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(2 Gennaio 2012) Enzo Apicella

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Su alcune interpretazioni della crisi e del capitalismo attuale di piero bernocchi

(24 Novembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.cobas.it

Le mobilitazioni in corso in Europa contro la crisi e i suoi responsabili stanno provocando anche una diffusa discussione su elementi di analisi economica e politica cruciali per qualsiasi processo di trasformazione sociale di rilievo. In generale si può dire che si estendono positivamente argomentazioni di carattere apertamente anticapitalistico, di rifiuto globale di un sistema considerato inemendabile, e di ripudio anche di intere strutture istituzionali, parlamentari e politiche, indipendentemente dai “colori” di chi le gestisce, nonché richieste di vera giustizia sociale e di democrazia reale e sostanziale.
Tuttavia, risulta piuttosto diffusa una vulgata sulle responsabilità principali della crisi e sui suoi attori dominanti che ingigantisce alcuni protagonisti di essa rimpiccolendone oltre misura altri, che poi spesso sono quelli davvero principali; e che non riesce a dare conto del perché, a tre anni dall’esplosione ufficiale della crisi, non solo a pagare siano stati sempre gli stessi settori popolari più deboli e indifesi, ma per giunta senza che a livello europeo si stabilisse una qualche forma di resistenza e difesa comune tra i settori sociali più colpiti e tra le loro forme di rappresentanza o protagonismo sociale, politico e sindacale.
Sarà opportuno innanzitutto intenderci su alcuni criteri di valutazione complessiva del funzionamento del sistema capitalistica odierno, e in particolare sul rapporto tra Stati-nazione ed economia globale e tra capitali di Stato e capitali privati.

Il mito dell’esaurimento degli Stati. Capitali statali nazionali e capitali privati.

Già nel primo periodo no-global era assai diffusa una vulgata – poi ridimensionata dalle esplosioni di guerra e dai conflitti interstatali cruenti dell’ultimo decennio – che vedeva gli Stati (persino quelli più potenti) come cani morti, senza potere, in piena balia dei cosiddetti mercati mondiali (o del capitale finanziario internazionale, come sarebbe corretto dire) o addirittura alle dipendenze di organi transnazionali come il WTO, il FMI, la Banca Mondiale: e qui si arrivava davvero all’assurdo, visto che tali organi sono composti da funzionari dei principali Stati capitalistici, lì collocati dai rispettivi governi per attaccare l’asino dove vogliono gli Stati nazionali committenti.
In genere tale argomentazione si faceva e si fa forza su alcuni dati numerici relativi alla sproporzione tra la massa monetaria che si muove sui mercati finanziari mondiali e quella gestibile da ogni singolo Stato. Tale sproporzione effettivamente esiste: ma è in realtà pura astrazione, un gioco di specchi possibile solo con la complicità e l’assenso dei principali Stati dominanti e delle loro istituzioni pubbliche e private, nazionali e transnazionali.
Se facciamo un confronto non sul denaro informatico, per così dire, ma sulla base di capitali veri e concreti, la sproporzione tra ciò che possono mettere in campo gli Stati (ovviamente parlo di quelli più potenti, non mi riferisco al Bangla Desh o allo Zimbabwe) e ciò che è in mano a privati, sia per quel che riguarda il sempre più ridotto capitalismo familiare sia per le grandi multinazionali, è del tutto a favore dei primi, in modo da rovesciare la consolidata convinzione che la “borghesia di Stato” (tornerò poi su questo concetto), cioè il dilagante funzionariato che gestisce il capitale “pubblico” statale, non sia altro che un branco di cialtroni servi del capitale privato.
Se prendiamo ad esempio l’Italia, i dati sono lampanti. Negli ultimi 5 anni l’entrata media annua dello Stato italiano è stata intorno ai 450 miliardi di euri; ma se teniamo conto che, per ammissione comune, si aggira tra i 300 e i 400 miliardi annui il bottino dell’evasione gigantesca (solo il 3% degli italiani/e dichiara almeno 100 mila euri annui di reddito) e ad almeno 200 miliardi ammonta la voragine causata dal sistema tangentizio e dalla corruzione nell’apparato statale, possiamo ragionevolmente dire che, con uno sforzo neanche enorme di “polizia finanziaria” per gli evasori e di pulizia per la corruzione statale, lo Stato avrebbe a disposizione ogni anno almeno 700-800 miliardi di euri con modalità assolutamente certe ed insindacabili.
Se guardiamo invece al capitalismo privato italiano (escludendo ENI ed Enel che non considero affatto in tale regime) l’impresa con il maggior fatturato annuo è la Fiat che arriva a malapena a 60 miliardi (e magari il prossimo anno ne perderà buona parte), mentre al secondo posto abbiamo Finmeccanica con poco meno di 20 miliardi di euri: dunque, seppur ragionando su indici non equivalenti appieno, abbiamo un rapporto tra capitale di Stato e capitale fatturato dai due principali gruppi privati che è, rispettivamente, di circa 12 a 1 e di 35 a 1.
Per giunta si potrebbe dire che abbiamo conteggiato, per il capitale di Stato, poco più dell’”argent de poche”. Se entrassimo nel merito delle proprietà statali immobili e di quelle di Lor Signori privati i rapporti diverrebbero incommensurabili (100 a 1?). Lo Stato possiede ricchezze di portata enorme, persino quello italiano non certo tra i più potenti: strade e autostrade, porti ed aereoporti, infiniti terreni e territori dal valore gigantesco, decine (o centinaia) di migliaia di immobili di ogni portata e dimensione, ricchezze artistiche incommensurabili ecc..
Dunque, bisognerebbe sorridere quando si sente parlare di “fallimento di uno Stato” a proposito della Grecia o dell’Italia, della Spagna o del Portogallo. E’ evidente che Stati con tali e tante ricchezze a disposizione possono dichiarare fallimento solo con le stesse modalità di quei negozianti che dichiarano ogni anno di fare saldi a prezzi stracciati per “chiusura esercizio”, finendo di fatto con lo scaricarsi un debito consistente e fastidioso ma rimanendo con vastissime proprietà e mezzi finanziari a disposizione.
Assecondare questa idea di impotenza statale di fronte ai “colossi” del capitalismo privato non può che fare un favore a questi ultimi, perché induce un senso di frustrazione a livello popolare, lasciando capire (malgrado l’Argentina e la Russia ieri e l’Islanda oggi ci abbiano dimostrato abbondantemente il contrario) che nel confronto-scontro con tali mega-capitali la sconfitta è assicurata, chiunque gestisca lo Stato: e che dunque non vale manco la pena di porsi il problema di toglierlo di mano alla borghesia di Stato e privata.

