistita nell sondare prima il terreno colpendo i paesi maggiormente vulnerabili (Grecia in particolare) per poi alzare il livello dello scontro (Italia e Spagna) fino a giungere al cuore dell’eurozona (Francia e Germania). Dopo l’annuncio di possibile declassamento anche dei titoli del debito pubblico francese – cosa che, già solo come voce, ha inflitto perdite al capitale europeo, e pertanto è da ascriversi ad una vera e propria minaccia – il 25 agosto scorso è stato effettuato un assalto al mercato borsistico tedesco. Infatti, in soli 20 minuti è giunto un ordine di vendita massiccio, con tutta probabilità di provenienza Usa, come sostiene persino ilsole24ore, “capace di trovare impreparato anche un mercato solido e liquido come quello di Francoforte” che in pochi minuti ha subito un crollo verticale. “Alle 15.44 sugli schermi degli operatori iniziano a lampeggiare ordinativi di vendita imponenti. Uno dietro l’altro. Tutti concentrati sui contratti future dell’indice tedesco. Il più grande dei quali arriva alle 16.03: un unico ordine di 2.583 contratti future con scadenza settembre, per un valore di 351 milioni di euro. Nel complesso, spiega un broker, nel giro di 20 minuti, arriveranno sul Dax vendite per circa 2 miliardi di euro. Tante. Troppe. Anche per un mercato tradizionalmente solido come quello tedesco, uno tra i più liquidi di tutta Europa”.

Scrivemmo già ben nove anni fa (cfr no.97 – La ripresa che non c’è), ma la cosa non ha perso certo di attualità, “sulla gravità  della minaccia costituita dallo scoppio della bolla sul livello di cambio del dollaro. L’enorme massa di dollari accumulata all’estero – a causa del susseguirsi di anni di enormi deficit della bilancia commerciale degli Usa, il protrarsi di questo squilibrio nei conti con l’estero a livelli immutati – addirittura in forte aumento (5,5% del Pil nel 2004) qualora l’economia americana tornasse a crescere al ritmo del 4%, e l’assenza di un movimento compensativo dei flussi di capitale (come si registrava nello scorso decennio), determinano un impressionante potenziale al ribasso del dollaro. Un elemento di compensazione – solo parziale – potrebbe essere costituito dai flussi di capitale esteri attratti dall’espansione del mercato dei titoli di stato (a seguito degli ingenti e crescenti deficit di bilancio pubblico, oramai superiori al 4% del Pil), ma ciò si otterrebbe a condizione di generare un’ulteriore tensione al rialzo sui tassi a lungo termine, in un momento in cui la borsa non fornisce più capitali a buon mercato alle imprese statunitensi. Ne risulterebbe comunque, nelle attuali condizioni, un effetto depressivo sugli investimenti privati [cosiddetto “spiazzamento”], un ulteriore aumento della spesa per interessi sul debito pubblico ed un aumento di titoli denominati in dollari detenuti all’estero. Dunque, un palliativo che potrebbe avere il vantaggio di mantenere temporaneamente le cose come stanno, semplicemente rinviando, però, il momento del redde rationem.”.

“Qualora, in virtù del potenziale esistente, la quotazione del dollaro cadesse improvvisamente, assisteremmo ad un crollo verticale del mercato azionario ed obbligazionario statunitense con effetti disastrosi sugli investimenti privati statunitensi e sul deficit pubblico dell’amministrazione Usa. Come nella prima metà degli anni ottanta, sembra imporsi la necessità  di una svalutazione pilotata del dollaro. Attualmente, però, la strada perseguita dall’amministrazione statunitense, più che quella di una cooperazione internazionale fra le autorità  monetarie, sembra essere quella della guerra, ovvero sostegno diretto a carico dei contribuenti dell’apparato militare industriale, ed intervento diretto nella filiera del petrolio e gas naturale (una delle più importanti dal punto di vista della grandezza dei flussi d’investimento realizzabili) a sostegno del ruolo del dollaro contro l’intrusione dell’euro.”.

