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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Per la critica del 15 ottobre

(26 Ottobre 2011)

15 ottobre 2011: giorno atteso, da molti, tra chi esprime idee di cambiamento concreto e profondo della realtà. Tuttavia, al di là dei proclami di rito, per pochi, pochissimi ha corrisposto alle aspettative. Questi issavano di fronte a loro un’espressione chiara nella sua formulazione, ma problematica per chi a manifestare a Roma contro ciò che passa sotto il nome di ‘crisi’ c’era giunto con aspettative diverse, e molto, anche, rispetto a quanto nella realtà s’è concretizzato. La frase scolpita sullo striscione da chi s’era dato l’obbiettivo dello scontro con le forze armate dello stato recitava: ‘Ci avete rubato il futuro. Ci prendiamo il presente.’. Era una sfida, evidentemente, non solo, e forse non tanto, rivolta a chi, in forme e con responsabilità gravi gestisce il potere prima ancora che i governi nazionali e locali, ma lanciata, provocatoriamente, proprio all’enorme maggioranza di persone ed organizzazioni che il 15 ottobre stavano esprimendo le loro idee sulla realtà presente senza saper offrire a se stessi, e neppure a chi denunciava la cancellazione di un futuro, un percorso politico credibile, o accettabile, nella situazione concreta in cui viviamo.

Facciamo un passo indietro allora. Circa due mesi fa, di fronte all’ulteriore inasprimento delle scelte antisociali di chi guida il sistema finanziario e liberista reale, viene avviato il percorso contro quanto lo stato, oggi governato dalla parte più inguardabile della rappresentazione politica dei poteri economici globali italiani, europei e mondiali, impone ai lavoratori -sotto qualsiasi forma oggi si presentino-, alle genti umili -a cominciare dai migranti-, alle attività sociali -prima fra tutte la scuola- e a tutte le realtà da cui ceti e soggetti riproduttori del sistema liberista strappano lacrime e sangue -veri, non metaforici- per arricchirsi e per dominare. Ciò che lo stato sta agendo sulla pelle di gran parte delle persone e dei popoli si definisce in modo preciso: riduzione reale dei salari, cancellazione dei diritti dei lavoratori, spostamento delle risorse finanziarie dai bisogni sociali alle rendite finanziarie, distruzione di qualsiasi spazio atto alla partecipazione reale nelle scelte economiche e sociali, creazione di uno stato di guerra permanente. Contro tutto ciò -almeno così pareva-, riassunto dai più nell’infelice espressione di ‘crisi’, nei giorni d’agosto s’alzava la voce plurale -anche questo sembrava di percepire- che esortava tutti alla sollevazione.

Ciò che è accaduto da allora fino al giorno dello svolgimento della manifestazione, che a parole tutti, o quasi, volevano diventasse un inizio, ha mostrato l’inconsistenza del corpo sociale e politico che si è dato appuntamento in Piazza San Giovanni il 15 ottobre, nonché la fumosità e l’inadeguatezza di una larghissima parte degli intenti politici di una quota significativa delle persone lì convenute, con rabbia, certo, ma disastrosamente non orientata né opportunamente organizzata. Leggendo i resoconti dei molti incontri effettuati durante i quasi sessanta giorni trascorsi nell’avvicinamento al momento che doveva rappresentare la levata orgogliosa e permanente della volontà di rivolta e di cambiamento concreto della realtà sociale e politica italiana si è capito che non si è discusso di nulla, infatti, se non del tragitto da percorrere, nascondendosi dietro al dito ipocrita e pseudodemocratico del fatto che in tal modo tutti avrebbero potuto prendere parte a questa protesta di primo autunno in quanto ‘indignati’ per le scelte compiute in nome della ‘salvazione’ dell’Italia dalla ‘crisi’ e dall’implosione economica.