Il “governo unico delle banche”?

Ma è anche figlia di tale pessima lettura del capitalismo la teoria, altrettanto irreale, del “governo unico delle banche” che richiama alla mente il SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali, su cui erano fissate le Brigate Rosse, ma anche quel “governo unico delle multinazionali”, organizzato tramite FMI, WTO e Banca Mondiale, che per tanti nostri amici no-global (prima della guerra all’Afghanistan e poi all’Iraq) sarebbe andato cancellando i poteri degli Stati e dei governi, costruendo un surreale Impero pacificato che avrebbe posto fine a guerre e conflitti interstatali di marca ottocentesca e novecentesca.
Anche qui si potrebbe comparare il capitale a disposizione delle banche centrali nazionali e quelli delle singole banche private e rilevare lo stesso rapporto sproporzionato a favore delle prime. E poi magari controllare le spaventose cifre messe in campo dai capitali di Stato (Usa e Gran Bretagna, in primis) per salvare le banche e i gruppi finanziari e assicurativi privati nel 2008, incomparabilmente superiori alle possibilità di tutte quelle strutture salvate messe assieme. E oggi la UE si impegna a mettere a disposizione per analoghi salvataggi qualcosa come 3000 miliardi di euri: quale banca transnazionale potrebbe mettere in conto somme minimamente paragonabili a queste?.
Ma soprattutto, e non solo per l’Italia, va messo in discussione il vero carattere privato delle banche principali, nel senso di istituzioni davvero indipendenti e addirittura alternative e dominanti rispetto al potere statale dei gestori del capitale nazionale “pubblico”. Basterebbe ripercorrere tutta la storia delle principali banche italiane nel dopoguerra per vedere una costante: la dipendenza dei gruppi dirigenti dalle strutture statali e politico-istituzionali.
E a chi volesse sostenere che il neo-liberismo ha cambiato le cose nell’ultimo decennio, ricordo la recentissima vicenda del “potentissimo” Geronzi, considerato fino a ieri un dio del capitalismo finanziario privato italiano, una sorta di nuovo Cuccia, liquidato in poche ore una volta che gli equilibri politici erano mutati a sfavore dei suoi protettori istituzionali.
Persino più assurda mi pare la lettura che molti danno del ruolo della Banca Centrale Europea (BCE). Qui si ripete, ma aggravato, lo stesso bizzarro errore del movimento no-global agli albori, a proposito del FMI, WTO, Banca Mondiale et similia. I gestori di queste strutture non sono capitalisti privati né ci vengono collocati da multinazionali, anche se alcuni possono in passato aver avuto ruoli in tali ambiti. La stragrande maggioranza di essi ha sempre svolto ruoli da “borghesia di Stato”, da funzionario del capitale di Stato, venendo collocati in tali posti di potere rispettando una rigida alchimia (una specie di manuale Cencelli internazionale) di rapporti di forza tra Stati e, in ognuno di essi, tra governi e opposizioni.
Ad esempio, un Draghi non va a dirigere la BCE perché è un agente della Fiat o della Wolkswagen: ma perché ha il placet dello Stato e del governo tedesco di cui da sempre è grande propagandista e che vorrebbe veder imitato, seppur da subordinati, anche dalle caste politiche e economiche italiane. O per converso, uno Stark abbandona la BCE non perché si è messo d’accordo con i “mercati” mondiali per speculare ancor meglio contro i PIIGS, ma perché fa parte di quella corrente politico-istituzionale tedesca (suo maestro l’allora direttore della Banca Nazionale tedesca, Tyidemayer, che stolidamente si oppose all’unificazione tedesca temendone le immediate conseguenze finanziarie e senza guardare oltre il proprio naso) che ritiene giusto scaricare tutti i costi della crisi sui PIIGS per evitare che la Germania debba pagare alcunché, malgrado sappia che il tracollo della zona-euro costerebbe nell’immediato carissimo anche al suo paese.

