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Bufera politica nei caraibi: il dramma di Haiti

di Gianfranco Coggi

(18 Aprile 2004)

Gli avvenimenti recenti

Nell’intero corso della sua storia come nazione, Haiti si è sempre trovata nell’occhio del ciclone. Pur essendo stata la prima repubblica nera e la seconda colonia dell’intero continente americano (dopo gli Stati Uniti) a ottenere l’indipendenza, nel corso della sua travagliata esistenza non ha quasi conosciuto la democrazia: dei suoi 42 presidenti, 29 sono stati assassinati e solo 2 (Aristide e il suo vice Preval) eletti legalmente. Haiti nel corso della sua storia ha subito il dominio e il controllo di quasi tutti gli Stati imperialisti (la Spagna, la Francia, l’Inghilterra e, oggi, gli Stati Uniti) ed è uno dei paesi più poveri del mondo (1).

Negli ultimi anni Haiti ha sofferto di una inflazione galoppante e di una crisi economica durissima, che ha spinto migliaia di persone a tentativi disperati di raggiungere le coste della Florida con imbarcazioni di fortuna. Come negli altri paesi dell’America Latina, anche qui sono stati i piani del Fondo Monetario Internazionale e le politiche neoliberiste imposte dagli USA con i trattati bilaterali di libero scambio, a provocare la sollevazione popolare. Il crescente malcontento per la situazione economica e la mancanza di libertà politiche hanno prodotto nei mesi scorsi una situazione di forte instabilità, sfociata nelle dimissioni del presidente Jean Bertrand Aristide.

Dagli inizi dello scorso dicembre gli scontri tra oppositori di Aristide e suoi sostenitori hanno sconvolto il paese. Tutto è cominciato con una manifestazione studentesca repressa in modo violento dagli organi di polizia. Non è chiaro se si è trattato di un’operazione di repressione del movimento ordinata da Aristide oppure di un incidente provocato ad arte dai suoi oppositori. Sta di fatto che per tutto il mese si sono susseguiti manifestazioni, scioperi, scontri durissimi, con decine, forse centinaia, di morti e feriti, ed alcuni ministri si sono dimessi per protesta (2).

La situazione ha avuto una svolta significativa agli inizi di gennaio, quando a Gonaives, la seconda città del paese con 200.000 abitanti, si è costituito il Fronte per la Liberazione e la Ricostruzione Nazionale (FLRN), un raggruppamento di bande paramilitari che, così come tutte le forze politiche di opposizione, chiedeva le dimissioni immediate di Aristide. Ai primi di febbraio dalla vicina Repubblica Dominicana hanno fatto il loro ingresso ad Haiti altre bande paramilitari, che hanno alimentato la rivolta particolarmente nelle regioni del nord e che in appena tre settimane sono riuscite a conquistare le principali città del paese.

Dopo un vano tentativo di mediazione da parte della Comunità dei paesi caraibici (CARICOM), il 29 febbraio il presidente Aristide, con i ribelli ormai alle porte di Port-au-Prince, la capitale del paese, ha rassegnato le proprie dimissioni per evitare il bagno di sangue, come lui stesso ha dichiarato, lasciando il paese in una situazione molto confusa. Il giorno successivo, 1° di marzo, i marines statunitensi sbarcavano ad Haiti, attualmente presidiata da una forza militare internazionale composta da 2.300 uomini, provenienti da Stati Uniti, Francia, Canadà e Cile.

Dal suo esilio nella Repubblica Centro-Africana Aristide alcuni giorni dopo ha denunciato apertamente il governo degli Stati Uniti di avere orchestrato la sua caduta. Secondo la versione da lui fornita le truppe americane lo avrebbero sequestrato costringendolo a dare le dimissioni e a lasciare il paese.

Le dichiarazioni di Aristide sono state riprese da diversi esponenti di rilievo del Partito Democratico negli Stati Uniti, ed hanno dato luogo ad una “guerra delle versioni”, tra coloro che accusano Bush di avere organizzato una sorta di golpe e il Dipartimento di Stato, che ha smentito. I sospetti si basano sulle relazioni di lunga data tra la cosidetta “opposizione democratica non violenta” e i “ribelli” armati (ex ufficiali del disciolto esercito haitiano e degli squadroni della morte dei tempi della dittatura di Duvalier) con membri del governo Bush. La denuncia è arrivata nientemeno che dall’ex ministro della giustizia USA, Ramsey Clark, durante una conferenza stampa tenuta ai primi di marzo a Washington (3).

Altri ancora sostengono che l’amministrazione Bush aveva pianificato la caduta di Aristide già da parecchio tempo. Aristide si era sempre opposto alla politica di privatizzazioni “spinte” richieste dall’amministrazione americana e per questo aveva subito il ricatto economico del Fondo Monetario Internazionale, che aveva bloccato il prestito di 500 milioni di dollari già stanziati per il paese caraibico. Inoltre, a destare non poche preoccupazioni nell’amministrazione Bush, sarebbero state le partnership commerciali strette da Aristide con Taiwan e recentemente con l’India. Grazie agli accordi con questi due paesi asiatici, Aristide avrebbe potuto aggirare il ricatto economico del FMI e realizzare importanti infrastrutture ad Haiti (4).

