">
IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
La pagina originale è all'indirizzo: http://www.pane-rose.it/index.php?c3:o30373
(27 Ottobre 2011)
anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa
Il fatto veramente importante accaduto sabato 15 ottobre a Roma è stata la grande partecipazione alla manifestazione degli “indignati”. Le provocazioni e le violenze mostrate in televisione in tutte le salse non devono farcelo dimenticare.
Naturalmente, c’è chi si è buttato a corpo morto su quelle scene. C’è chi spera di sfruttare lo sdegno e lo sconcerto suscitato dalle violenze e dai vandalismi per screditare ogni tipo di opposizione sociale. Niente di tutto questo è nuovo.
Ma l’opposizione sociale, che in questi mesi si è espressa in molti paesi del mondo, e ultimamente proprio nei paesi ricchi, sia pure in forme diverse e spesso confuse, è figlia della crisi. Non c’è nessun piano e nessun complotto segreto che possa muovere centinaia di migliaia di persone a Roma come a Londra, Madrid, New York. Certo, in mezzo ai manifestanti ci sono militanti della sinistra e anche dell’estrema sinistra. Ma ci sono anche, in numero spesso rilevante, le “persone della porta accanto”, cioè gente che non si è mai occupata attivamente di politica e che ora si riconosce nella protesta: giovani e non giovani, disoccupati, immigrati, precari, operai che vedono in pericolo il proprio posto di lavoro.
Non si contano le indagini sociologiche che mostrano come lo spettro della disoccupazione e della precarietà riguardi tutti i settori del lavoro dipendente e una parte dello stesso lavoro autonomo. L’estensione straordinaria del lavoro nero nell’edilizia e nell’agricoltura e la quasi totale precarietà dei giovani, operai, impiegati, ricercatori, ingegneri, tecnici, ci dicono che il capitalismo, come sistema economico e sociale chiude le porte del futuro alla maggioranza della popolazione.
Il giornalismo segue le regole non scritte della politica-spettacolo: domenica 16 ottobre le foto dell’autoblindo dei carabinieri dato alle fiamme grandeggiavano in prima pagina.
Il giorno dopo, con un risalto di gran lunga inferiore, venivano diffusi i dati allarmanti della Caritas sulla povertà in Italia. I poveri sono sempre di più: siamo arrivati a 8,3 milioni. Un quinto di quanti si rivolgono ai centri di ascolto della Caritas hanno meno di 35 anni. In quattro anni le domande di sussidi economici sono aumentate dell’80%! Una violenza sociale su larga scala.
Il capitalismo si dimostra sempre più incapace di soddisfare le necessità di una vita civile. Eppure il mondo dispone oggi, in una misura mai conosciuta nelle epoche passate, di uno “stock” di laboratori, di apparati produttivi, di centri di analisi e di studio, di competenze tecniche e scientifiche, oltre che di una grande quantità di persone già istruite per mettere a rendimento nel migliore dei modi queste risorse a beneficio della collettività.
La differenza fra capitalismo della produzione e capitalismo della speculazione finanziaria è puramente teorica. Nella realtà ogni grande gruppo industriale ha intrecci azionari con le banche e ogni banca è invischiata nel gioco della speculazione finanziaria. Non c’è un capitalismo “sano” da salvare.
Oggi, e ancor di più domani, rischiamo di finire nell’abisso della miseria per stare dentro alle regole della compatibilità economica, per non turbare i mercati, per risanare un debito pubblico che certamente non hanno creato i giovani e la classe lavoratrice. I vari pupazzi incravattati che occupano la scena dei dibattiti televisivi continueranno a dire che “non ce lo possiamo permettere” perché “abbiamo vissuto sopra alle nostre possibilità”. Loro, intanto, continueranno a permettersi tutto e a vivere al riparo di qualsiasi sventura economica. E sopra di loro - come testimoniano i resoconti entusiastici sulle vendite dei beni di lusso - la classe dei grandi borghesi non rinuncia a niente dei suoi privilegi.
Bisogna rivendicare il diritto a vivere per tutti, perché sotto a un determinato livello di reddito e sotto un limite di servizi sociali garantiti non si può parlare di civiltà.
Questa lotta deve trovare nei luoghi di lavoro le gambe che la facciano marciare e nello sciopero la sua arma principale!
ottobre 2011
L’Internazionale - Inchiesta Operaia
10118