La borghesia di Stato e il capitale nazionale

Nei sit-in sotto la Camera e il Senato dei giorni scorsi ho sentito ripetere fino alla nausea che il personale politico parlamentare “non conta più un cazzo” e fa solo da passacarte delle banche e dei gruppi finanziari internazionali. Quando si parla della “casta politica” ho l’impressione che tanti non abbiano chiare le dimensioni del fenomeno e del ruolo e si limitino a fotografare con sdegno la grottesca cialtroneria degli Scilipoti et similia.
Il tessuto politico-istituzionale in realtà pervade tutto il paese come un fittissimo reticolo che non lascia scampo o libertà quasi ad alcuna struttura sociale pubblica. Se alle centinaia di migliaia di politici inseriti fin nelle circoscrizioni e gli apparati rionali e in tutte le strutture para-istituzionali, si somma l’”indotto”, cioè l’insieme di municipalizzate, aziende pubbliche o semipubbliche, o private con presenza statale, comunale, regionale o provinciale, calcoli attendibili dall’interno parlano di cifre oscillante tra i 2 milioni e mezzo e i tre milioni di persone: che riportati a dimensioni familiari ci fanno dire che almeno dieci milioni di persone traggono proventi diretti dal mondo della politica. O, come sarebbe più corretto dire, da quel mondo di “borghesia di Stato” fatto di funzionari che gestiscono il capitale di Stato usandolo come se fosse loro proprietà, anche senza averne il possesso giuridico formale come singoli individui.
Ma l’intreccio è anche più ampio, perché capitalismo di Stato e privato, soprattutto in Italia, si intersecano ovunque, così come il capitale finanziario e quello industriale o “produttivo”. Ho già detto delle banche ma anche a livello commerciale, artigianale e industriale i settori di grandi o medie dimensioni che vivano senza attaccarsi alle mammelle del capitale di Stato (che almeno in teoria sarebbe il nostro capitale pubblico nazionale, quello spremuto dalle tasche di tutti/e noi), sono una vera e propria rarità. In realtà la piramide della borghesia di Stato (ma chi preferisce la chiami pure “casta”, purché ne intenda bene le gigantesche e ramificate dimensioni e i suoi intrecci con il capitale privato) ha un vertice che si intravede nei palazzi principali del potere politico ed economico di Stato ma ha una base molto più ampia di quello che si crede di solito.
E’ esattamente questa rete onnipresente che garantisce il consenso o almeno il controllo o l’attenuazione del dissenso (ridimensionato a mugugno) e spiega al 50% (il resto lo vedremo più avanti) la quasi incredibile passività di massa degli ultimi tre anni in Italia, a parte limitate e lodevoli lotte settoriali nonché il grande successo referendario sui beni comuni, segnale assai positivo ma a cui purtroppo non è seguita una mobilitazione adeguata sulla generalità del conflitto. Se davvero in questo triennio in Italia e in Europa avessimo avuto come avversari e nemici solo le grandi banche private e i grandi finanzieri e industriali, con le “masse” tutte egualmente spremute e messe all’angolo, allora sì che avremmo avuto l’iradiddio. Ma così purtroppo non è.