Secondo questa versione, dopo i risultati fallimentari delle invasioni in Afghanistan e in Iraq e lo smacco della mancanza delle armi di distruzioni di massa, Bush non avrebbe potuto permettersi un altro fallimento soprattutto in prossimità delle elezioni presidenziali. Sarebbe stato quindi organizzato un “golpe bianco”, che prevedeva la penetrazione ad Haiti di gruppi paramilitari professionisti e lo svolgimento di una massiccia campagna di controinformazione nei confronti di Aristide per delegittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica internazionale (5).

Una situazione confusa, quindi, quella che sta vivendo oggi Haiti: l’unica certezza indiscutibile è che non possiamo considerarci adeguatamente informati, solo e semplicemente per avere letto o ascoltato le notizie dei cosiddetti grandi mezzi di informazione.

Avvenimenti complessi come quelli che si stanno sviluppando ad Haiti richiedono, per potere essere compresi, la conoscenza di alcuni elementi chiave: innanzitutto, la storia di questo paese, che costituisce un paradigma significativo per l’analisi del colonialismo e dell’ imperialismo nei Carabi e più in generale in America Latina; in secondo luogo, la situazione economica di arretratezza e di profonda miseria, con livelli economici e sociali simili a quelli di alcune nazioni africane; infine, l’altro elemento fondamentale per comprendere gli avvenimenti attuali, è costituito dal rapporto con il vicino colosso USA: gli Stati Uniti hanno sempre considerato Haiti, così come l’insieme dei paesi della regione centroamericana e dei Caraibi, come la parte più vicina del proprio “cortile di casa”, col conseguente diritto di instaurare e rovesciare governi quando lo ritengono necessario.

Una lunga storia di saccheggi e di lotte

La storia moderna di Haiti coincide con quella del colonialismo e dell’imperialismo: la miseria e la disperazione in cui oggi è costretta a vivere la stragrande maggioranza della popolazione haitiana sono il risultato del brutale saccheggio coloniale che questo paese ha subito nel corso della sua storia.

La storia moderna di Haiti inizia contemporaneamente a quella dell’intero continente americano, quando nel 1492 Cristoforo Colombo scopre l’isola di Hispaniola, l’odierna Santo Domingo. Dopo la conquista di Colombo, tutta quanta l’isola venne occupata per parecchio tempo dagli spagnoli, che sottomisero le indifese tribù degli indios. In meno di mezzo secolo la maggioranza dei suoi abitanti originari, più di 300.000 indios taìnos, vengono sterminati e decimati dalla schiavitù nelle miniere d’oro e dalle malattie.

A partire dagli inizi del secolo XVI viene introdotta sull’isola la coltivazione della canna da zucchero, mentre le navi dei mercanti di schiavi sbarcano continuamente i loro schiavi africani.

Verso la metà del secolo XVII i mari delle Antille erano solcati da velieri di pirati, di origine francese, che di tanto in tanto, per ristorarsi dalle continue scorrerie, si trasferivano nella pacifica vita agreste della vicina Haiti, di cui a poco a poco occuparono tutta la parte occidentale. Nel 1697 la Spagna accetta la sovranità francese su quella parte dell’isola, che, più di un secolo dopo, si chiamerà Haiti.

Grazie alla coltivazione dello zucchero Haiti diventa una delle colonie più ricche del mondo. La sua ricchezza si basava sullo sfruttamento di 500.000 schiavi di origine africana, che lavoravano dall’alba al tramonto in condizioni disumane. All’epoca in cui scoppia la Rivoluzione francese gli schiavi erano dieci volte più numerosi dei bianchi e dei liberti, principalmente mulatti o negri, che riuscivano a ottenere o a comprare la loro libertà.

Subito dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, i nuovi ideali di libertà e di indipendenza trovarono nell’isola un ambiente favorevole: nella colonia vi fu una rivolta degli schiavi di enormi proporzioni, alla testa della quale si mise Toussaint de Louverture, lo Spartaco Negro. Fu la prima rivoluzione latinoamericana trionfante, ma anche l’unica rivolta di schiavi nella storia che riuscì vittoriosa. Gli schiavi di Haiti proclamarono l’indipendenza del loro paese il 1° di gennaio del 1804.

Dopo intricate vicende, l’intera isola nel 1844 venne definitivamente suddivisa nelle due repubbliche indipendenti di Haiti, a occidente, e di Santo Domingo, ad oriente.

Ma ormai l’economia haitiana era in decadenza. Le piantagioni devastate erano rimaste incolte e risorse l’antagonismo tra la maggioranza nera e la minoranza mulatta. Nel 1838 la Francia riconosce l’indipendenza di Haiti, ma subordinatamente al pagamento di una somma di 90 milioni di franchi oro, a titolo di indennizzo per i danni subiti dai coloni nel periodo delle lotte per l’indipendenza. Haiti pagherà a rate fino al 1883 questo enorme indennizzo. Nel 2003 Aristide promuove una campagna per esigere dal governo francese il rimborso di quel “debito di indipendenza”, il cui valore capitalizzato e attualizzato ammonta a 21.685 milioni di dollari. Naturalmente la Francia non ha accettato di pagare quella somma.