Così a Roma la voce di questo corpo sociale senza testa politica parlava un grammelot confuso e solo apparentemente onnicomprensivo, dato che nella vaghezza nebulosa delle idee presenti -o presunte tali- tutti erano sottoposti ad un'energia politica centrifuga che, malgrado l’oggettiva vicinanza fisica delle centinaia di migliaia di persone giunte a Roma, allontanava e non faceva incontrare nessuno se non all’interno del gruppo di persone dell’associazione, del collettivo o dell’organizzazione a cui ciascuno si era aggregato all’arrivo in Piazza della Repubblica. Mancava, in modo evidente, sin da prima del 15 ottobre un obbiettivo forte, condiviso da ciascuna delle individualità che si erano date appuntamento a Roma. C’era chi esprimeva la sua convinta contrarietà al governo -ma si fermava là- e chi sosteneva a gran voce che il ‘debito’ del capitale finanziario va azzerato insieme a quello stesso capitale; c’era chi rivendicava un governo di ‘centro-sinistra’ e chi sosteneva la necessità di spazzare via tutti i cialtroni rappresentativi della realtà economica liberista al di là della collocazione partitica di cui ciascuno dei miserabili di palazzo si fregiano; c’era chi si ‘indignava’ per la sconfortante condizione materiale in cui quotidianamente è costretto a vivere -senza però riconoscere cosa (e forse neppure chi) stia producendo una realtà tanto difficile da sopportare- e chi si diceva convinto della necessità di dare finalmente avvio ad una sollevazione popolare; e c’era chi con rabbia priva di razionalità s’aggirava tra tutti con la precisa volontà di distruggere nel presente qualcuno dei simboli -o apparentemente tali- di chi e di ciò che li ha rapinati del futuro -percezione espressa con parole che, però, denunciavano in chi le aveva tracciate una totale mancanza di prospettiva, umana prima ancora che sociale e politica-. Ma non c’era, lungo le vie monumentali di Roma, uno straccio di obbiettivo unificante di tutto quanto si stava muovendo. E non poteva esserci, visto che, malgrado si sia proclamato che la discussione sulle vie della capitale da attraversare sia stato intrinsecamente di significativo spessore politico, dai resoconti di quella stessa discussione agosto-settembrina risultava chiaramente che si era scansata con cura la fatica del confronto e del dibattito, dell’evidenziazione delle idee che ciascuno aveva su cosa dovesse diventare politicamente il 15 ottobre per individuare tra esse -laddove ci fosse stata- quella che, poiché condivisa, avrebbe trasformato centinaia di migliaia di individualità, sì e no accostate l’una all’altra solo grazie alla numerosità che anche le amplissime vie della capitale facevano fatica a contenere, in un’unica grande forza mossa dalla volontà politica di ottenere un obbiettivo unico veramente condiviso.

Così facendo, però, ci si è irresponsabilmente dimenticati che un corpo sociale e politico senza testa rischia di agitarsi in modo scomposto e che, non avendo un oggetto chiaro verso cui dirigere tutta la propria energia e ogni sua componente, le parti propense ad agire, non avendo alcunché di chiaro verso cui agire, lo fanno, spesso, danneggiando prima di tutto l’insieme entro cui si muovono -ed il 15 ottobre, al di là di proclami, condanne, prese di distanza e distinguo, ne è stato un’esemplificazione manifesta-.

Perché si è scelta questa strada, allora? Perché non si è voluto un dibattito stringente sulle idee da avanzare con forza e sugli obbiettivi che tutti con certezza sarebbero stati disposti a cercar di raggiungere con la convocazione della manifestazione di metà ottobre? Si temeva, forse, che nel chiarimento via via sempre più trasparente del punto di vista di ciascuno si sarebbero osservate separazioni, allontanamenti, differenziazioni e contraddizioni tali da poter ridurre il tasso di partecipazione alla manifestazione? O di veder indire, una dopo l’altra, in momenti e luoghi diversi, una serie di manifestazioni tematiche sostanzialmente sconnesse l’una dall’altra? O, addirittura, veder scivolare sine die l’indizione e lo svolgimento della manifestazione? Beh, a mente fredda, e con onestà intellettuale, ciò che ha preso corpo è forse stato meglio di quanto si sarebbe potuto ottenere un po’ più in là nel tempo, magari meno numerosi, ma politicamente più uniti e, soprattutto, con un obbiettivo certo e condiviso da tutti, indistintamente, coloro che avessero voluto prendervi parte nella chiarezza e con chiarezza di posizioni e di visioni sociali e politiche? Di fatto, lungo la via politica scelta non si è ottenuto assolutamente nulla, e ciò malgrado la generosa presenza umana e sociale, dato che quella stessa presenza mancava di un orizzonte politico.

A guardare quel fiume montante di persone dal minuto spazio occupato al suo interno dalle associazioni di solidarietà con il popolo palestinese c’era da domandarsi dove fossero tutti i convenuti a Roma in questi ultimi dodici mesi ogniqualvolta si era offerto uno spazio per dar corso ad un processo non solo di sostituzione di chi è ora al governo, ma anche di contrasto concreto allo stato di cose presente e, se possibile, di avvio convinto e razionale di una sua profonda trasformazione. Non si percepiva, infatti, in quella folla l’aspirazione all’azione da praticare unitariamente con uno scopo politico preciso, riconoscibile, sostenuto a gran voce da tutti. Eppure c’era -e c’è ancora- l’oggetto attorno a cui dovrebbero chiamarsi a raccolta l’un l’altro lavoratori, classi e genti sfruttate dal sistema liberista e finanziario dominante per discuterne la natura, i suoi effetti sulle condizioni materiali ed umane di quegli stessi lavoratori, classi e genti, i modi per affrontarne la realtà e per contrastarla, se possibile distruggerla. Ma su quell’oggetto non c’è volontà di chiarezza, e tanto meno c’è stata nel momento della convocazione, dell’organizzazione e dello svolgimento della manifestazione romana del 15 ottobre. ‘Popoli d’Europa sollevatevi’ recitava lo striscione di testa. Ma contro e per cosa non si diceva, cosicché ognuno dei partecipanti ha declinato quelle parole secondo la propria specificità che, anche laddove fosse stata radicalissima e rivoluzionaria, si è persa. Nel manifesto d’indizione dell’azione del 15 ottobre si leggeva il proclama ‘Vogliamo un’altra economia, un’altra società e una democrazia vera’. Ma in quel proclama che non qualifica in nessun modo il tipo di economia auspicata, il modello di società desiderata e la forma di democrazia inseguita ciascuno ha potuto leggerci il proprio modello politico, compreso chi si accontenterebbe di un cambio di cavaliere al governo, fatto che da tempo ci viene presentato come ‘altra (scelta) di economia’, ‘altra (dignitosa) società, ‘democrazia (matura) vera’.