Il cuore della crisi per l’Europa, l’Italia e l’intero Occidente

E’ davvero sorprendente che il punto di partenza strutturale della crisi economica e finanziaria sia sottovalutato, se non addirittura ignorato. Esso si incentra sulla perdita, da parte del capitalismo occidentale a guida statunitense, dell’egemonia indiscussa e universale e della possibilità, pressoché indisturbata fino ad ieri, di saccheggiare le ricchezze del restante mondo senza trovare ostacoli. E’ dalla profonda crisi del dominio incontrastato dell’imperialismo USA e dei suoi alleati subordinati che si deve partire per intenderne le conseguenze a catena.
L’ultimo decennio ha visto un processo inarrestabile di autonomizzazione, recupero delle proprie ricchezze e della gestione del capitale “pubblico” statale da parte di un numero rilevante di paesi: e nel contempo ha registrato la crescita poderosa di economie estranee al mondo occidentale (Nord America, Europa, Giappone) che, oltre a produrre a buon mercato e con prezzi ultra-competitivi rispetto alla media occidentale, hanno sfondato anche il muro della qualità nelle produzioni più importanti e innovative.
Il ruolo della Cina è conosciuto oramai da tutti quando si parla di produzioni a prezzi stracciati che invadono il mondo; meno noti sono i suoi enormi progressi nei prodotti di avanguardia e tecnicamente sofisticati, nella ricerca e sperimentazione scientifica, nel controllo monopolistico di materie prime cruciali come le cosiddette “terre rare” e, infine, nella diffusione di un neo-imperialismo soft, di tipo relativamente nuovo (anche se in parte somigliante a quello sovietico d’antan) che diffonde la longa manus del capitalismo di Stato cinese in Africa come in America Latina, sottraendo spazi consistenti alla triade Usa-Europa-Giappone. L’India non è allo stesso livello (soprattutto per la produzione di massa a basso prezzo e per la diffusione imperial-soft), ma quantitativamente ha contribuito nell’ultimo decennio all’operazione di ridimensionamento degli imperialismi dominanti e dei loro spazi di saccheggio.
Sulla stessa scia Sud-Africa e ovviamente Russia, una volta ripresasi relativamente dal tracollo dell’Urss; e lo stesso vale per i due terzi dell’America Latina, che ha cessato da parecchio di essere “il giardino Usa” e che, dal Brasile al Venezuela, dalla Bolivia all’Ecuador, seppure in forme diverse, va recuperando i propri capitali nazionali e le proprie ricchezze gestendoli con forme da capitalismo di Stato o con una forte presenza di esso. E si potrebbe continuare con il Vietnam e tanti altri stati dell’ex-Terzo Mondo e nell’immediato futuro assai probabilmente anche buona parte dell’Africa, a partire dal Maghreb, potrebbe ridurre ulteriormente gli spazi per lo storico saccheggio occidentale. Il tentativo Usa di fermare questo processo con la guerra è fallito miseramente: oggi gli Usa non controllano realmente né l’Iraq, né l’Afghanistan e men che meno hanno potuto fermare con la forza l’autonomizzazione di gran parte dell’America Latina.
L’effetto epocale e globale di questo processo ha innescato il processo di crisi. Ridotti i proventi del saccheggio imperialista mondiale, e in particolare l’accesso a prezzi stracciati alle materie prime, i singoli capitalismi nazionali (di Stato e privati, intrecciati) hanno dovuto, per mantenere un livello di profitti adeguato, ridurre significativamente quella parte del “bottino” che nei decenni passati (e nei momenti migliori del welfare) era stata distribuita ai salariati e ai servizi sociali per mantenere il controllo dei settori popolari e evitarne la conflittualità.
Questo processo di riduzione selettiva, se portato a fondo, avrebbe provocato però due effetti negativi, se non opportunamente calmierato: a) la vistosa riduzione dei consumi, con effetti depressivi sulle produzioni nazionali; b) la ri-partenza di cicli di lotta sociale intensa modello anni 60-70. L’attenuazione dell’impatto è stato dunque affidata all’espansione del debito: soprattutto privato nel caso Usa, soprattutto pubblico nel caso europeo. Per un po’ la cosa ha funzionato: ma poi la gigantesca bolla cartacea e virtuale è esplosa, non solo per il suo lievitare continuo e oramai incontrollabile in quantità e qualità; ma anche perché i paesi extra-occidentali che, migliorando la propria condizione media negli ultimi anni non avevano avuto bisogno di tale indebitamento, hanno contribuito a smontare il gigantesco bluff.