Dopo il 1870 la vita politica haitiana si riassume nelle lotte e faide tra i due grandi partiti nazionale e liberale: i due partiti avevano pressoché le stesse idee e in realtà rappresentavano unicamente due gruppi oligarchici in lotta, espressione di una nuova élite, per lo più appartenente alla nuova borghesia/oligarchia urbana, soprattutto mulatta, che si arricchiva col commercio del caffè, e contrapposta alle masse rurali negre, che vivevano in condizioni di estrema povertà. La forte crescita demografica aveva infatti comportato la divisione della terra in particelle sempre più piccole, mentre la mancanza di capitali e la crisi dei commerci internazionali avevano contribuito alla sostituzione della florida economia di piantagione del passato con un’agricoltura di mera sussistenza. Tensioni e conflitti sociali continuarono pertanto a caratterizzare la vita della “Repubblica nera”, mentre le sue grandi difficoltà economiche e l’aumento dell’indebitamento con l’estero consentirono una crescente ingerenza nelle sue vicende interne di alcune potenze straniere e, in particolare, degli Stati Uniti (6).

Il secolo XX vede l’affermazione degli Stati Uniti come potenza coloniale dominante ad Haiti e nella intera zona dei Caraibi, ma non cambia la realtà di saccheggi e di miseria. Si fa luce la dottrina del “cortile di casa”, in base alla quale la borghesia americana ritiene che i paesi dell’America centrale e dei Carabi sono di sua proprietà. Inizia così una serie di invasioni e occupazioni militari in diversi paesi della regione, in Guatemala, Nicaragua, Panama, Repubblica Dominicana e nella stessa Haiti.

Quella che fu la prima repubblica nera del mondo, vivrà così la propria storia a partire dagli inizi del secolo XX sotto l’egida del colonialismo americano, che l’ha anche occupata militarmente nel periodo dal 1915 al 1934.

La situazione economica di Haiti

Haiti è uno di paesi più poveri del continente americano e tra i più poveri del mondo, sicuramente il più povero dell’emisfero occidentale.

Haiti ha una popolazione di circa 8 milioni di persone: il 95% sono neri, il restante 5% mulatti o bianchi. Una ristretta minoranza del 4% possiede il 70% delle risorse dell’intero paese; mentre due terzi della popolazione vivono nella povertà più estrema e molte famiglie sono costrette a vivere con meno di 1 dollaro al giorno. Il 10 % della popolazione non possiede assolutamente nulla. Il tasso di mortalità infantile (68%) è il più elevato dei Carabi, mentre la speranza di vita è la più bassa della regione: appena 54 anni (7).

Nella capitale vivono circa 300.000 “restavik”, piccoli schiavi venduti dalle loro famiglie, nell’illusione di poter ricevere in cambio un piccolo vitalizio quasi sempre insufficiente per la sopravvivenza. In alcuni quartieri della periferia si mangia solo due o tre volte alla settimana e la gente muore di fame e di malattie.

Nonostante che il 65% della forza lavoro risieda e lavori in maggioranza nelle campagne, la produttività dell’agricoltura haitiana non è in grado di far fronte alle necessità della popolazione che aumenta con un ritmo del 2% all’anno in una situazione di crisi senza precedenti.

Negli ultimi decenni alla tradizionale produzione di caffè, rhum e tabacco si sono aggiunte anche industrie dell’abbigliamento e dei giocattoli per l’esportazione. Circa 300 compagnie USA hanno aperto piccole e medie industrie tessili e di assemblaggio. Haiti è la maggiore produttrice mondiale di palle da baseball e di reggiseni. Si tratta di aziende di tipo semicoloniale, le cosiddette “maquiladoras”, ossia unità di produzione che vengono impiantate dalle multinazionali nei paesi del terzo mondo, col compito di realizzare determinate produzioni standardizzate nella catena della produzione globale(8).

Le maquiladoras si sono sviluppate nelle cosiddette “zone franche” , in particolare ai confini con la Repubblica Dominicana e alla periferia di Port-au-Prince, dove sfruttano condizioni di manodopera a bassissimo costo (la paga giornaliera è di 3 dollari, la più bassa dei Carabi e dell’America Latina), l’assenza di sindacati, enormi agevolazioni fiscali, facilità di importazione delle materie prime. Oltre l’80% della manodopera utilizzata nelle maquiladoras sono donne.

Attualmente il dominio americano dell’isola è quasi assoluto: l’89% delle importazioni e il 65% delle esportazioni avvengono con gli Stati Uniti, alleati con una piccola oligarchia mulatta (meno del 5% della popolazione) e bianca (poco più dell’1%), che opprime e sfrutta la immensa maggioranza nera.

La dittatura dei Duvalier

Nel 1957 gli Stati Uniti imposero al paese un’altra dittatura, quella di François Duvalier (il famoso papà Doc) che, appoggiandosi su di una ristretta oligarchia, diede vita ad un regime basato sulla persecuzione poliziesca e paramilitare e accumulò una immensa fortuna personale. Uno dei suoi principali strumenti di dominazione furono i Tonton Macoutes, un corpo paramilitare che perseguitava, torturava e assassinava gli oppositori. Spesso queste bande facevano ricorso a riti e simboli del voodoo, un culto afro-americano ampiamente diffuso nel paese, per alimentare la paura del popolo haitiano.

