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Che Guevara

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In lode della democrazia (operaia)

(15 Novembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Chi è ormai vicino (o ha superato) i sessant’anni ricorda benissimo gli argomenti della martellante campagna ideologica che hanno caratterizzato per decenni la guerra “culturale” della borghesia contro i comunisti.
I comunisti vi toglieranno le case e gli orti, venderanno le vostre mogli a orde di cosacchi allupati, costringeranno i vostri pargoletti a lavori avvilenti e faticosi, abbasseranno il vostro tenore di vita a livello di quello del più misero degli operai.
Il comunismo è negazione della democrazia, è dittatura di una minoranza, solo il sistema capitalistico può garantire la partecipazione di TUTTI i cittadini alle decisioni collettive. Col voto, non con la rivoluzione! Con la mediazione in parlamento fra “gli opposti interessi”, non con la lotta di classe. Con la concertazione non con il conflitto. Cacciare i padroni? No. TUTTI padroni!
Il binomio benessere-democrazia è stato il leitmotive che ha caratterizzato il periodo di relativo sviluppo dell’economia capitalistica nei decenni successivi al dopoguerra.
Non era solo propaganda. Era egemonia reale che aveva inciso profondamente nel tessuto sociale del paese, nelle convinzioni e nel sentire comune delle larghe masse popolari, perfino nel credo politico e nelle aspirazioni della parte più avanzata della classe operaia.
Per il Pci - la più importante esperienza socialdemocratica europea di quel periodo - era inimmaginabile una politica al di fuori degli schemi imposti dalla Costituzione.
Nelle sezioni, sotto lo sguardo benevolo di Amendola (ma anche di Ingrao), si recitava quotidianamente il mantra della “democrazia più avanzata del mondo”, magari qualche volta insidiata dalle “oscure forze della reazione”, ma, certamente, unico orizzonte entro il quale la classe operaia avrebbe trovato la soluzione ai propri problemi.
L’opera di diseducazione portata avanti per decenni, il disarmo ideologico, l’accettazione convinta degli steccati politici imposti dall’economia borghese, è il lascito storico di quel partito che qualcuno, oggi, vorrebbe perfino riesumare. I Napolitano, i D’Alema, i Veltroni, i Diliberto, ne sono il precipitato più ingombrante, scorie di un’esperienza ormai lontana che sopravvive a se stessa.

La crisi si è occupata (e sempre più se ne occuperà!) di spazzare via le convinzioni radicate sulle “magnifiche sorti e progressive” della civiltà capitalistica.
A strappare le case, a chi non ha più un soldo per pagare gli esosi mutui imposti dalle banche, ci hanno pensato gli ufficiali giudiziari, e di orti, ormai, ce ne sono rimasti ben pochi, tranne quelli che stentatamente resistono nei terrazzini condominiali.
I pargoletti sono finiti nei call center (a 400 euro al mese) a vendere improbabili “servizi” a “clienti” riottosi che vivono l'angoscia di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Il ceto medio, che sognava l’accesso fra i ranghi della classe ricca da sempre invidiata, scopre che, questa volta, “la ruota della fortuna” ha girato all’incontrario e che è già tanto se riuscirà a non dover fare la fila, assieme a un qualunque immigrato, alla mensa della Caritas.
In quanto alle mogli, ci ha pensato Berlusconi a “socializzare” la patonza, con la “contestuale” benedizione della chiesa che, in mercificazione di corpi e di coscienze, ha una esperienza millenaria.
Il benessere si converte in miseria. Non ci sono dubbi che la democrazia si convertirà, molto prima di quanto immaginiamo, in uno strumento di gestione del potere più “consono e più adatto” alle mutate condizioni. Ne vediamo i primi segni nell'operazione Monti, nel governo dei “tecnici”, nell’inedito e poco “protocollare” interventismo presidenziale, perfino nella ritrovata efficienza di un parlamento fino a ieri sonnecchiante (tranne quando si doveva togliere dai guai il papi e i suoi sodali).

L’intero apparato politico-costituzionale, le tanto decantate “istituzioni” a cui intere generazioni di “sinistri” hanno venduto l’anima (e svenduto chi in loro ha avuto fiducia), i riti elettorali che sancivano l’unità formale di un paese altrimenti diviso da interessi inconciliabili, tutto questo frana.
Il parlamento viene commissariato dal potere reale di chi detiene il denaro, ed è penoso assistere alle sceneggiate di chi, fino a ieri, si inchinava al “volere della nazione” certificato dagli onnipresenti sondaggi e, oggi, cerca di dimostrare l’ineluttabile necessità della “sospensione” della democrazia.

