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(20 Ottobre 2011) Enzo Apicella

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Sugli scontri di piazza del 15 ottobre: violenza, non-violenza, lotta di classe

(19 Ottobre 2011)

clashes

Il 15 ottobre ha rappresentato la prima manifestazione globale (estesa su circa 90 Paesi) contro gli effetti della crisi.

Le manifestazioni si sono caratterizzate ovunque per un carattere pacifista ed interclassista. Due caratteristiche che, in generale, rappresentano i grossi limiti di questo “movimento”. Il pacifismo è per noi un limite non perchè i cortei — in generale le manifestazioni di lotta e protesta — debbano esprimere violenza cieca, ma perchè la “non violenza” è un’ideologia che esclude a priori reali forme di contrapposizione di classe che possono a volte assumere anche forme “violente”, in particolare come reazione alla repressione borghese, così come ovviamente porta ad escludere la stessa azione rivoluzionaria. Interclassismo significa non riconoscere la divisione in classi della società, negare di fatto il meccanismo di funzionamento del capitalismo — basato sulla sfruttamento del proletariato da parte della classe borghese — non riconoscere la centralit&a grave; del proletariato, senza il protagonismo del quale non ci sarà mai una reale conflittualità sociale né tanto meno un processo di trasformazione della società.

Musica, tamburi, meditazioni collettive, festa ecc., oltre alla caratterizzazione non violenta, interclassista ed alle parole d’ordine neoriformiste (non paghiamo il debito, democrazia reale ecc.), ci confermano che il pallino del movimento di indignazione è nelle mani di componenti ideologicamente umaniste-piccolo borghesi; il proletariato è qui presente in maniera frammentata e dispersa, non esprime la propria identità sociale né tanto meno una propria identità politica.

Il fatto che l’opposizione alla crisi si manifesti attraverso accampate di piazza, cortei caratterizzati dall’ideologia non violenta e pacifista, in due parole piccolo borghesi, va di pari passo con la scarsa presenza di lotte nei luoghi di lavoro e nel territorio. Ci si sta muovendo su un terreno ideologico, quando il problema è come contrastare concretamente gli attacchi sferrati dal capitale.

In ogni caso la riuscita — in termini numerici — delle manifestazioni, ed in particolare di quella italiana, è un evidente segnale di come la crisi stia erodendo le condizioni di vita e di lavoro di masse proletarie, e non, sempre più estese. Una rabbia sociale che si è espressa anche a Roma, ma sotto forme che non andranno ad intaccare minimamente il dominio economico e politico della borghesia. Indignati e cosiddetti “anarco-insurrezionalisti” sono state a Roma due diverse valvole di sfogo di questa rabbia, ma nessuna delle due conduce al reale conflitto sociale, che deve esprimersi innanzitutto sul luogo di lavoro. Il conflitto sui posti di lavoro, in generale la contrapposizione padroni-lavoratori, è il reale termometro dello scontro sociale, uno scontro che poi inevitabilmente si riversa anche nelle piazze, nelle strade. Questo è quello che, per esempio, è successo in Grecia, dove il conf litto lavoro-capitale si combatte anche sul posto di lavoro, con scioperi che spesso hanno assunto forme selvagge e incontrollate, dove quindi la “violenza di piazza” ha assunto un significato sociale molto differente da quella portata avanti a Roma. In Italia questo termometro segna ancora una temperatura molto bassa e gli episodi di Roma non sono ancora un’espressione diretta della conflittualità sul posto di lavoro.

Gli episodi di violenza avvenuti a Roma hanno visto la compresenza di fattori distinti, inclusi:

•La sempre possibile presenza di provocazioni, provenienti da ambienti istituzionali o ad essi contigui, quali, per esempio, elementi ultrà neofascisti che potrebbero essersi infiltrati nel corteo per favorire un disegno — gli anni ‘70 e Cossiga insegnano — di disgregazione della manifestazione, fornendo argomenti all’intervento violento delle forze dell’ordine. Queste ultime, non hanno esitato a caricare con le camionette e gli idranti i manifestanti, ma, ancor prima, a spezzare il corteo con gli assalti contro spezzoni dello stesso, attuando così una azione repressiva più violenta e generalizzata verso le realtà organizzate che portavano avanti le azioni di guerriglia e i giovani che a questi si sono affiancati man mano; azione repressiva che è continuata anche il giorno successivo.

•C’era poi la presenza di elementi definiti dalla disinformazione dei media borghesi “anarco-insurrezionalisti”, i quali si caratterizzano per il progetto insurrezionale, per azioni contro i simboli del potere borghese (banche, agenzie di lavoro interinale, forze dell’ordine ecc). Evidentemente questa ideologia vorrebbe rendersi interprete della rabbia e del disagio vissuto in ampi settori di popolazione, in particolare proletaria, incanalandoli verso pratiche estreme (propaganda del fatto e progetto di generalizzazione della rivolta come proposta politica). Ovviamente, manca di una progettualità rivoluzionaria, di una visione classista, nega la centralità del conflitto (lotta di classe) sui luoghi di lavoro e sul territorio attraverso la crescita dell’organizzazione proletaria; per questo, sebbene potrebbero essere generalmente condivisibili i motivi che la muovono, nei fatti la prassi legata a questa ideologia non è una prospettiva praticabile né utile alla classe proletaria.