Nel 1971 papà Doc morì e gli successe il figlio Jean Claude, detto baby Doc, il quale però non aveva il carisma ed il peso politico del padre. A partire dagli anni ’80 ebbe inizio un periodo di mobilitazioni popolari contro le dure condizioni economiche in cui versava il paese e per l’ottenimento delle libertà politiche. Nel 1986, dopo due anni di mobilitazioni e di rivolte operaie e popolari nelle principali città del paese, si verificò una insurrezione che provocò la fuga di baby Doc Duvalier. Gli USA infatti avevano smesso di appoggiarlo preferendo sacrificare il dittatore nell’intento di salvaguardare gli interessi statunitensi e quelli dell’élite haitiana.

Da quel momento venne messa in moto una attiva operazione politica, promossa dall’ambasciata americana e che coinvolgeva la chiesa cattolica e i partiti tradizionali, allo scopo di distogliere e canalizzare l’avanzata delle masse che giustiziavano per le strade i terribili tonton macoutes, occupavano i latifondi e saccheggiavano le proprietà dei ricchi. Dopo diversi scioperi generali la giunta militare succeduta a Duvalier fu costretta a convocare una assemblea costituente e a indire elezioni generali.

L’ascesa al potere di Jean Bertrand Aristide

Nel 1990 vennero effettuate le prime libere elezioni nel paese e Aristide, che aveva costituito il movimento Fanmi Lavalàs (“famiglia valanga” in creolo, la lingua parlata ad Haiti), stravinse contro Marc Bazin, ex funzionario del Banco Mondiale e candidato appoggiato dagli Stati Uniti.

Jean Bertrand Aristide è un ex sacerdote salesiano aderente alla teologia della liberazione, una corrente sorta negli anni sessanta con un programma di profonde riforme sociali, che a suo tempo ha influenzato il sandinismo nicaraguese e che attualmente esercita una certa influenza su varie forze di sinistra in America Latina, tra le più note il Movimiento de los Sin Tierra del Brasile.

Da una parrocchia alla periferia di Port-au-Prince, Aristide divenne una delle figure più importanti nella lotta contro la dittatura di Duvalier e grazie al suo approccio radicale acquistò un grande prestigio tra le masse dei quartieri più poveri, che riponevano in lui le proprie aspettative.

La sua figura ispirava profonda diffidenza nell’imperialismo americano. Aristide prese misure contro il narco traffico, cercò di arginare la corruzione dilagante nel paese, ridusse del 20% la burocrazia statale, imprigionò e processò personaggi eminenti del vecchio regime.

Nel 1991, dopo appena nove mesi dalle elezioni, il governo di Aristide veniva rovesciato da un golpe organizzato dall’esercito, con l’aiuto della CIA e della oligarchia haitiana timorosa di perdere i propri privilegi. Il potere veniva assunto dal generale Raoul Cedras, che instaurava ancora una volta un regime di terrore.

La politica economica applicata da Cedras aggravò fino ad un limite intollerabile le privazioni e la miseria del popolo haitiano. Migliaia di “balseros” fuggivano dal paese e cercavano di raggiungere le coste della Florida per entrare negli Stati Uniti, mentre le mobilitazioni popolari riprendevano vigore.

La dittatura di Raoul Cedras

Dopo tre anni di potere militare, nel 1994 gli USA inviarono una forza di occupazione costituita da 20.000 marines, che invasero il paese e rimisero al governo Aristide.

In realtà gli Stati Uniti non intendevano ripristinare la democrazia dopo gli eccessi della dittatura militare di Cedras: ma, piuttosto, cercavano di prevenire la possibilità di un’insurrezione popolare contro la Giunta militare e le sue politiche neoliberali. Lo scopo dell’occupazione militare americana era quindi quello di assicurare ancora una volta la stabilità politica nel proprio “cortile di casa”. Con il pretesto che l’esercito di Haiti aveva massicciamente sostenuto le precedenti dittature, venne sciolto e una compagnia di mercenari statunitensi ebbe il compito di riorganizzare la polizia nazionale. “In nome della democrazia” le truppe americane sarebbero rimaste nel paese fino al 1999 (10).

Paradossalmente, Aristide era nel frattempo divenuto un mito per l’intellettualità e la sinistra latinoamericana, che lo sostenevano apertamente, senza tuttavia interrogarsi a fondo riguardo il suo ritorno al potere al seguito dei marines e dopo avere negoziato col governo americano e col FMI i piani economici da applicare al paese.

Il nuovo governo di Aristide

Sia Aristide che il suo successore René Preval, sempre del movimento Lavalàs, applicarono fedelmente i piani del FMI per il pagamento del debito estero e favorirono le multinazionali mediante la installazione delle maquiladoras nelle zone al confine con la Repubblica Dominicana.

Aristide diviene così il perno fondamentale della politica americana ad Haiti. Nel 2000 si svolgono nuove elezioni, nelle quali egli ottiene circa il 92% dei voti, tra le accuse di brogli elettorali da parte di tutta l’opposizione. Il suo programma prevedeva campagne di alfabetizzazione, opere pubbliche e una riforma agraria.

Ma la situazione economica e finanziaria del paese ormai andava deteriorandosi. Aristide non solo aveva accettato di pagare il debito estero contratto dalla dittatura dei Duvalier, ma soprattutto aveva accettato di aprire la sua economia alle esportazioni agricole sovvenzionate dagli Stai Uniti, il che fece crollare la produzione agricola del paese, una delle principali fonti di sopravvivenza di questa povera nazione.

