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(16 Gennaio 2012) Enzo Apicella

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Emergenza Italia – tra crisi del debito e collasso economico

Seminario sulla crisi. Pisa 7 Ottobre 2011 Intervento Vladimiro Giacché –

(8 Ottobre 2011)

La situazione ha cominciato ad avvitarsi a luglio, con l’andamento disastroso dei titoli di Stato. I rendimenti si sono impennati paurosamente, rendendo sempre più onerosi gli interessi che lo Stato italiano deve pagare su un debito che è già pari al 120% del prodotto interno lordo e quindi sempre più precaria la situazione dei conti pubblici. Per la verità, si trattava di una tempesta annunciata (si veda il mio “Titanic Europa” sul numero di giugno di Marx Ventuno), per almeno tre motivi. Il primo è rappresentato dalla decisione assunta in sede europea nel marzo di quest’anno di rendere più stringente (rispetto a quanto stabilito a Maastricht) il patto di stabilità, imponendo un piano di rientro dai debiti che superano il 60% del prodotto interno lordo (pil) e prevedendo sanzioni per gli inadempienti: questa modifica, contro cui il governo italiano avrebbe potuto e dovuto esercitare il proprio potere di veto, di fatto metteva sotto i riflettori dei mercati internazionali proprio l’Italia, il Paese con il maggior debito pregresso dopo la Grecia (che però era già sotto attacco per altri motivi); e questo nonostante che dal punto di vista del deficit corrente (quello annuale) la situazione italiana fosse invece migliore della media dell’Eurozona. Il secondo motivo è rappresentato dall’aggravarsi della situazione in Grecia e negli altri Paesi già sotto attacco (Irlanda e Portogallo), che ha prodotto un effetto-domino che si è esteso all’Italia. Il ragionamento degli investitori è lineare: se l’Europa non riesce a gestire con successo una crisi periferica come quella greca, come si può pensare che gestisca l’eventuale crisi di un Paese che ha un debito da 1,9 trilioni di euro? Infine, il terzo motivo: la bassa crescita italiana, che fa sì che il rapporto debito/pil non possa migliorare in quanto il denominatore (il pil) non cresce.

A settembre, dopo un succedersi di manovre fatte, stravolte e peggiorate che ci ha reso ridicoli a livello mondiale, il risultato concreto è questo: una correzione di bilancio da 55 miliardi di euro di qui al 2014, che a regime sarà composta per il 78% di nuove entrate (ossia di nuove tasse), a fronte di una riduzione della spesa pubblica di 18 miliardi di euro, in gran parte scaricata sugli enti locali. La ciliegina sulla torta è costituita dall’aumento dell’1% dell’Iva (dal 20% al 21%), che è andata a sostituire il contributo di solidarietà imposto in una versione precedente della manovra ai cittadini che guadagnano oltre 90 mila euro all’anno. Questo contributo è rimasto per i soli lavoratori pubblici (cosa probabilmente incostituzionale), mentre tra i lavoratori del settore privato la soglia è stata portata oltre i 300.000 mila euro annui: il risultato sono introiti di appena 300 milioni di euro all’anno, contro le previsioni iniziali di 3,7 miliardi di euro. Questo buco è stato colmato con l’Iva, un’imposta regressiva: le tasse indirette colpiscono infatti i poveri più dei ricchi (in quanto la parte del reddito spesa in beni di consumo è maggiore per gli stipendi bassi che per quelli alti, i quali a differenza dei primi riescono a tesaurizzarne una quota rilevante). Qualora poi non scattino gli introiti (finti) previsti dalla manovra per lotta all’evasione e altre voci non sicure, la copertura sarà garantita da tagli alle detrazioni fiscali per 4 miliardi nel 2012 e 12 miliardi nel 2013. È appena il caso di aggiungere che anche il taglio delle detrazioni fiscali colpisce in particolare i redditi più bassi.