L’imbroglio della democrazia borghese si disvela nel momento stesso in cui i “rappresentanti del popolo” si arrendono e si inchinano al rappresentante dei “mercati”. Senza dover scomodare Marx, la cronaca parlamentare si fa carico di spiegarci, concretamente, i reali meccanismi della formazione e del funzionamento del “comitato d’affari” volgarmente chiamato governo della repubblica.
L’imbroglio si ammanta di colori surreali e farseschi nel momento stesso in cui si pontifica, urbi et orbi, che di sospensione si tratta, si, ma momentanea. Lasciamo all’economia, ai tecnici, agli impiegati del grande capitale, al procacciatore di affari di Goldman Sachs, la possibilità di massacrare impunemente quei cittadini che ci avevano votato e avevano creduto alle nostre promesse. Poi col tempo, statene certi, torneremo di nuovo a infestare le piazze e i talk show con nuovi e più stupefacenti programmi. L’importante oggi è salvare i profitti, condizione sine qua non della nostra stessa esistenza. Gobetti e Rossi strabuzzerebbero gli occhi di fronte alla campagna martellante atta ad accreditare l’Uomo della Provvidenza ben cosci che, istillare nelle masse la convinzione che ci sono momenti in cui è alla Provvidenza che dobbiamo delegare la gestione del potere politico, è la strada più facile per legittimare qualsiasi futura velleità golpista. Ma Gobetti e Rossi erano dei democratici borghesi prodotti di una fase superata del capitalismo. Nell’era dell’imperialismo di democratici borghesi rimangono solo le caricature alla Ferrara o alla Scilipoti.

Non ci strapperemo le vesti per la fine ingloriosa della Repubblica basata sul lavoro salariato e sfruttato. Il nostro orizzonte va oltre i lacci e i laccioli del parlamentarismo borghese. Non chiederemo (insieme a Maroni e La Russa) il voto popolare che, nella migliore delle ipotesi, servirebbe solo a permetterci di decidere quale fra i servi del capitale dovrà assumere il ruolo di carnefice. E non ci interessano nemmeno battaglie di retroguardia, in cui i lavoratori vengano chiamati a dissanguarsi, per ripristinare un ordine costituzionale che era solo la foglia di fico che mascherava la dittatura del capitale, quel capitale che ora si ritiene abbastanza forte da non vergognarsi di presentarsi col suo vero volto rapace di macellaio della società.
Ma il punto di maggior aggressività del capitale può diventare il momento della sua massima debolezza se sapremo sottrarre, con la chiarezza che ci proviene dalla nostra storia di comunisti, fette consistenti di lavoratori all’egemonia culturale della borghesia, nel vivo di un conflitto che si preannuncia aspro e difficile.

La storia ci ha insegnato che esistono altri strumenti democratici: quelli che nascono dalla pratica e dallo sviluppo della lotta di classe. La democrazia dei Consigli, dei rappresentanti operai riconosciuti nel corso delle lotte, la fiducia che non si aliena una volta ogni tanto barrando il simbolo di un partito ma che nasce e si sedimenta nei confronti del compagno vicino che fa il tuo stesso lavoro, che vive la tua stessa vita, che ha i tuoi stessi nemici, e che è punto di riferimento delle tue lotte.
Non più elettore in una democrazia che maschera, dietro i suoi riti obsoleti, la natura reale delle forze che detengono il potere e che decidono della tua vita e della tua morte, non più “cittadino”, finzione giuridica che nasconde la reale diseguaglianza sociale dietro la maschera dell’uguaglianza formale. Ma operaio, disoccupato, lavoratore in lotta quotidiana per difendere i propri interessi inconciliabili con gli interessi del padrone.
E’ la democrazia operaia che non può essere distinta dal conflitto di classe ma che, anzi, ne è il prodotto più genuino e, nello stesso momento, lo strumento concreto attraverso il quale si esprime l’autonomia dai padroni e dai loro governi, lo strumento attraverso il quale dalle mere lotte economiche ci si avventura nel mare aperto delle lotte politiche.
Contro il binomio miseria-fascismo che è il nuovo programma del capitalismo in crisi, opponiamo il nostro programma: sviluppo della lotta di classe – sviluppo della democrazia operaia.

15 novembre 2011

Mario Gangarossa

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