La situazione si aggravava ulteriormente con l’amministrazione Bush, legata a vecchi personaggi dell’esercito e della polizia di Haiti che nel 1991 avevano organizzato il golpe contro il primo governo di Aristide. Con il pretesto della frode elettorale e della corruzione gli Stati Uniti bloccavano la concessione di un credito di 400 milioni di dollari già approvato dalla Banca Mondiale. Per adempiere ai propri obblighi col FMI, Aristide abolì il contributo statale per il petrolio, il cui prezzo veniva così liberalizzato, provocandone un aumento di circa il 130% e conseguentemente un aumento vorticoso dell’inflazione. Nelle zone settentrionali e orientali del paese, l’aumento del prezzo del petrolio porterà alla paralisi pressoché totale dei trasporti e dei servizi pubblici e al blocco dell’erogazione dell’acqua e dell’elettricità.

A ciò si aggiunse la crisi economica, causata sia dalla caduta dei prezzi di alcuni dei principali prodotti di esportazione (caffè, tabacco, rum ) sia dalla diminuzione dei flussi turistici, altra importante fonte di entrate, legata alla instabilità politica interna. Come conseguenza delle politiche neoliberiste applicate in quel periodo, il paese sprofondò in una inflazione galoppante e in una situazione di miseria generalizzata, con migliaia di esuli che su fragili zattere cercavano di raggiungere le coste del Messico e degli Stati Uniti.

Nel 2002 e nel 2003, mentre la situazione economica del paese si aggrava in maniera drammatica, si assiste ad un’ondata di proteste, represse dai seguaci di Aristide, il quale ora, nel disperato tentativo di contenere il malcontento delle masse, cerca di fare ricorso alla polizia e alle bande dei cosiddetti chimeres, un corpo non ufficiale, sostenuto con fondi statali, che aveva una discreta forza e consenso popolare alla periferia di Port-au-Prince.

L’opposizione civile e militare

Ma da chi era composta l’opposizione civile e militare ad Aristide?

L’”opposizione civile” ad Aristide era composta da una arco di molteplici organizzazioni politiche. Vi prendevano parte settori che avevano combattuto contro la dittatura dei Duvalier, come i democristiani e il socialdemocratico Gerard Pierre Charles, storico e docente universitario, leader della sinistra haitiana e coordinatore dell’OPL (Organizzazione del Popolo in Lotta) (11).

Vi è poi la cosiddetta Convergenza Democratica, un gruppo di circa 200 organizzazioni politiche guidate da Paul Evans, ex sindaco di Port-au-Prince, l’opposizione politica riconosciuta come interlocutore dagli USA e capeggiata dalla élite economica del paese. Questo raggruppamento, insieme al Gruppo dei 184 (184 organizzazioni della società civile) ha costituito la cosiddetta “Piattaforma Democratica”. Merita un cenno questo Gruppo dei 184, composto da associazioni di vario genere (sindacati, organizzazioni giovanili e studentesche, associazioni imprenditoriali e del commercio), ma capeggiati da un miliardario americano di origine haitiana, André Apaid, proprietario di alcune grandi ditte, dove si producono articoli tessili e viene assemblato materiale elettronico per ditte americane. Queste fabbriche vengono chiamate maquiladoras o anche sweatshop (letteralmente: laboratori del sudore, ossia fabbriche semiclandestine dove si lavora in condizioni di totale sfruttamento e senza alcuna garanzia). I salari retribuiti dalle fabbriche di Andy Apaid sono molto bassi e corrispondono a 68 centesimi di dollaro al giorno con un orario di lavoro di 78 ore alla settimana (Miami Times, 26 febbraio 2004).

L’unico denominatore politico comune tra questi gruppi è stato rappresentato dalla opposizione agli “abusi” di Aristide e dalla rivendicazione delle sue dimissioni. Di fatto nessuna di queste associazioni ha mai avuto un progetto di cambiamento rispetto alle politiche neoliberali imposte dagli USA e dalle istituzioni finanziarie internazionali. Si tratta quindi con ogni evidenza di un blocco molto eterogeneo, ma con un tratto comune, rappresentato dai legami con l’imperialismo, come ha dimostrato la circostanza che fin dall’inizio della crisi l’unica rivendicazione di questi gruppi è stata quella dell’”intervento militare straniero per evitare la guerra civile”.

Non sono chiari i legami tra l’opposizione civile, che si autodefinisce nonviolenta, e i gruppi paramilitari. Come abbiamo visto, l’esercito paramilitare “ribelle” ha avuto un’importanza decisiva nel determinare la caduta di Aristide. Esso era formato in gran parte da ex soldati del disciolto esercito haitiano e da componenti degli squadroni della morte dei tempi delle dittature di Duvalier e Cedras. Queste bande armate sono riuscite in pochi giorni a impadronirsi delle principali città del paese. I leader di questi gruppi sono Guy Philippe, ex capo della polizia, Emmanuel Constant e Jodel Chamblain, tutti legati alla CIA.