In definitiva, la filosofia di questa manovra si ispira alla famosa battuta di Ettore Petrolini: “Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti”. La cosa che salta immediatamente agli occhi, riguardo a questa impostazione, è la sua palese iniquità in un Paese in cui ogni anno viene evaso qualcosa come 120 miliardi di euro (più del doppio dell’entità complessiva della manovra), e in cui il governo (praticamente unico in Europa) si rifiuta ostinatamente di introdurre qualsiasi forma di imposta patrimoniale. Ma questa manovra non è soltanto iniqua: è inutile e controproducente. Gli effetti stimati sull’economia delle maggiori entrate e della riduzione della spesa pubblica previste sono la perdita di almeno un punto percentuale di crescita. Infatti, siccome la manovra peserà sulle famiglie per 33 miliardi su 55, la domanda e i consumi si ridurranno.

Il calo della domanda interna non potrà essere compensato dall’export, anche perché i nostri principali partner commerciali in Europa stanno varando misure di austerità. Quanto al commercio estero extra-Ue, gli ultimi dati, relativi al mese di agosto, non sono granché confortanti, evidenziando una diminuzione delle esportazioni dell’1,1% a fronte di una crescita delle importazioni del 2,5%. Tra queste ultime, si rileva l’incremento tendenziale (cioè anno su anno) del 20 % delle importazioni di beni di consumo non durevoli (+20%) e di prodotti intermedi (+13,5%); diminuiscono invece le importazioni di beni strumentali, ossia di macchine per produrre (-3%). Per quanto riguarda le esportazioni, anch’esse manifestano un incremento tendenziale che riguarda tanto i beni di consumo non durevoli (+18,8%) quanto i beni strumentali (+14,6%) e i prodotti intermedi (+14,3%). Ma va notato come proprio sui mercati più dinamici (India, Cina e Turchia) le esportazioni crescano meno della media. E più in generale si tratta di un incremento che va misurato su un livello di partenza tutt’altro che entusiasmante.

Del resto, gli ultimi dati Istat sulla produzione industriale parlano chiaro: l’Italia a luglio arretra (-0,7%), mentre l’Europa in media registra una crescita (+1%). Non solo: su base annua (ossia da luglio 2010 a luglio 2011) la produzione di beni di consumo nel nostro Paese è calata del 7%, e nel settore del tessile e abbigliamento è addirittura crollata (-20%). Assistiamo allo sfarinamento di interi settori industriali. La situazione è ancora quella descritta nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia il 31 maggio scorso, che si può riassumere in poche battute come segue. Prodotto interno lordo stagnante da 10 anni, produttività oraria del lavoro ferma, crescente disavanzo della bilancia dei pagamenti, inaridimento dell’afflusso di investimenti diretti dall’estero. Le cause? Al riguardo Mario Draghi, rifacendosi alle ricerche condotte dalla stessa Banca d’Italia, citava tra l’altro la “struttura produttiva italiana più frammentata e statica di altre”, il crescente distacco del sistema educativo italiano da quello di altri Paesi avanzati, il collasso della giustizia civile e una dotazione infrastrutturale insufficiente. Vale la pena di spendere qualche parola sul primo degli aspetti citati, che è quello fondamentale. Possiamo riprendere direttamente le parole di Draghi: “le imprese italiane sono in media del 40% più piccole di quelle dell’area euro… La struttura produttiva del nostro Paese appare statica: i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari. Nei primi anni Sessanta gli stabilimenti manifatturieri con oltre 100 addetti assorbivano in Italia il 43% dei lavoratori del settore, contro oltre il 60 in Francia e Germania. Da allora la quota è scesa in Italia assai più che in Francia e Germania, fin sotto il 30%. La flessibilità tipica delle piccole imprese, che in passato ha contribuito a sostenere con successo la nostra competitività, oggi non basta più. Occorre un maggior numero di imprese medie e grandi che siano in grado di accedere rapidamente ed efficacemente ai mercati internazionali, di sfruttare i guadagni di efficienza offerti dall’innovazione tecnologica”.