È dunque la valuta statunitense a rappresentare l’anello più debole in questa fase della crisi mondiale, giacché essa non viene più sostenuta da un’economia Usa in evidente e inesorabile caduta libera: dunque, i movimenti speculativi, che hanno trasferito, e non già bruciato, centinaia di miliardi di euro in pochi giorni dall’Europa agli Usa stessi, hanno innanzitutto avuto la finalità di tutelare il biglietto verde, attorno a cui ruota una buona parte dell’attività capitalistica. Da questo punto di vista, risulta molto vantaggioso il cosiddetto commissariamento dei paesi che escono massacrati dal volo spietato del flying capital o più precisamente, come scrivemmo più di dieci anni fa (cfr no.91 – Debito sovrano), “il meccanismo di ristrutturazione rivolto ai paesi intestatari del debito estero (una volta era volgarmente foreign ora più sontuosamente sovereign, come se in epoca imperialistica non più coloniale possa esistere qualche paese formalmente non sovrano). In realtà  “sovrano” è solo il gruppo di testa dei grandi creditori, quelli che quel debito hanno inventato. Vediamo perché, e quali sorprese ciò nasconda.

Dirige la banda, come prima vicepresidente del Fmi, la sig.ra prof.ssa Anne Kruger, la cui espressione facciale ricorda molto quella amabile di Madeleine Korbel Albright. La sig.ra Kruger ha innanzitutto stupito i liberisti a oltranza perché, nella rinegoziazione del debito estero, viste alcune anomale crescenti difficoltà, ha pensato bene che «la maniera in cui le moderne economie di mercato operano devono prevedere una regola giuridica basata sul mercato stesso, che tuttavia possono includere clausole di azione collettiva che ovviamente non sono basate sul mercato. Quest’ultima “ambiziosa” impostazione è considerata complementare dalla comunità  internazionale.>>

Insomma, detto più chiaramente, è ormai sempre più evidente che per i liberisti gli organismi statali, come quelli sovrastatuali (quali Fmi, Bm, Omc), non debbano assolutamente essere inerti e guardare passivamente lo svolgersi degli eventi di mercato. La favola della “mano invisibile” poteva destare qualche superficiale curiosità a fine settecento, ma per il moderno imperialismo è chiaro che più mercato deve significare anche più stato. Lo stato (quello che conta, e il sovrastato per esso) sta là soprattutto per sostenere il capitale monopolistico finanziario gravitante nella propria area, che sia nazionale oppure no poco importa: “socializzare le perdite, privatizzare i profitti” era il coerente slogan fascista.

Sicché la splendida Kruger per rimettere a posto il flusso dei crediti, e ridare fiducia agli investitori (il caso dell’Argentina è tipico), vuole ristutturare il debito dei paesi intestatari introducendo le suddette clausole di azione collettiva affidate a “una supermaggioranza di creditori” – i veri sovrani della situazione – ai quali dovrebbe essere demandata anche la garanzia dei diritti, bontà  loro, delle minoranze di creditori che potrebbero usufruire “di termini leggermente favorevoli” per essere convinti alla rinegoziazione.

Conclusione: gli organismi sovranazionali – si dice che non ha senso rinegoziare i crediti concessi dal Fmi o dalla Bm, essendo elargizioni pubbliche, ovverosia, fatte a carico dei contribuenti – sostengono i grandi creditori privati i quali devono fare profitti, prendendo a rimorchio i piccoli, se ci stanno, e trattando i “paesi sovrani” intestatari come vittime quali sono. In effetti, tutto il marchingegno krugeriano mira essenzialmente a mettere in condizione di gestione fallimentare gli stati debitori, di maniera che attraverso una tale “amministrazione controllata” dai grandi creditori possano essere raggiunti obiettivi di sottomissione equivalenti a quelli del fallimento vero e proprio di un Paese, che sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile negli anni 2000.”.

AA+…c’è ben poco da ridere

Nonostante fosse atteso già da mesi (cfr no.135), il cosiddetto “taglio” del rating dei titoli del debito pubblico statunitense (da AAA ad AA+) – ossia una valutazione di garanzia non più di massima solvibilità da parte del tesoro Usa – effettuato da Standard & Poor’s tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, ha causato una potente fibrillazione sui mercati internazionali. Del resto, l’entità di tale indebitamento, legato alle estreme difficoltà di accumulazione del capitale legato al dollaro, non poteva che indurre ad un giudizio di questo tipo, a cui è stato affiancato un “outlook negativo” ossia ad una tendenza prospettica all’ulteriore peggioramento, vincolata alle difficoltà di risanamento che si potranno mettere in atto nei prossimi mesi. Riportammo già nel no.131 di questa rivista come “secondo alcuni osservatori la bancarotta degli Usa è una certezza []. Nel prossimo anno il Tesoro usamericano dovrà  rifinanziare circa 2 mmrd $ a breve termine, ai quali occorre aggiungere altri 1,5 mmrd di costi connessi al disavanzo: il tutto ammonterebbe a 3,5 mmrd – quasi un terzo del pil – che nessuno al mondo potrebbe prestare in un anno”.

