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(17 Marzo 2011) Enzo Apicella
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Esercito e Patria. Militarismo e repressione nell'Italia post-unitaria.

Giulio Bechi, scrittore e soldato

(22 Ottobre 2011)

“...alle grida strazianti e dolenti/di una folla che pan domandava/il feroce monarchico Bava/gli affamati col piombo sfamò...”
Capitolo I, I Rossi, o della soluzione militare del conflitto di classe “in fieri”.

Poche figure, nel panorama letterario nazionale, possono essere paragonate all'autore delle opere che si vogliono qui recensire, nel rispecchiare mentalità, cultura di riferimento e consapevolezza del proprio ruolo sociale da parte di un “uomo d'ordine” del tardo '800.
Giulio Bechi nasce a Firenze nell' “anno fatale” di Porta Pia, 1870, data fondamentale per un uomo cresciuto nel mito del Risorgimento; a ridosso di quell' “Annus Horribilis” 1871, legato a quella Comune di Parigi, il cui “spettro” agitò i sonni delle borghesie italiana ed europea nei successivi decenni.
“Lo Spettro rosso” (1909 ) spicca, nella vasta produzione letteraria del Bechi, nel rivisitare a distanza di un decennio l'opera di repressione dei “Moti del 1898” da parte dell'esercito, in cui l'autore militò entusiasticamente tanto per alte ragioni ideali, quanto per vecchia tradizione di famiglia.
“Maggio terribile ! Pareva che la penisola fosse tutta cosparsa di polvere di mina e che qua e là il martello furioso di un genio del male facesse sprizzare scintille e divampare incendi. Tutti ne furono sorpresi e sconvolti, governo, polizia, autorità, cittadini: gli stessi capi socialisti rimanevano sbalorditi di queste esplosioni popolari scoppiate senza un concetto direttivo, senza azioni premeditate, come un accesso di convulsione collettiva. Gli scoppi succedevano agli scoppi...”
Analizzando da queste battute il linguaggio adottato dall'”alter ego” narrante ( il romanzo è largamente autobiografico ), emerge la figura del giovane ufficiale patriota inviato a comandare i plotoni ,che di lì a poco avrebbero ammazzato a fucilate 80 cittadini italiani nella sola Milano ( e oltre un secolo di storiografia ha indicato tale cifra ufficiale come largamente approssimata per difetto ).
Ad una prima visione apocalittica, segue la descrizione dell'impreparazione delle classi dirigenti e del ceto politico del Regno nella sua interezza. La conclusione finale, ( né “azioni premeditate”,né “direzione” ), contraddice in modo lucido il Terrore di una Rivoluzione nei borghesi delle città e nelle campagne della Penisola; borghesia che il Nostro difendeva “dagli scoppi” per dovere istituzionale ( nonché nel nome di un patriottismo destinato a degenerare, nelle forze armate come nel Paese, in nazionalismo ), non mancando di schernirne ottusità e mancanza di “senso della Nazione”.
Gran parte del romanzo è ricca di riferimenti ad una epopea risorgimentale, sognata dai giovani tenenti e capitani, ricordata con struggente nostalgia dai vecchi colonnelli ( un lontano cugino dell'Autore, Stanislao Bechi, volontario in Polonia nel 1863, aveva combattuto per l'indipendenza del Paese baltico, e nell'opera in questione è oggetto di un omaggio indiretto ,quanto commosso. ) ; altrove, giovani borghesi nazionalisti ante-litteram, si struggono per l'aderenza del Regno d'Italia alla Triplice Alleanza, favoleggiando ( sdegnati davanti a una plebe in tumulto “per quattro soldi di mercede in più”. “Bravo ! Tutto suo padre...” ) capovolgimenti nello scacchiere diplomatico dell'Europa dell'epoca e assalti all'arma bianca contro gli Austriaci, i nemici storici del Paese (e qui il Bechi sarà pienamente accontentato in pochi anni: morirà sul fronte del Carso nel 1917, Medaglia d'oro al V.M....).
Non mancano riferimenti alla partecipazione alle guerre coloniali ( l'autore fu in Eritrea nel 1887 ), all'”Affrica maliarda”, alle guerre di conquista del “posto al sole” nelle colonie, come antidoto “al sangue ed energie in eccesso” del popolo in rivolta...
Gli agitatori socialisti sono ,in genere, descritti in modo sprezzante ,”avvocati senza studio, giornalisti senza giornale..”, figure patetiche di spostati e piccoli arrivisti falliti e frustrati (eh, si. Qui gli storici ci vengono ancora in soccorso. Fallito ogni tentativo di trovare “menti occulte”in un movimento operaio ai primi passi, in quel lontano 1898 la Reazione si ridusse a scagionare molti “capi sovversivi” ,ed utilizzare l'arma spuntata della facile denigrazione...) ; a bilanciare tali impietose descrizioni- un romanzo è pur sempre opera d'arte, quindi creazione estetica-la simmetrica figura del “bravo socialista che sbaglia in buona fede”, vero “apostolo” di un Verbo falso: uno dei giovani ufficiali ne spia un comizio, ammirandone ardore ed integrità morale “Ah, se tali qualità fossero volte all'Amor di Patria..”