È importante capire che quando parliamo del debito pubblico e della sua sostenibilità parliamo di questo: di crescita insufficiente, di bilancia commerciale in passivo e di un sistema industriale arretrato che, dopo aver perso le svalutazioni competitive, ha spinto l’acceleratore su evasione fiscale e compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori – ponendosi su un terreno perdente a livello internazionale e depauperando progressivamente il tessuto produttivo di questo Paese. Ma la manovra di agosto non affronta questo problema. Al contrario. Sarebbero necessari forti investimenti in formazione di base e universitaria: e questo governo li ha drasticamente ridotti. Sarebbero necessari forti investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico, e questo governo li ha drasticamente ridotti. Sarebbero necessarie infrastrutture utili: e a questo governo interessano solo quelle inutili, come il ponte sullo Stretto e la Tav in Piemonte. Sarebbe necessario un riordino delle agevolazioni pubbliche alle imprese, che oggi costano decine di miliardi e sono fonte di infiniti sprechi e ruberie: esse andrebbero drasticamente ridotte, a favore di incentivi che favoriscano la concentrazione industriale e gli investimenti in ricerca e innovazione da parte delle imprese private italiane (che da questo punto di vista sono il fanalino di coda in Europa). E infine sarebbe necessaria la restituzione allo Stato di compiti di orientamento degli investimenti e la ricostruzione di un forte settore pubblico dell'economia: nella manovra c’è invece la privatizzazione delle municipalizzate…

L’unica misura “strutturale” che troviamo va nella direzione sbagliata: si tratta della libertà di licenziare, introdotta in maniera truffaldina nell’art. 8 della manovra. Questa misura non ovviamente ha niente a che fare con il miglioramento dei conti pubblici e aumenterà la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Proprio quando è sempre più evidente che la precarizzazione già realizzata in questi anni, oltre a determinare un peggioramento della qualità della vita per un'intera generazione, non ha migliorato in alcun modo la competitività ed è tra le cause principali della debolezza della domanda interna che affligge da anni il nostro Paese.

Stando così le cose, questa manovra contiene tutti gli ingredienti di una ricetta per il declino: da un lato deprime ulteriormente la domanda interna e quindi i consumi, dall'altro non programma alcun investimento pubblico e non interviene su uno dei motivi fondamentali della scarsa competitività delle imprese italiane, ossia la dimensione inadeguata a reggere il confronto internazionale (in termini di economie di scala, organizzazione del lavoro, capacità d'investimento in innovazione). Il risultato sarà un'ulteriore perdita di competitività sui mercati internazionali e quindi di quote sull'export internazionale. Quindi la crisi di crescita continuerà e anzi si aggraverà. Con il risultato di peggiorare il rapporto debito/pil da due lati: da un lato, siccome il denominatore (il pil) diminuirà, quel rapporto peggiorerà (per far diminuire il numeratore occorrerebbe infatti un cospicuo avanzo di bilancio, cosa impossibile nella situazione attuale); dall'altro, anche i vantaggi delle stesse politiche di austerità dal punto di vista della riduzione del deficit annuale (e quindi dell'accumulo di ulteriore debito) saranno vanificati per il semplice fatto che la diminuzione del pil ridurrà le entrate fiscali ordinarie. Il risultato di tutto questo sarà una forte recessione e un’accresciuta insostenibilità del debito pubblico.

La cosa degna di nota è che precisamente con questa motivazione – argomentando cioè che i tagli di bilancio avranno impatto negativo sulla crescita, e quindi renderanno più difficile onorare i debiti – la società di rating Standard & Poor’s il 19 settembre ha tagliato il merito di credito dei titoli di Stato italiani. Mentre dalle nostre parti il tutto è stato ridotto al solito teatrino del referendum pro o contro Berlusconi (col medesimo a vaneggiare di “valutazioni influenzate da considerazioni politiche”), la circostanza è stata prontamente notata a livello internazionale. Il sito internet specializzato in consigli di investimento “Business Insider”, ad esempio, è andato subito al sodo: “S&P ha appena ammesso che i tagli di bilancio rendono più difficile onorare il servizio del debito”. Il fatto è che le cose stanno precisamente in questi termini, come dovrebbe essere chiaro a chiunque esamini la depressione innescata in Grecia dalle manovre “lacrime e sangue” volute da Unione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale, e diligentemente eseguite dal governo del socialista Papandreu.