Così, anche i migliori intenti europei e le convergenze tra i capitali di Stato e privati delle singole nazioni, che per un certo periodo avevano fatto credere che dalla semplice unione monetaria si potesse arrivare ad un continente davvero unificato sul piano politico e economico, sono progressivamente venuti meno e ognuno si è ritrovato a difendere e rappresentare soprattutto gli interessi, tra di loro conflittuali, dei vari capitali nazionali.
In tal quadro, continuare a parlare di crisi globale è del tutto improprio. I paesi emergenti succitati, dalla Cina all’India, dal Brasile al Venezuela, dalla Bolivia al Vietnam e altri, in Estremo Oriente o addirittura a due passi da noi la Turchia (che evitandosi per sua fortuna il tanto desiderato ingresso in Europa ha registrato l’anno scorso il record di incremento del PIL superando con uno sbalorditivo 12% anche la Cina), e persino in molti paesi africani, hanno migliorato le proprie condizioni, accelerato o mantenuto costante la propria crescita economica e anche la diffusione di un certo benessere tra le classi medio-basse.
Gran parte di questi paesi lo ha fatto affidando un ruolo centrale (o importante) al capitale statale nazionale che ha trovato misure di alleanza efficace con il capitale privato, basate su un keynesismo di ritorno, che, mentre ha garantito tassi di profitto adeguato ai capitali privati, ha distribuito reddito e servizi sociali a settori di popolazione significativi, allargando dunque il mercato interno, anche come forma di prevenzione da un eccesso di dipendenza dalle esportazioni e dunque dagli effetti potenziali della crisi occidentale. Certo, l’eventuale tracollo verticale dei paesi PIIGS provocherebbe una crisi ancora più drammatica che, oltre l’Occidente, finirebbe per coinvolgere anche queste economie: ma ritengo che gli effetti su di esse, proprio per le scelte compiute finora di forte intervento statale e di allargamento del mercato interno, sarebbero ben meno pesanti che da noi.
Il risultato finale (ultimi tre anni) di questo processo è ora evidente: la riduzione del “bottino” complessivo, non compensata più dal mega-bluff finanziario, ha comportato l’esplosione del conflitto su chi debba pagare tale riduzione ad Occidente. In prima battuta tutti gli Stati europei ed Usa hanno deciso che dovessero essere i settori popolari a pagare e che banche, gruppi finanziari, grandi industrie e borghesie di Stato e private dovessero essere salvati. Ma ora la cosa si sta facendo ancor più pesante perché è evidente che l’Occidente non riprenderà più le posizioni perse e che il “malloppo” a disposizione si andrà casomai riducendosi ulteriormente.
Il conflitto inter-capitalistico tra Stati a cui assistiamo oggi è serio ma avviene, purtroppo, in assenza di un significativo conflitto di classe che costringa Lor Signori almeno a stringere la cinghia per sopravvivere nel loro ruolo, pagando per una volta loro (o almeno anche loro). Le due vie che si confrontano soprattutto in Germania (lo Stato-guida, il più forte economicamente e strutturalmente, quello con il maggior equilibrio tra capitale di Stato e privato: e quello da cui in gran parte sono finora dipesi tempi e modalità della crisi in Europa) sono le seguenti: a) la crisi va pagata, più o meno, da tutti i settori popolari e salariati europei, ivi compresi quelli dei paesi “virtuosi”; la tentazione di far pagare solo quelli dei PIIGS è forte ma si ritorcerebbe contro la stessa Germania , che, oltre a dover poi sopportare il prezzo dei default PIIGS, si troverebbe (in caso di ritorno alle monete nazionali da parte dell’area mediterranea) a vedersi ridurre assai i propri mercati europei; b) preserviamo relativamente dalla crisi i popoli (ivi compresi salariati e settori più deboli) “virtuosi”, e quello tedesco in primis, e scarichiamo tutto il prezzo su quelli mediterranei; ci sarà una fase di turbolenze, qualcosa pagheremo come capitale di Stato e privato, ma poi ripartiremo senza una zavorra oramai irrecuperabile.