Le ragioni del fallimento di Aristide

Su quanto accaduto ad Haiti vanno fatte alcune considerazioni sul piano interno e della situazione politica in cui vive l’isola di Santo Domingo, dal momento che anche la vicina Repubblica Dominicana è scossa da fermenti sociali di non poco conto; ulteriori considerazioni concernono le conseguenze che i recenti avvenimenti avranno sugli equilibri della regione caraibica e del Centro America più in generale.

A prescindere dai pesanti condizionamenti interni e internazionali che nel corso di entrambi i suoi governi ha dovuto affrontare, Aristide e il movimento Lavalàs non sono stati capaci, mancando di una prospettiva di classe, di aggredire alla radice la fonte dell’arretratezza materiale del paese, cioè il potere economico della borghesia locale e dell’imperialismo; al contrario, il loro programma politico ha di fatto costituito più di una volta un freno rispetto all’avanzata delle masse, avendo coltivato e seminato a mani aperte l’illusione che i problemi del paese potessero risolversi nel rispetto dei dogmi del Fondo Monetario e nel contesto di uno sviluppo democratico del paese, senza però intaccare i rapporti di proprietà a favore della oligarchia dominante (12).

Durante il suo secondo mandato Aristide – nonostante una qualche retorica antiamericana – ha finito così per governare contro gli stessi che lo avevano votato massicciamente per due volte: non ha toccato in alcun modo gli interessi dei grandi gruppi stranieri e della oligarchia locale, responsabili della miseria generalizzata. Nella misura in cui perdeva il proprio consenso sociale di fronte alla contraddizione tra un discorso a favore dei diseredati e la pratica di politiche neoliberiste, Aristide non trova altro rimedio che il ricorso alla formazione di bande armate per continuare a governare (13).

Il ruolo dell’imperialismo

Ma la vera tragedia degli avvenimenti recenti di Haiti è costituita dal fatto che l’abbattimento del regime di Jean Bertrand Aristide non è avvenuto a seguito di un processo rivoluzionario. Sicuramente vi è stata una situazione di forte malcontento per le disagiate condizioni economiche del paese. L’opposizione ad Aristide si è però trovata frantumata in centinaia di associazioni, prive di una prospettiva politica di cambiamento radicale. Nelle stesse giornate del 3 e 4 di dicembre scorso, che hanno rappresentato l’inizio della crisi istituzionale, si è verificato in realtà un tentativo di serrata - che la stampa internazionale ha inopinatamente definito “sciopero generale” - proclamata contro Aristide dall’Associazione degli industriali e dalla Camera di Commercio, ma pressoché fallita, mentre la contromanifestazione a favore del governo ha avuto una massiccia partecipazione.

Gli avvenimenti che hanno portato alla caduta di Aristide hanno una certa analogia con quanto accaduto nel Venezuela durante il mese di aprile del 2002. Anche allora vi fu una “rivolta popolare”, fortemente sostenuta dal punto di vista mediatico, dei settori medi e della borghesia venezuelana, appoggiati dalle forze di destra e dagli USA, per proteggere un golpe controrivoluzionario. Ma nel caso del Venezuela i lavoratori e le masse hanno reagito prontamente e sono riusciti a sconfiggere il golpe. Ad Haiti questo non è successo: sia perché il prestigio di Aristide, dopo tre anni di politiche ambigue, non era certo paragonabile a quello di Chavez, sia perché durante tutti questi anni non vi sono mai state forze politiche in grado di rappresentare in maniera autonoma e indipendente gli interessi dei lavoratori e dei campesinos di questo paese.

Gli Stati Uniti hanno così potuto portare a definitivo compimento il loro progetto golpista con l’invasione dei marines, col pieno appoggio dell’imperialismo francese e dell’ONU. E con la collaborazione di vari governi latinoamericani, come quello brasiliano di Lula e quello argentino di Kirchner, che hanno appoggiato l’intervento dell’ONU e offerto soldati dei loro paesi come caschi azzurri; mentre il governo cileno ha anche inviato i propri soldati tra la forza militare di occupazione (14).

Il nuovo governo di Haiti, capeggiato dal presidente della Corte di Giustizia, Boniface Alexandre, è chiaramente un governo fantoccio dell’imperialismo, al pari di quello di Aristide. Ha prestato giuramento in presenza degli ambasciatori degli Stati Uniti e di Francia, il presidente e il suo primo ministro Latourtoue sono continuamente scortati dalle truppe americane in una situazione che la stampa ha definito di “prigionieri virtuali”; mentre tutte le forze politiche che hanno preso parte al rovesciamento di Aristide hanno richiesto e accettato la presenza delle truppe straniere e l’intervento dell’ONU. Lo stesso Guy Philippe, uno dei leader militari della rivolta, ha accettato, come prova di obbedienza, la consegna delle armi del suo gruppo alle truppe degli Stati Uniti.

Ma la situazione potrebbe anche rivelare spiacevoli sorprese. Quando il popolo haitiano vedrà che nessuno dei suoi problemi è stato risolto e inizierà a mobilitarsi contro il nuovo regime, è probabile che il carattere così eterogeneo del fronte di opposizione ad Aristide degeneri in scontri aperti, anche tra le diverse frazioni armate dei paramilitari. In tal caso Bush, che ancora una volta non ha esitato a mettere a repentaglio le vite dei soldati americani, rischierà di trovarsi in una situazione simile a quella afgana, proprio in concomitanza con le elezioni presidenziali e con problemi sempre più gravi in Iraq.