Borghesi pavidi o intrepidi, comunque protagonisti della scena; colleghi ufficiali, ognuno reso con dignità e spessore di personaggio, ben caratterizzato nella sua psicologia; antenati combattenti eroici e senza macchia.
E' il popolo, il grande assente nelle opere del nostro Giulio. Tutto si fa in suo onore e per la sua salvezza ( incluso fucilarlo a freddo nelle piazze ). Ma resta relegato sullo sfondo, eterna comparsa, e guai se volesse irrompere sulla scena (“Carabinieri. Fuoco ! (…) Un vecchio stramazza dinanzi alle guardie : i compagni lo raccolgono vomitando insulti contro la Forza, levando il morto in vista della folla”). La folla è ,di per sé, schiava di bisogni, turba cieca in preda ora alla furia distruttiva, ora tremante di fronte al paventato ( e meritato ) castigo. Le strade ribollenti di urla e di bandiere rosse ( “color del sudicio” ), così come, in altre opere di cui ci occuperemo, monti e paesi della Sardegna e lande assolate di un'”Affrica” esotica e improbabile, sono scenari da cartolina illustrata, popolati da una fauna di esseri simili ad industriose o fastidiose formiche, in attesa della mano civilizzatrice dell'Ordine. E tra le fila del proletariato italico, nemmeno i giovani soldati fanno una figura migliore : arringati a dovere dal proprio tenente prima di entrare in azione
(“Ma il nostro dovere è difendere la Patria anche dai nemici interni. Ebbene se, per sventura, dovreste far uso delle armi, sparate dritto ! (…) chi, sotto la morsa del Dovere, col cuore spezzato, fa fuoco sopra il fratello, quello è un eroe !”) rispondono levando alte grida di entusiasmo guerresco, suscitando nell'ufficiale la considerazione disgustata che quella piccola folla di giovani poveri, avrebbe potuto bene trovarsi dalla parte degli “esagitati”, “là fuori”.

Soldato, patriota, moralista, il Bechi non nasconde, in alcune delle pagine più interessanti dello “Lo Spettro”, il disagio profondo di un esteta della guerra sognata, e del ruolo pedagogico dell'esercito ,”scuola di vita” per il Nuovo Italiano:
“Non vedi che non ci vuole né Dio, né il diavolo ? -fa dire ad uno scorato tenente in una pausa delle spedizioni repressive- Non vedi che i sovversivi ci trattan di succhioni a tutto pasto, i benpensanti si infischiano di noi e il Governo..quello si ricorda di noi per grattare qualche altra economia, o ci fa fare da poliziotti, da fornai, da mietitori, da spazzini...”, dove il militare allude tanto al ruolo poliziesco assunto dall'esercito, quanto alla consuetudine di sostituire in massa i lavoratori in sciopero con i giovani coscritti. La delusione attraversa buona parte del corpo Ufficiali che circonda l'io narrante ,persino nella descrizione caricaturale dei processi ai sovversivi:
“Il Tribunale di Guerra-Prima Sezione inaugurò le sedute in una gran sala scialba del collegio militare. Al banco, parato di verde, un colonnello dei bersaglieri con un medagliere sul petto, fiancheggiato da un tenente colonnello di cavalleria con i baffi alla moschettiera e la lente ficcata nell'orbita, e da un maggiore d'artiglieria dall'aria di curato, paffuto e grave. Sul davanti, due tavolini neri per gli ufficiali difensori: tra i difensori e i giudici, un lungo banco dove cinque o sei giornalisti preparavano le loro cartelle: a destra e a sinistra, nei recinti di legno, si pigiavano i rivoltosi: due gruppi di miserabili straccioni e di contadini pallidi e disfatti, rei, i più, di aver gridato”viva la Rivoluzione” e di aver fracassato qualche vetro...”

Nel finale il protagonista si trova a riscattare nelle immagini dei propri sogni un presente così poco glorioso: immagini di eroi caduti “col nome d'Italia sul cuore”, ”che mi tendevano la mano”, per condurre, aggiungeremo riconoscendo alle visioni del soldato-romanziere un valore profetico, il protagonista e l'Italia verso un fulgido avvenire, ricco di promesse di imprese belliche.

Leonardo Donghi

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