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L'Italia tripudia la guerra

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(5 Novembre 2010) Enzo Apicella

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    Falluja come Oradour, Lidice, Kragujevac, Marzabotto, Ghetto di Varsavia

    (9 Aprile 2004)

    Mentre il mondo commemora un genocidio di dieci anni fa, quello del Ruanda, si assiste a un altro massacro a cui non si reagisce con lo sdegno dovuto. Evidentemente è più facile istituire Giorni della memoria e dedicare un minuto di silenzio in memoria delle vittime a distanza di tanti anni, che non intervenire per far cessare un crimine che si svolge in diretta, per di più commesso dal Paese più potente del pianeta con cui molti governanti del mondo si dichiarano solidali.

    Ma d'altronde, quando la barbarie imperversava per l'Europa, la sorte del Ghetto di Varsavia, i settemila studenti e insegnanti sterminati a Kragujevac (Jugoslavia), il massacro di Lidice (Cecoslovacchia), per punire la città che ha reso il mondo un posto migliore eliminando un tal Heydrich, l'esecuzione in una chiesa di Oradour sur Glane (Francia) di 250 tra studenti e insegnanti, oppure la carneficina di Marzabotto, avevano forse suscitato immediatamente rifiuto e sdegno per quello che era stato commesso? Certo che no. Scandalizzarsi, rivoltarsi, solidarizzare, denunciare e commemorare quanto è accaduto, è molto più comodo quando il responsabile del crimine non è più in grado di nuocere. Per questa ragione i crimini continuano ad essere commessi e anche in un'epoca in cui l'informazione permette di avere un quadro immediato di quello che sta succedendo anche dall'altra parte del mondo, si preferisce esporsi il meno possibile.

    Quello che sta accadendo da alcuni giorni a Falluja per mano delle forze americane, non è un'operazione militare, anche se si vuole presentarla come tale, ma è un'operazione terroristica. Quando si prende in ostaggio una città di oltre centocinquantamila abitanti, le si tagliano acqua e luce e si va all'attacco con tutti i mezzi militari disponibili, senza rispetto nemmeno per i luoghi di culto, per piegare alla propria volontà una comunità, si commette un atto terroristico. Nel caso di Falluja possiamo parlare di rappresaglia terroristica, proprio come nel caso di quelle località europee appena ricordate, dove bisognava infliggere una lezione alla popolazione, dopo che quella aveva manifestato ostilità, perché non osasse più opporsi ai disegni del conquistatore.

    Che cosa può interessare al bambino iracheno assassinato da una pallottola di un marine o da un razzo lanciato da un Apache, se la coalizione ha portato la libertà e la democrazia sulle rive del Tigri e dell'Eufrate: a lui ha saputo regalare solo la morte. E che nessuno osi parlare di operazione di pace: non si va in un altro Paese armati a imporre una volontà che non è mai stata legittimata né dalla comunità internazionale, né dal popolo occupato. Come nessuno ha il diritto di nascondersi dietro la scusa che terroristi e assassini usano donne e bambini per ripararsi dietro e sparare sui bravi militari giunti in Iraq per creare un futuro migliore agli iracheni. Il militare, anche se deve rispettare gli ordini, ha una propria coscienza e deve sapere che quello non è il suo Paese e se rischia di scalfire anche un solo civile, ha il dovere di non farlo.

    Nel secondo dopoguerra si è voluto spesso ricordare quei soldati tedeschi i quali, a rischio della propria vita, hanno detto no, quando si trattava di commettere dei crimini. Di recente diversi ufficiali israeliani hanno avuto il coraggio e la rettitudine morale, rifiutando di partecipare alle campagne criminali contro il popolo palestinese. Gli esempi quindi non mancano.

    E' una straordinaria coincidenza che esattamente a un anno dalla caduta di Saddam Hussein, la coalizione della prepotenza si trovi a fronteggiare una popolazione irachena decisamente insoddisfatta, per non usare un altro termine. Una popolazione che sta superando le divisioni religiose, vista la colonna di aiuti inviata alla gente di Falluja dalle moschee sciite e sunnite di Baghdad. Si fa presto a dire che coloro che si sono rivoltati a Baghdad, a Mosul, a Bassora, a Kut, a Najaf, a Falluja, a Ramadi, a Karbala, a Tikrit, a Samarra, a Kirkuk, a Kufa, sono una minoranza di assassini e terroristi con i quali non ci sarà mai nessuna trattativa. Se questa posizione dell'amministrazione americana non dovesse cambiare: gli Stati Uniti sono già a un nuovo Vietnam.

    Alla rabbia dei sunniti, che hanno visto tramontare il loro potere, alla paura dei cristiani, che hanno visto crescere e rendersi aggressiva la militanza islamica, all'ansia dei turcomanni, che vivono nel terrore di diventare sudditi di un'amministrazione curda, si è aggiunta la determinazione degli sciiti di scegliere da soli il futuro e non accettare intromissioni americane. Non ci vuole nulla, perché il diffuso malcontento si sommi.

    Moqtada al Sadr sicuramente non rappresenta la maggioranza degli sciiti iracheni, ma il grande ayatollah Ali al Sistani sì. Quest'ultimo ha chiesto a più riprese elezioni generali il più velocemente possibile e l'amministrazione del Paese da affidare, nel frattempo, alle Nazioni unite. Certamente l'esito del voto gli Usa non lo potranno influenzare e tantomeno esigere garanzie per il futuro, né per se stessi, né per gli "amici". Che gli Stati Uniti facciano fatica ad accettare questo, dopo il prezzo pagato per l'invasione del Paese e senza la certezza che l'Iraq possa diventare una base per Washington e un partner per Tel Aviv, particolare assai importante, è più che comprensibile.

    Ma sarebbe proprio compito degli alleati degli Stati Uniti, europei in testa, a far comprendere alla Casa Bianca che il danno è stato fatto: il calcolo si è rivelato sbagliato, come l'intelligence sulle armi di distruzione di massa o la presenza di al Qaeda, il livello di ostilità dell'opinione pubblica irachena ha raggiunto livelli di guardia, un autentico cortile del terrore è emerso in Medio Oriente in quel Paese che sarebbe stato liberato, destabilizzando ulteriormente la regione, e che per la salvaguardia della stabilità internazionale, la sovranità va restituita subito agli iracheni.

    Roma, aprile 2004

    La redazione di Arabmonitor

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