Il futuro di Haiti

Il futuro di Haiti è quindi ancora incerto. Indipendentemente dalle intenzioni degli Stati Uniti e della Francia di “stabilizzare” la situazione con una sorta di “governo di unità nazionale”, è scontato che gli attuali rappresentanti della destra e della oligarchia haitiana, a suo tempo legati alle dittature di Duvalier e Cedras, e i nuovi settori apertamente reazionari delle bande paramilitari eserciteranno un ruolo chiave imponendo sempre più miseria e sfruttamento al popolo di Haiti.

Le masse diseredate di questo povero e minuscolo paese non possono aspettarsi certo niente di positivo da un cambio di governo determinato in modo decisivo dall’azione di bande paramilitari, composte da criminali reazionari e al soldo della CIA, e dalla protezione militare (“umanitaria”) dei vari imperialismi, quello statunitense e francese in prima fila.

La vera tragedia di questo paese è che non è presente un movimento indipendente dei lavoratori e dei campesinos. Il primo movimento sindacale haitiano si è sviluppato negli anni ’40 e ’50, ma venne eliminato dalla dittatura della famiglia Duvalier. La classe lavoratrice e le sue organizzazioni sono state decimate non solo dalla dittatura, ma anche dalle leggi repressive imposte dai successivi governi imperialisti sotto l’egida dell’ONU. In questo paese di circa 8 milioni di abitanti, vi sono solo 100.000 posti di lavoro regolari e retribuiti in maniera “stabile”.

Recentemente si sono organizzati nuovi sindacati combattivi e indipendenti. In uno di questi casi, i lavoratori di una piantagione di arance di proprietà della multinazionale francese di liquori, Marnier, sono riusciti ad ottenere con la lotta salari più alti e migliori condizioni di vita.

E’ necessario che i lavoratori, i campesinos, i giovani e gli studenti, i diseredati di Haiti, che vivono oggi in condizioni di drammatica sofferenza, proseguano su questa strada, organizzandosi in sindacati, in un partito che li rappresenti in maniera autonoma e indipendente, confidando solo su se stessi, con un programma di rivendicazioni che abbia come prospettiva immediata la nazionalizzazione sotto controllo popolare delle imprese industriali e delle grandi piantagioni agricole.

La situazione nella Repubblica Dominicana

Anche la Repubblica Dominicana attraversa una profonda crisi economica e politica. Il 28 e il 29 gennaio il paese ha conosciuto due giornate di sciopero generale. Il precedente sciopero generale, nel novembre 2003, aveva avuto un bilancio di 7 morti e 40 feriti. A differenza di Haiti, però, qui la classe operaia e le sue organizzazioni sono saldamente alla testa dell’opposizione politica. I negoziati col FMI per ottenere un prestito di 600 milioni di dollari prevedevano programmi di aggiustamento strutturale accompagnati dalle privatizzazioni e dalla diminuzione delle risorse per la salute e per l’educazione (15).

Lo sciopero di fine gennaio ha paralizzato il trasporto pubblico, le attività commerciali e le scuole, e ha provocato la chiusura di numerose imprese industriali. La risposta del governo è stata la stessa di novembre, ossia la repressione, col risultato di 8 morti, 60 feriti e circa 400 arresti.

Gli avvenimenti di Haiti e della Repubblica Dominicana vanno quindi considerati congiuntamente: essi rispecchiano la continuità di una tendenza di lotta e di radicalizzazione che ha coinvolto negli ultimi anni numerosi paesi latinoamericani.

Gli Stati Uniti militarizzano i Caraibi

Ulteriore considerazione è che ci troviamo di fronte, ancora una volta, ad un nuovo intervento militare degli Stati Uniti nel “cortile di casa”. Intervento che mira a controllare in maniera diretta una situazione sempre più critica nella regione caraibica, sprofondata in crisi politiche e sociali sempre più acute, e che avviene in un contesto latinoamericano sconvolto dai processi rivoluzionari che negli ultimi anni hanno causato il rovesciamento di alcuni governi, in Argentina, Bolivia, Equador, Perù.

Questo nuovo intervento nordamericano mira quindi a costituire una testa di ponte, che potrà essere utilizzata in futuro contro Cuba e il Venezuela. Nel contesto di una situazione di instabilità politica dell’intero continente e nel momento stesso in cui si stanno sviluppando da parte di alcuni governi della regione timidi rifiuti di negoziare le condizioni del nuovo statuto di vassallaggio che gli Stati Uniti vorrebbero imporre ai popoli dell’intero continente latinoamericano con l’ALCA, il recente intervento militare ad Haiti rappresenta ancora una volta l’aspetto più aggressivo e tradizionalmente golpista della penetrazione colonialista degli Stati Uniti in America Latina, di cui l’altra faccia è costituita dagli accordi bilaterali di libero commercio(16).

I Carabi e il Centro America sono una regione molto importante dal punto di vista “geopolitico”, per la loro particolare posizione a metà strada tra le due Americhe. L’importanza dei processi rivoluzionari che coinvolgono i paesi di questa regione sono quindi altrettanto decisivi. Per la liberazione dei popoli latinoamericani dal giogo dell’imperialismo nordamericano questa regione ha quindi alcuni obiettivi fondamentali: l’indipendenza di Portorico, la difesa di Cuba e dell’esperienza bolivariana del Venezuela, nella prospettiva finale della Federazione delle Repubbliche Socialiste del Caribe.