A vederla dall’interno, la manifestazione ha rispecchiato fino in fondo le contraddizioni che l’appello di convocazione racchiudeva in sé, tanto che le centinaia di migliaia di persone presenti a Roma il pomeriggio del 15 ottobre si sono ritrovate lì per un moto emozionale e non per razionalità politica, mentre chi si era riunito in discussioni mirate solo a definire un percorso stradale, non solo non s’era minimamente preoccupato di ridurre quelle contraddizioni, ma neppure s’era poi premurato di creare un sistema di comunicazione tra i vari spezzoni del corteo, affinché provasse a realizzare un obbiettivo comune mentre era in marcia, né di dare un senso compiuto su che fare una volta raggiunta la piazza conclusiva

In un vuoto propositivo così gigantesco il numero sicuramente esiguo di persone che hanno deciso di interpretare il 15 ottobre come il momento di ‘prendersi il presente’ come risarcimento di un ‘futuro rubato’ ha riempito del proprio vuoto gli spazi che tutti gli altri pensavano di attraversare senza sapere poi cosa farne. Il nulla politrico di quei pochi, benché numericamente insignificanti -in Piazza San Giovanni, nel momento in cui anche gli ultimi pezzi del comitato organizzativo hanno deciso di ripiegare verso il Circo Massimo, gli autopromossi sul campo quali ‘combattenti’ contro polizia e carabinieri non erano più di un migliaio-, quel vuoto devastatore di pseudosimboli di ... di cosa ce lo devono spiegare i sedicenti resistenti che la devastazione hanno prodotto, quel vuoto politico ed umano è comunque diventato più concreto dell’assenza di idee e di capacità organizzativa di quelli che, dopo aver chiamato tutti a raccolta per settimane per esprimere la loro ‘indignazione’ a Piazza San Giovanni, quella piazza hanno abbandonato in fretta e furia molto prima che fosse lasciata in balia degli inutili devastatori che hanno attraversato dall’inizio alla fine la manifestazione e i violentissimi difensori di un sistema altrettanto devastante che moltissimi non sanno -o non vogliono, atteggiamento assai peggiore- più indicare come il vero nemico contro cui lavoratori, classi e genti sfruttati dovrebbero sollevarsi.

L’entrata a Piazza San Giovanni molti, a parole, dicevano che doveva rappresentare un inizio. ‘Sarà una tappa della ripresa di spazio pubblico di mobilitazione permanente’ affermava perentorio il manifesto di convocazione della manifestazione del 15 ottobre Ed effettivamente c’erano ragioni sociali e politiche potenti perché ciò si concretizzasse. Ma l’ignavia politica di gran parte degli organizzatori di quella giornata e il nichilismo prepolitico di chi si era arrogato il diritto di trasformare il 15 ottobre in un giorno di sfogo personale completamente avulso da finalità sociali e politiche razionalmente ed umanamente riconoscibili hanno impedito che quella piazza divenisse lo spazio di denuncia del sistema che sta polverizzando persone e popoli e di concreta sollevazione e ribellione contro quello stesso sistema, che è capitalistico prima di tutto, e perciò liberista e proteso al dominio assoluto dell’attività finanziaria delle banche sugli stati che le proteggono anche a costo del loro dissolvimento. In quella piazza si doveva entrare e restare per dare forza ed energia non ad una richiesta di nuovo governo -la Grecia sta lì ad insegnarcelo, visto che il sinistro Papandreu sta facendo più e peggio contro il suo popolo di quanto un qualsiasi maldestro di quel paese avrebbe saputo, o potuto, o dovuto fare-, ma ad una concreta sollevazione contro i signori del sistema capitalistico che per alimentare se stessi ed i propri interessi hanno messo in atto un processo di impoverimento delle persone e dei popoli che per primo chi vi si vuole opporre deve smettere di chiamare ‘crisi’.

Tutto questo è mancato il 15 ottobre, e probabilmente non solo in Italia, dove però il ruolo di primi attori strappato da chi, pur nel vuoto devastatore che rappresenta, ha messo a nudo il problema politico vero che organizzatori e partecipanti alla manifestazione di metà ottobre si sono nascosti prima del e durante il corteo, e cioè quale sia l’obbiettivo che si vuole veramente perseguire. Su questo è necessario confrontare le idee e proporre percorsi che, se il governo e i suoi falsi oppositori non spianeranno con scelte paragonabili alle zanne di un lupo attorno alla gola di chi già riesce a malapena a respirare, non sarà semplice rendere praticabili dopo la disfatta politica del 15 ottobre.

Brunello Fogagnoli

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