Al di là, dunque, del lavoro sempre più polveroso e criticato delle agenzie di rating – non a caso proprio alla fine di agosto il vertice di S&P’s, Deven Sharma, è stato “invitato” a dimettersi e verrà sostituito dall’amministratore delegato di Citigroup, Peterson – gli elementi che spingono finalmente a reputare quella Usa come un’economia prossima al collasso sono divenuti evidenti. Ne vale la pena di ricordare come, del resto, questa condizione non sia frutto “semplicemente” della cosiddetta crisi “passeggera” (sic!) successiva al fallimento di Lemhan Brothers, bensì essa affondi le proprie radici nei decenni passati nelle modalità che abbiamo avuto modo di evidenziare su questa rivista a partire almeno dal 2000 (in particolare cfr. no. 76 eclissi totale, no. 102 il debito usa, no.106 al verde, dollari nomadi, no.114 crepuscolo del dollaro, no.119 usa al prossimo collasso e altri), senza voler scomodare la fine degli accordi di Bretton Woods, all’inizio degli anni settanta, periodo in cui con gran vigore ebbe a manifestarsi l’incipit dell’ultima, inesorabile, lunga crisi di sovrapproduzione del capitalismo, iniziata allora ed ora ancora ben lungi dall’essere risolta.

Nella lotta fratricida, tra capitali legati rispettivamente a dollaro ed euro, non poteva certamente esimersi dall’intervenire l’attuale locomotiva della produzione e dell’accumulazione mondiale, ossia la Cina. Nel mese di luglio appena trascorso, infatti, per la prima volta, i vertici usamerikani hanno dovuto ammettere che, in assenza di un intervento – per necessità di cose condiviso sia dai democratici che da repubblicani – gli Stati uniti avrebbero dovuto dichiarare default il 3 agosto: proprio negli stessi giorni, alcuni stati dell’unione stavano entrando in una crisi del debito se possibile peggiore di quella nazionale – ribadiamo ancora una volta che gli Usa conteggiano separatamente il debito federale interno e quello dei singoli stati – e il Minnesota, governato da politiche fasciste per vent’anni, basate su riduzione delle tasse ai più ricchi e riduzione dello stato sociale, è stato costretto a dichiarare fallimento, mandando a casa 24 mila dipendenti pubblici impedendo, così, anche il funzionamento di ogni minima assistenza sociale. Tutto ciò ha ulteriormente messo in allerta il governo cinese che detiene grande parte del debito estero Usa, ossia 1.100 mmrd $, e ben 3.200 mmrd in dollari Usa come riserva monetaria (60% del proprio totale). Non è una novità, infatti, che Cina e Stati uniti siano legati a doppio nodo sia dalla ipotetica solvibilità del debito che dal valore della valuta statunitense: ciò che, invece, è da leggersi come un segnale di discontinuità politica col passato, è stato l’intervento dei vertici politici cinesi che, senza utilizzare un linguaggio propriamente diplomatico, all’avvicinarsi della fatidica data del 3 agosto – dinanzi a prese di posizione ideologiche, sia dei repubblicani che dei democratici, che impedivano la condivisione di una comune pianificazione per evitare il default – ha, forse per la prima volta, lasciato da parte il suo consueto principio, solo a parole, di non-interventismo nelle questioni interne di paesi terzi e, senza mezzi termini, ha tuonato sostenendo di “sperare” che il governo degli Stati Uniti adottasse politiche e misure responsabili in grado di garantire gli interessi degli investitori, allo “scopo di disinnescare la bomba del debito che potrebbe influire negativamente sul benessere di centinaia di milioni di famiglie negli Stati Uniti ed all’estero”.