La lotta tra penultimi e ultimi e le divisioni “in seno al popolo”

Forse mai i settori popolari e disagiati avevano tanto pagato (in parte qualcosa di equivalente si è avuto in Italia durante il processo traumatico di ingresso nell’euro) una crisi. E, peggio, la risposta non è stata minimamente adeguata alla tregenda, e di certo molto più flebile di quanto noi stessi nel 2008 potessimo prevedere.
Ho già segnalato nel controllo assillante delle caste di Stato, con le loro poderose strutture di assorbimento della conflittualità (l’intero sistema partitico, schierato tutto nello stesso modo in ogni paese europeo; la gestione oligarchica dell’informazione; la diffusione clientelare di piccoli e grandi ammortizzatori sociali, individuali o di gruppo, di clan o di mafia; l’economia criminale, soprattutto in Italia, più che mai efficiente e in salute malgrado la crisi; la struttura di compensazione familiare ecc…) una gran parte delle ragioni di questo assopimento.
Ma un ruolo quasi equivalente lo ha giocato quella che ho definito sindrome da Impero romano in decadenza, cioè la forte identificazione nazionale anche dei settori sociali più tartassati e disagiati nella convinzione, diffusa dal padronato privato e di Stato, che siamo tutti sulla stessa barca, che è, a mio parere, l’altro grande elemento che spiega il vistoso arretramento dell’anticapitalismo, dei conflitti del lavoro e dei livelli di difesa e di garanzia per i salariati e i settori popolari in Italia e in gran parte d’Europa.
Si tratta in definitiva di profonde motivazioni di tipo strutturale, legate allo smottamento avvenuto nelle economie capitalistiche europee che, ancora una decina di anni fa, sembravano poter giungere ad una integrazione continentale per rendere l’Europa una potenza unita, economicamente e politicamente, in grado anche di superare il dominio degli USA e lasciare a debita distanza le nuove economie emergenti affacciatesi alla competizione capitalistica mondiale.
Elemento rilevante nell’ultimo quinquennio è stata invece la disgregazione di questa prospettiva pan-europea e la ri-chiusura nell’ambito nazionale degli orizzonti delle classi e dei ceti sociali e politici. Il venir meno dell’obiettivo di una reale unificazione politica, economica e sociale, dopo quella fittizia della moneta unica; il declino dell’egemonia economica statunitense con l’irrompere nella competizione tra le potenze capitalistiche di nuove forze rampanti, in grado di ridurre gli spazi per l’Europa o meglio per una parte dei suoi Stati; i processi di de-localizzazione produttiva ad Est e a Sud e di dumping sociale, operato malgré soi dalla dilagante migrazione umana dal Sud del mondo; la profonda debolezza strutturale di molti capitalismi privati europei, e di quello italiano in particolare, una volta ridottosi il sostegno delle stampelle del capitale di Stato e la possibilità di spoliazione dei paesi del Terzo Mondo: tutti questi potenti elementi, frullati in un triennio di traumatica crisi economica e finanziaria, hanno favorito enormemente il ri-affermarsi in Europa del concetto di comunità nazionale come entità inter-classista e a-conflittuale di milioni di individui collocati sulla stessa barca dei capitalismi nazionali, sballottata nel tempestoso mare della feroce concorrenza inter-capitalistica, nel bel mezzo di un universale “mors tua vita mea” per uscire dalla crisi a scapito degli avversari/concorrenti delle altre nazioni.
Ad esempio in Italia, negli ultimi anni il leit-motiv comune e bipartisan di Confindustria e governo Berlusconi, da una parte, e del centrosinistra e dei sindacati confederali dall’altra (malgrado le polemiche, i battibecchi e la conflittualità a puro fine di egemonia politico-sindacale tra Cisl-Uil e Cgil, e nonostante l’antiberlusconismo di facciata dell’”opposizione” parlamentare) è stato quello della coesione nazionale, della difesa del sistema Italia, del pieno coinvolgimento collettivo –escludente dunque conflittualità sociale e scontri di classe – nella difesa e rilancio del capitalismo nazionale, “pubblico” e privato, come unica arma per sopravvivere nello scontro mondiale tra capitali e potenze statuali esploso fragorosamente dopo l’esplicitarsi della crisi del sistema.
Tutti insieme, i poteri economici, politici e mediatici, di Stato e privati, hanno lavorato convergentemente per far prevalere a livello popolare la sindrome da Impero Romano in decadenza. Se osserviamo con attenzione il pauroso dilagare in Europa di partiti nazi-fascisti, ultra-razzisti, xenofobi, islamofobici e reazionari - che oramai la infestano tutta, dall’ex-civilissimo Nord Europa scandinavo, passando per un centro-Europa sempre più “bruno” e un Est dove il tradizionale antisemitismo è stato riciclato in chiave anti islamica, fino ai paesi mediterranei che, con l’Italia leghista e la Francia di Le Pen, non sono secondi a nessuno - possiamo vedere che, pur con le dovute differenze, alla radice di tale devastazione c’è proprio una sindrome del genere.
E cioè la diffusa convinzione che ci sia una comunanza di interessi tra patrizi e plebei di ogni nazione nella spietata concorrenza internazionale e nella difesa di alcuni benefici da civis romanus, ostile alla pressione di chi spinge alle porte dell’Occidente per entrare a godere di alcuni di questi benefici: quei barbari extracomunitari migranti che dal Sud e dall’Est premono su una Europa che si vive sempre più come fortezza assediata non già, come nel precedente storico dell’Impero romano, da forze aliene che intendono distruggerla ma di masse di diseredati che vogliono reclamarvi la propria parte di ricchezza e di beni sociali.
In tale direzione, non possiamo sottovalutare il fatto che in questi due ultimi decenni, in Europa e in Italia, settori consistenti di salariati e di ceti popolari hanno approvato, o non hanno contestato, le politiche razziste e xenofobe. Milioni di lavoratori dipendenti europei sono stati parte attiva di una terrificante lotta tra penultimi e ultimi della società, cercando di fare barriera contro i più sfortunati omologhi del Sud del mondo e dell’Est europeo, nel timore di essere da questi ultimi scavalcati nella scala sociale e precipitati nei posti più infimi di essa.
Il grande terremoto produttivo degli anni Ottanta e Novanta, lo sgretolarsi delle roccaforti industriali proletarie, la trasmigrazione di campo in massa delle forze politiche e sindacali che avevano sostenuto ed organizzato la classe operaia e i salariati nel Novecento, il conseguente venir meno della solidarietà di classe e di ceto, assieme ad un vasto lavorio ideologico e culturale dei mass media, hanno progressivamente tolto al lavoro dipendente e subordinato le speranze di poter ottenere vittorie nel conflitto sociale con il padronato privato e “pubblico”.
Anzi, via via – e in Italia a partire dal Nord e dall’affermarsi della Lega come partito al tempo padronale e popolare – molti salariati hanno interiorizzato la convinzione che tale conflitto finisse per essere esiziale per la già scassata e pencolante barca Italia: se mettete in difficoltà i conduttori della “barca” – è stata la litania dei corifei del Capitale nazionale – essa affonderà, dovendosi già destreggiare a fatica nei marosi dei conflitti economici mondiali e non potendosi permettere una ciurma insubordinata e non collaborativa; ma i padroni della barca si metteranno comunque in salvo con i loro potenti motoscafi e si dirigeranno verso altri lidi, mentre voi, forza-lavoro subordinata, non avrete scampo e affonderete con la barca.
Dunque, convinti a non dirigere la lotta di classe verso chi stava sopra di loro, molti settori popolari hanno riversato la propria impotenza contro chi stava sotto, gli ultimi arrivati. Ed è forse questo il segnale più rilevante della pesante sconfitta degli antagonisti del Capitale, dei difensori della forza-lavoro salariata, dei sostenitori dell’egualitarismo, della solidarietà sociale, della prevalenza dei beni comuni sull’accumularsi dei beni privati: non aver saputo impedire il manifestarsi di questa suicida lotta “in seno al popolo” e tra i ceti più diseredati timorosi di scendere ulteriormente nella scala sociale.
Però, l’acutizzarsi ulteriore della crisi potrebbe modificare radicalmente questo panorama: e lavorare per ricostruire la più ampia alleanza possibile tra i salariati (precari e “stabili”, stanziali e migranti) e tra i settori popolari più deboli e indifesi in particolare, dovrebbe essere in cima a tutte le nostre preoccupazioni, programmi ed iniziative.