Questo ci aiuta a inquadrare a che punto siamo della crisi. Se la prima fase della crisi esplosa nel 2007-2008 era stata risolta attraverso salvataggi su larga scala delle banche con enormi iniezioni di denaro pubblico, tra ricapitalizzazioni, acquisto di titoli non negoziabili e garanzie prestate, la conseguenza – inevitabile – è stata il trasferimento dei debiti sui bilanci pubblici. Era quindi prevedibile che la seconda fase della crisi avrebbe investito il debito pubblico. Come scrissi nell’estate del 2009, “la gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a rianimare l’economia, può porre le premesse di un’ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito pubblico; con uno Stato costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo punto il risultato… sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private… Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco” (introd. a K. Marx, Il capitalismo e la crisi, DeriveApprodi, 2009, pp. 49-50).

Quello che stiamo vivendo oggi è per l’appunto il tentativo di risolvere la crisi fiscale dello Stato attraverso la distruzione su larga scala dei sistemi di welfare. Con l’intento di conseguire due risultati: 1) scaricare il costo della crisi su salari indiretti e differiti, riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui. 2) Aprire al capitale (o, come si preferisce dire, al “mercato”) nuovi ambiti di valorizzazione. La proposta di privatizzare le residue partecipazioni statali e gli immobili pubblici, avanzata di recente da Confindustria, significa solo e soltanto questo. Di fatto, si tratta della prosecuzione e radicalizzazione della tendenza a sussumere sotto il capitale l’intero ambito della vita associata. Ma c’è un problema. Questo processo sta innescando nei principali Paesi capitalistici una forte crisi della domanda interna (che, come si è accennato più sopra, in un mercato fortemente integrato come quello europeo). Questa a sua volta può imprimere una forte accelerazione alle insolvenze societarie, e quindi alle sofferenze bancarie, e per questa via dare il colpo di grazia a un sistema finanziario già minacciato dalla prospettiva di dover svalutare i titoli di Stato in portafoglio (proprio così: per ironia della sorte i sistemi bancari salvati con soldi pubblici, e che avevano investito in titoli di Stato per godere di buoni rendimenti ritenuti esenti da rischio, ora vengono colpiti proprio dalla crisi degli Stati che si erano svenati per salvarli). Non a caso mentre scrivo queste righe si sta tentando l’ultimo golpe: la trasformazione del fondo europeo salva-Stati in fondo salva-banche. È l’estremo tentativo, in una situazione in cui gran parte degli Stati europei (e non solo) si trovano sull’orlo dell’abisso finanziario, di socializzare le perdite delle banche private. La strada che l’establishment europeo ha imboccato per uscire dalla crisi non fa che aggravarla, rendendo ancora più ingente la distruzione di capitale necessaria per far ripartire l’accumulazione e riproponendo molto concretamente lo spettro degli anni Trenta.

Se le cose stanno in questi termini, la posta in gioco, per quanto riguarda in particolare l’Italia, è chiara. È necessario attuare un intervento efficace sul debito che sia al tempo stesso un incisivo intervento di redistribuzione della ricchezza (attraverso la lotta all’evasione e una vera patrimoniale – certo non l’1,5 per mille proposto da Confindustria) e che consenta forti investimenti pubblici e un rafforzamento del ruolo dello Stato e della presenza pubblica nell’economia. L’alternativa è il disastro sotto il profilo industriale e il default per quanto riguarda il debito pubblico. Un disastro e un default che saranno pagati in prima persona - su questo è bene non coltivare illusioni – dai lavoratori.

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