Verrebbe da dire: “a buon intenditor, poche parole!”. Tuttavia, nonostante l’accordo trovato dalle parti, che ha, per ora, solo allontanato, e neanche di molto, il fantasma del default, il governo cinese ha deciso di mutare l’approccio monetario adottato in passato, scegliendo, per tutta risposta, di differenziare maggiormente le proprie riserve – rivolgendosi in particolare verso quelle dell’oriente asiatico, yen in primis – e facendo intendere di volersi liberare progressivamente dell’enorme quantità di titoli del debito pubblico cosa che, come abbiamo visto, determinerebbe un ulteriore aggravamento delle condizioni degli Usa: il governatore della Banca del popolo cinese, Zhou Xiaochuan, subito dopo essersi “congratulato” con Obama per la conclusione dell’accordo che, secondo lui, dovrebbe fornire una necessaria stabilità ai mercati, ha affermato che “le riserve della Cina continueranno a seguire i principi della diversificazione degli investimenti e della gestione dei rischi”, scaricando così, di fatto, il biglietto verde. Il Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Pcc, ha chiaramente affermato che “anche se gli Stati Uniti hanno fondamentalmente evitato il default dei pagamenti, i problemi del loro debito sovrano restano irrisolti: ciò getta un’ombra sulla ripresa dell’economia americana e porta rischi e preoccupazioni ancora più importanti per l'economia mondiale”. A corredo, l’agenzia cinese di rating, Dagong, ha tagliato il giudizio sui titoli Usa da A+ ad A con outlook negativo, sottolineando come l’aumento del tetto del debito abbia solo temporaneamente evitato il fallimento, mentre non ne ha migliorato la solvibilità.

Conclusioni e prospettive

Il tanto atteso intervento di Bernanke, capo della Fed, di fine agosto ha probabilmente deluso molti agenti del capitale che avrebbero preferito un nuovo “alleggerimento quantitativo” (quantitative easing) che sarebbe seguito a quello di fine 2008 (1700 mrd $) e a quello di inizio 2011 (600 mrd $); tuttavia, forse anche ai vertici dell’autorità monetaria statunitense sarà sembrato pericoloso iniettare una nuova massa di dollari, stampati ex novo, nell’economia statunitense o, comunque, agli stessi sarà sembrato inutile, a tal punto che, colto forse da un più che comprensibile sfinimento, Bernanke ha “neutralmente” ricordato che la Fed già dispone degli strumenti necessari a gestire la situazione. In sostanza, come molti analisti hanno sottolineato, ha passato la patata bollente nelle mani del sempre più disastrato Obama e del sempre-più-destro Congresso statunitense.

Ribadendo, ancora una volta, che non è nello stile di questa rivista fornire “ricette comtiane per l’osteria dell’avvenire”, sembra comunque opportuno spendere qualche parola su quali siano, alla luce dei fatti appena esposti ed analizzati, le prospettive che appaiono più verosimili. Sul fatto che il capitale stia attraversando – nonostante i più strenui tentativi di negazione che abbiamo sinteticamente evidenziato in precedenza – una crisi epocale che, a detta anche dei più fanatici sostenitori del modo di produzione attuale, sta ponendo in evidente discussione le basi e le finalità del capitalismo e della produzione basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo al fine di massimizzare il profitto, ci sono pochi dubbi. Per le ragioni che abbiamo già analizzato a fondo in innumerevoli articoli negli ultimi decenni apparsi su questa rivista, l’inasprimento delle condizioni di accumulazione dell’ultimo triennio, destinato a continuare ancora per anni, è una “naturale” manifestazione della ben più lunga crisi tendenziale del capitale – contrastata e talvolta neutralizzata dalle cause antagonistiche [K.Marx, C, III, 15] – che ha tratto principio almeno all’inizio degli anni settanta, dalla conclusione “pilotata” degli accordi di Bretton Woods. L’imponente sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale dal secondo dopoguerra per circa venti anni ha stimolato le contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico, che, poi, attanagliato dalle crisi di sovrapproduzione e, dunque, dalla tendenza alla riduzione del saggio di profitto, si è trovato all’inizio del nuovo millennio in una fase estremamente intricata. Tuttavia, se il capitale, ed i suoi agenti, attraverso il motore della concorrenza e dello sfruttamento hanno adottato un “comportamento” particolarmente aderente alla teoria di Marx ed Engels, la classe subalterna sembra ben lontana dall’appuntamento con la storia non avendo sviluppato una coscienza in grado di esprimere il proprio enorme potenziale rivoluzionario. Le rivolte nei paesi arabi, le manifestazioni degli indignados spagnoli, ed europei in generale, senza voler scomodare le mobilitazioni studentesche sudamericane, sono certamente frutto della crisi del capitale; tuttavia esse non sembrano distinguersi significativamente, sia nei contenuti che nelle modalità, almeno allo stato attuale, dalle esperienze degli ultimi quindici anni che possono vantare un curriculum disastroso proprio perché private di una solida base teorica – e di una struttura connessa – in grado permettere un vero e proprio accumulo delle forze che, in una fase come quella attuale, sembrerebbe quanto mai opportuna e persino “naturale”.

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