A proposito di alcune proposte di uscita dalla crisi

Con l’accelerare e l’acutizzarsi della crisi, nelle ultime settimane in Italia si è accesa una vivace discussione sulle possibili vie d’uscita. Ma la cosa piuttosto sorprendente è che alcune delle proposte più impegnative sono state avanzate come se, malgrado l’universale riconoscimento della attuale vistosa debolezza delle forze anticapitaliste e antisistema, la possibile gestione di passaggi anche assai traumatici sia alla portata di mano di queste ultime. Mi riferisco in particolare alle proposte, necessariamente connesse, del non pagamento del debito “sovrano” e della inevitabile uscita (o espulsione) dall’euro.
In quanto alla proposta del non-pagamento dell’euro essa è stata per lo più accompagnata da vari distinguo o graduazioni diverse di tale non pagamento. Senza seguire tutte le sfumature, possiamo dividerla in tre filoni: a) una “semplice” moratoria nel pagamento, una forma aggiornata di consolidamento del debito; in altri termini non un rifiuto di pagare ma il rinvio del pagamento a tempi migliori; b) un non-rimborso parziale che faccia distinzione tra i possessori dei titoli di Stato e escluda da esso i titoli in mano alle famiglie, ai piccoli possessori; c) un non-rimborso che però escluda, oltre le fasce succitate, almeno una parte dei titoli interni ai fondi-pensione e anche in certi casi ai fondi di investimento a carattere nazionale, o prevalentemente tale.
Si potrebbero già fare osservazioni rilevanti su queste tre opzioni, anche se, come vedremo, l’obiezione principale riguarda l’inevitabile uscita (o espulsione) dall’euro che almeno le soluzioni “b” e “c” comporterebbero di certo. Sulla opzione “a” direi che appare del tutto inutile non solo per risolvere ma anche per attenuare la crisi. Non va dimenticato che la premessa per non pagare un debito dovrebbe essere almeno il non dover essere costretti a rifarne un altro, e persino più grosso, il giorno dopo che ti sei dichiarato insolvente. Ora, delle due l’una: o la moratoria/consolidamento riguarda tutti (anche i piccoli risparmiatori e possessori di titoli di Stato, quelli che sono inseriti nei fondi-pensione ecc..) e allora con altissima probabilità ci si ritroverebbe con una possibile rivolta anche di fasce popolari; oppure si restituiscono quelli ma al momento di ristipulare il debito per coprire il mancante, le condizioni sarebbero ancora peggiori.
E’ bene ricordare che secondo i vari calcoli che abbiamo letto, la fascia del debito in mano alle famiglie italiane sembrerebbe avere un margine di oscillazione non piccolo: c’è chi dice 8-9% e chi arriva al 15%. Ma se ci aggiungiamo le parti che riguardano i fondi-pensione e anche alcuni fondi di investimento minori credo si vada ben oltre e si possa arrivare realisticamente almeno intorno al 25%, al cui interno fare distinzioni di reddito, per escludere o includere nel pagamento del debito, mi sembrerebbe assai complicato.
Comunque sia, le soluzioni “b” e “c” comporterebbero inevitabilmente l’uscita/espulsione dall’euro: e credo dunque che sia inevitabile prendere in considerazione cosa possa significare un tale passaggio indubbiamente a forte traumaticità. Ho già detto all’inizio che è singolare come, tra chi avanza esplicitamente tale proposta oggi per niente fantascientifica (la disgregazione dell’euro è comunque una delle possibili ricadute della crisi in Europa, che ovviamente comporterebbe o il ritorno di ogni paese alle monete nazionali o un complicatissimo ventaglio di euri di serie A, B e magari anche C) ci sia sullo sfondo quasi la speranza che il trauma potrebbe essere attenuato, o almeno avere effetti positivi a medio e lungo termine, attraverso una gestione governativa pressoché anticapitalista o almeno antiliberista.
E’ evidente che se una chance del genere fosse nel novero delle cose possibili (e oggi vi siamo a mille miglia, almeno in Italia) l’uscita dall’euro sarebbe inevitabile, nel senso che un governo del genere, che non rispettasse i diktat dei capitalismi di Stato e privati europei, verrebbe semplicemente espulso non solo dall’area monetaria-euro ma dall’intera Unione Europea.
Ma se escludiamo, almeno tra gli orizzonti oggi realistici, questa ipotesi, dobbiamo valutare cosa significherebbe l’uscita dall’euro con un governo capitalista e borghese, che sia gestito in Italia magari dall’attuale centrosinistra.
1) Il ritorno alla moneta nazionale, collegato al non-pagamento di gran parte del debito sovrano, comporterebbe innanzitutto una fortissima svalutazione della nuova moneta. In prima battuta tale svalutazione colpirebbe soprattutto i piccoli e medi risparmiatori: e se è vero che negli ultimi anni i possessori di titoli di Stato tra questi ultimi sono calati a causa dei bassissimi rendimenti, il risparmio delle famiglie a medio-basso reddito non è sparito. Il grande punto di forza e di tenuta del sistema italiano è sempre stato il nucleo familiare: è quello che sostiene il precario a bassissimo reddito, quello che attenua la disoccupazione di un membro della famiglia, quello che ha proprietà immobiliari magari di origini contadine o tramandatesi nel tempo. Se non osserviamo i singoli ma, per così dire, le famiglie allargate, appare impossibile che la maggioranza di esse non abbia nulla da perdere in un vistosa svalutazione.
2) Certamente la forte svalutazione comporterebbe l’accresciuta competitività dei prodotti italiani venduti all’estero: ma altrettanto (e forse di più vista la grande dipendenza italiana da materie prime straniere) in crescita sarebbero i costi delle importazioni. Questi verrebbero scaricati da chiunque abbia qualcosa da vendere (forza-lavoro esclusa) sui consumatori, aggravando penosamente le condizioni di tutti quelli a (basso) reddito fisso e ancor più di coloro che redditi stabili non ne abbiano. Né il ripristino (che peraltro solo un governo popolare accetterebbe) della scala mobile così come è esistita in passato risolverebbe il problema, perché creerebbe una ulteriore divisione nei confronti di coloro senza lavoro stabile, stanziali e migranti, giovani e meno giovani. Il risultato finale, in qualsiasi caso, sarebbe una fortissima inflazione a due cifre (e pure alte) e conseguenti ulteriori divisioni tra i settori popolari e un malcontento generalizzato più o meno nella gran parte della società.
3) La fuoriuscita, di propria iniziativa (ben altro sarebbe una vera e propria espulsione), dall’euro e il non pagamento di un debito sovrano in buona parte sì in mano a banche e gruppi finanziari esteri, ma che a loro volta coinvolgono anche settori non trascurabili di cittadini europei salariati o a medio reddito, accentuerebbe le divisioni europee, già forti per quanto fin qui detto, anche tra i settori potenzialmente ostili alla gestione neoliberista della crisi. In ogni caso un panorama di alleanze a livello continentale di certo non ne sarebbe agevolato ma reso ancora più difficile.