•Infine, un numero piuttosto esteso di partecipanti al corteo, in larga parte proletari, che hanno reagito spontaneamente e con una giusta carica di rabbia all’arroganza delle forze dell’ordine borghese che caricavano i manifestanti.

Insomma, è un quadro complesso che va letto nella sua complessità, evitando di cadere in uno schematismo tipo bianco o nero.

Con tutta probabilità sempre più i cortei si troveranno a dover affrontare dinamiche simili. La crisi porta tagli ai salari e a ciò che rimane dello “stato sociale”, licenziamenti, precarietà ancor più massiccia, etc. Questo genera una crescente frustrazione tra i settori colpiti, in particolare tra i giovani proletari che non hanno un lavoro e, quando ce l’hanno, sono sottoposti al ricatto della precarietà, che impedisce loro di partecipare anche agli innocui (per la borghesia) scioperi sindacali. I cortei sono una delle espressioni di questa frustrazione. Quello che abbiamo visto a Roma e nel 2001 a Genova è lo schema attraverso il quale la borghesia si preoccupa di gestire situazioni di malcontento potenzialmente esplosive (l’accampata finale di migliaia di persone, se ci fosse stata, avrebbe rappresentato un fattore innovativo e, mettendo in pratica una critica fattiva ai tradiziona li meccanismi di gestione della piazza, dunque di rottura).

L’ideologia dominante si è fondamentalmente divisa in tre letture differenti di quanto accaduto:

1.La destra becera che dice “non ci sono differenze tra i manifestanti, sono tutti criminali, vanno arrestati tutti, ci vogliono leggi speciali”; con poca sorpresa, Di Pietro ha scavalcato a destra queste posizioni, rispolverando la funesta legge Reale.

2.La destra liberale (Draghi), la sinistra liberale e parte della sinistra riformista, le quali affermano che la manifestazione era pacifica e festosa, positiva, i violenti “incappucciati” hanno rovinato la festa (come se ci fosse qualcosa da festeggiare!). Questa visione pone già le basi per la solidarietà tra manifestanti buoni e forze dell’ordine e, quindi, per la preparazione di un consenso di massa alla repressione di domani: se fai la sfilata festosa e pacifica ok la polizia è con te, se esprimi contenuti radicali, metti in atto pratiche non innocue (occupazioni, blocchi, scioperi selvaggi ecc.) esprimendo la tua rabbia sei un cattivo e vai represso.
3.Il radical riformismo istituzionale (editoriale di Valentino Parlato e articolo di Loris Campetti sul manifesto di domenica) che sostiene che in questa situazione socio-economica gli scontri “era inevitabile che ci fossero” e riconduce questa espressione di rabbia al progetto di “un rinnovamento della politica”. Per loro “è una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato” e quindi “ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica”.

In queste visioni è naturalmente assente il punto di vista del proletariato che si può riassumere in tre istanze:

1. la necessità di sviluppare la resistenza agli attacchi del capitale fuori e contro le logiche sindacali a partire dall’autorganizzazione delle lotte nei territori e nei luoghi di lavoro;

2. la necessità che i settori proletari dei cortei siano in grado di garantire una propria autodifesa rispetto alle forze dell’ordine e gli infiltrati, differenziandosi da chi porta avanti un progetto politico alquanto confuso da punto di vista di classe, perciò non condivisibile (seppure comprensibile nelle motivazioni), ma senza scadere nell’errore strategico di confondere la violenza borghese (che si esercita nei cortei, ma in maniera ancora più vasta nella nostra vita quotidiana) con la rabbia di chi sviluppa un progetto politico sbagliato e fallimentare;

3. l’assoluto bisogno di dare forza e sostanza ad una direzione rivoluzionaria che sappia incanalare la più che legittima rabbia sociale nei corretti binari di una coerente lotta anticapitalistica.

Infine, lo Stato di fatto esce dal corteo di Roma abbondantemente vincitore. Non solo ha mostrato una grossa capacità nel pilotare la piazza a proprio piacimento, ma porta a casa risultati di non poco conto. Innanzitutto — ed è una dato da non sottovalutare — in questo modo è fallito il progetto degli indignados di accamparsi a Piazza San Giovanni. Il movimento degli indignados ha enormi limiti, ma almeno — se pur in modo molto confuso — porta avanti una critica a Partiti e Sindacati. Un accampamento di un movimento limitato, ma che vuole essere realmente “apartitico”, che in alcuni casi mette in discussione anche le stesse istituzioni, non avrebbe di certo fatto piacere allo Stato. Basta ricordare quello che è sucesso in Spagna, dove gli indignados — e lì non c’erano i black bloc — sono stati cacciati dalla piazza con violenza.

Battaglia Comunista

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