NOTE

(1) H. Lopez Valladores, El drama de la epopea haitiana, in Rebelion, 2 aprile 2004.

(2) Per una dettagliata ricostruzione degli avvenimenti recenti vedi sito internet della Associazione ANPIL – Amici nella Protezione Internazionale Lassalliana, i frati salesiani, che sono presenti da anni con loro missioni ad Haiti.

(3) J. H. Manisco, La crisi di Haiti, Il Manifesto, 22 febbraio 2004. L’ex ministro della Giustizia USA, Ramsey Clark ha letteralmente dichiarato: “L’amministrazione Bush è di nuovo coinvolta in un’operazione aggressiva di cambio di regime questa volta contro il presidente democraticamente eletto di Haiti”. Anche il giornale Haiti Progress ha ripetutamente dichiarato di essere in possesso di prove della collaborazione tra le forze speciali statunitensi e i gruppi paramilitari entrati dalla vicina Repubblica Dominicana.

(4) Questa tesi è sostenuta con dovizia di particolari da M. Salierno, presidente dell’ANPIL, in un’intervista riportata da Peacereporter.net.

(5) Si può vedere a questo proposito l’ampia documentazione fornita da I. D. Lindenmayer, A. Goodman e J. Scahill, tratta da Dissidentvoice.org, Democracynow.org e United Press International, tradotta in italiano da comedonchisciotte.net.

(6) Per una originale ricostruzione delle vicende storiche di Haiti vedi Archivio Web Noam Chomsky. Il testo più recente che ricostruisce la storia di Haiti è quello di Paul Farmer, un medico americano, specialista in AIDS, che ha lavorato per più di dieci anni in questo paese. Il suo libro, Haiti para qué. Usos e abusos de Haiti, Editorial Hiru, 2002, prende in esame anche la complessa figura e l’azione politica di Jean Bertrand Aristide.

(7) Una dettagliata ricostruzione della situazione economica e sociale di Haiti è presente nel sito internet di Mani Tese, in particolare vedi l’articolo di F. Ramin, Le molte facce di Haiti. Per i dati statistici menzionati la fonte è: UNID, Programma per lo sviluppo dell’ONU.

(8) L’importanza delle maquiladoras nel ciclo globale della produzione capitalista e le disumane condizioni di sfruttamento cui sono sottoposte le persone che lavorano all’interno di esse, sono state compiutamente analizzate da Naomi Klein in No logo. Più di recente ulteriori elementi di analisi sono stati forniti da C. Harman, I lavoratori del mondo (Parte 2), in International Socialism 96, tradotto in spagnolo e riportato in Estrategia internacional del 7 marzo 2004.

(10) MIchel Chossudovsky, La destabilizzazione di Haiti, in Nuovi Mondi Media, 29 marzo 2004. Secondo questo autore, nelle intenzioni dell’amministrazione Bush c’è sempre stata l’idea di sostituire Aristide con una figura più mite e remissiva. Nell’articolo citato viene messo in rilievo il ruolo di disinformazione dei media occidentali, che non hanno mai preso in considerazione il background storico della crisi di Haiti e neppure menzionato l’attività della CIA, nonché le ambiguità della “comunità internazionale”, che a parole ha sempre sostenuto di essere impegnata nella salvaguardia del governo e della democrazia, mentre di fatto ha chiuso gli occhi davanti ai massacri.

(11) Un quadro politico esauriente delle forze politiche attualmente presenti ad Haiti è fornito da E. Corbière, Quién es quién en la defensa y en la rebelion contra el presidente Jean Bertrand Arisitde, in Argentpress, 23 febbraio 2004.

(13) R. Lyon, Haiti – Como progresar contra el imperialismo, In defence of marxism, gennaio 2004.

(14) L’analogia di situazioni tra quanto accaduto ad Haiti e la sommossa antichavista dell’aprile 2002 in Venezuela è stata posta in particolare risalto da Jorge Altamira, in Prensa Obrera, n. 841, del 11 marzo 2004.

(15) P. Sanchez, La huelga general estremece a la Repubblica Dominicana, El Militante, Argentina, 19 marzo 2004.

(16) La metodologia utilizzata dall’impero statunitense per la sua penetrazione in America Latina può riassumersi come un movimento di pinza nel quale le due tenaglie sono quella militare e quella economica. La penetrazione economica avviene mediante una serie di programmi di liberalizzazione dei mercati latinoamericani (NAFTA, Iniziativa Andina, Plan Puebla Panamà, Plan Colombia, il recente TLC col Cile, infine l’ALCA), con i quali gli Stati Uniti cercano di appropriarsi delle risorse economiche (particolarmente petrolio e acqua) dei paesi latinoamericani. Quella militare è rappresentata dalla installazione di basi militari e dallo svolgimento di esercitazioni congiunte con le forze armate di questi paesi. L’aspetto della penetrazione militare degli Stati Uniti in America Latina è stato di recente ampiamente documentato da M. Garcia, Los Estados Unidos militarizan America Latina, in Marxismo Vivo, n. 8, marzo 2004

Gianfranco Coggi

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