La crisi va pagata da chi l’ha provocata

Tutte le considerazioni precedenti portano a dire che non possa essere questa la via maestra: nella migliore delle ipotesi cadremmo dalla padella nella brace, e per giunta saremmo stati noi ad aver auspicato qualcosa del genere, che poi nei fatti verrebbe affidato alla gestione di governi per nulla dissimili da quelli attuali, a meno di insurrezioni di portata epocale che vadano persino oltre i livelli delle rivoluzioni/rivolte del Maghreb, e delle quali per ora non abbiamo serio sentore.
Il che lascia credere che si debba affrontare di petto quella che al momento è la difficoltà maggiore: e cioè la necessità di una vastissima alleanza sociale, politica, sindacale e popolare, a livello nazionale e internazionale, che modifichi radicalmente i rapporti di forze tra classi e ceti nel nostro continente (e comunque in Italia) e faccia diventare realistica l’unica parola d’ordine che finora ci ha visti tutti uniti, a livello nazionale ed europeo, e che abbiamo modulato in varie forme ma non dissimili: “noi la crisi non la paghiamo” e, conseguentemente “la crisi va pagata da chi l’ha provocata”.
Questo significa imporre rapporti di forza che rendano realistici e attuabili:
1) una vera patrimoniale incisiva che, tenendo conto di calcoli pur prudenti che parlano di almeno 5000 miliardi di patrimoni in mano alle fasce più ricche della società italiana, darebbe un gettito vistoso: anche una tassazione assai ridotta al 2% fornirebbe 100 miliardi annui, circa il doppio dell’attuale Finanziaria;
2) il ripristino di una vera tassazione progressiva sui redditi, che incida almeno tra il 40 e il 50% sui redditi più alti, sgravando sensibilmente quelli più bassi;
3) una seria tassazione delle transazioni finanziarie, quella Tobin Tax (ma con ben altre quote di tassazione) che, auspicata fortemente dal movimento altermondialista, oggi pare si stia facendo strada anche nelle intenzioni dei principali Stati, anche se, almeno da quanto dichiarato, con quote irrisorie rispetto alle necessità di tagliare le unghie sul serio alla speculazione internazionale;
4) la drastica riduzione delle spese della politica istituzionale (strutture amministrative inutili, stipendi di tutta la casta da tagliare vistosamente, benefit e pensioni “d’oro” da eliminare, consulenze e appalti politici da cancellare, mafie politiche e corruzione dilagante da portare a livelli minimi);
5) il recupero almeno di una parte significativa della gigantesca evasione fiscale, che si aggira secondo stime attendibili intorno a 400 miliardi annui: anche qui mettere mano fosse pure solo sul 20% di tale evasione garantirebbe un valore pari ad un paio di Finanziarie annue medie;
6) l’abbattimento delle spese militari, con l’eliminazione delle missioni di guerra e la riduzione ai minimi dei bilanci delle strutture interne;
7) il riassorbimento dei capitali dei Fondi pensione nel sistema previdenziale pubblico, da considerare anch’esso bene comune, per permettere la restituzione di pensioni dignitose a tutti/e.
Sarebbero sufficienti anche solo questi interventi per recuperare cifre colossali, oscillanti intorno ai 400 miliardi annui con i quali reinvestire pienamente in servizi sociali e beni comuni, introdurre forme di reddito minimo garantito, restituire pensioni decenti. Programmi simili potrebbero essere fatti propri da molte aree conflittuali negli altri paesi europei e non dovrebbe essere difficile nei prossimi mesi arrivare a piattaforme convergenti, a partire dall’auspicabile e cruciale successo della giornata del 15 ottobre, la prima dall’esplosione della crisi che registri una vera convergenza europea di mobilitazione significativa con milioni di persone probabilmente in piazza in contemporanea.
Ma, oltre al programma economico-sociale, altrettanto cruciale è il tema della democrazia reale. Smettere di affidare ad improbabili opposizioni di “sinistra” o centrosinistra la soluzione dei problemi della crisi è oramai un invito che viene da tutte le piazze “indignate” di Europa. Le forme di una democrazia reale, che scavalchi le borghesie di Stato europee convergenti e colluse sul piano della rappresentanza politica nel balletto tra destre e sinistre, sono tutte da inventare e da sperimentare. E’ decisivo però che si instauri una vera indipendenza politica, rispetto a tutte le caste dominanti nei Parlamenti e nelle istituzioni europee, da parte dei movimenti e delle reali opposizioni sociali antiliberiste e antisistema.

Piero Bernocchi
Confederazione Cobas

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