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In tempo di crisi la violenza contro le donne è prima di tutto economica

(26 Novembre 2011)

La violenza contro le donne è uno dei modi che hanno il patriarcato e il capitalismo di confermare il loro potere in tutto il mondo. E parliamo non solo di comportamenti individuali, con maltrattamenti che vanno dalle percosse all’omicidio, ma anche di pratiche tradizionali che recano danno alle donne: mutilazione dei genitali femminili e l’ereditabilità della moglie (la pratica di trasmettere in eredità la vedova e tutte le sue proprietà al fratello del marito deceduto), di vessazioni sessuali e/o psicologiche, economiche, come il rifiuto di concedere soldi in famiglia, rifiuto di contribuire finanziariamente alle esigenze di donne e bambini, privazione del cibo e dei bisogni di base, controllo dell’accesso all’assistenza sanitaria, all’occupazione, decurtazione degli stipendi, conti correnti unici a gestione del marito in cui confluiscono gli stipendi di entrambi i coniugi, case intestate al solo marito, ecc. fino a atti di omissione, quali le discriminazioni nell’alimentazione, nell’istruzione e nell’accesso all’assistenza sanitaria dovute al sesso di una persona, contro le donne e le bambine, in tutto il mondo.

Il tema della violenza sulle donne è diventato soltanto da pochi anni oggetto di dibattito pubblico, tanto che ancora oggi si registra, soprattutto in alcune realtà, la carenza di efficaci politiche, di ricerche, di progetti di sensibilizzazione e di formazione, di contrasto alla violenza alle donne.

Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che la violenza contro le donne è endemica, nei paesi industrializzati come in quelli in via di sviluppo; le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali.

Ma la crisi accentua una già difficile situazione economica delle donne. Influisce negativamente nelle situazioni in cui le donne sono state espulse dal contesto di lavoro, quelle situazioni in cui le donne non hanno mai lavorato perché legate alla cura di bambini o di anziani, a sostenere quel welfare familiare di cui si è negli anni dotato anche il nostro paese con politiche di smantellamento dei diritti sociali.

Chiuse nella famiglia, private dal proprio stipendio e dalle soddisfazioni di un lavoro che permette l’emancipazione dallo spazio domestico, il confronto con altre donne e con altri uomini, le donne sono sempre di più soggette alla violenza di genere che si acuisce quando ad una visione stereotipata di disvalore del femminile (ipersessualizzato o riportato al ruolo materno) si unisce un quadro economico di perdita di forza contrattuale al lavoro, quando le famiglie all’assenza di sostegno pubblico ai propri bisogni devono affrontare la perdita di capacità di acquisto, i soggetti più deboli dentro la famiglia - le donne che non lavorano o che hanno lavori part-time o che hanno lavori in nero - rischiano di essere le prime ad essere private di quel potere contrattuale per decidere liberamente sulla loro vita e su quella degli altri familiari ancora più deboli e che da esse dipendono - a fronte di decisioni che si concentrano sempre di più sul capo-famiglia, su chi porta a casa lo stipendio, ed è riconosciuto come l’interlocutore sociale.

E la crisi colpisce le donne che lavorano più degli uomini, perché i tagli ai servizi pubblici colpiscono maggiormente le donne e i pur risibili tentativi di conciliazione dei tempi di vita, che continuano a vedere sulle donne riversato la stragrande maggioranza del lavoro di cura, dai figli/e agli anzian* ai nipoti, oltre al "normale" lavoro domestico.

E sulle donne, se migranti, si scaricano tutte le contraddizioni materiali e simboliche: vittime di tratta, maggiormente indifese nei confronti di qualunque tipo di violenze, di abuso e di ricatto anche da un punto di vista lavorativo, nel chiuso delle case come sulle strade e nelle fabbriche.

In questo quadro le politiche contro la violenza che vanno ad incidere solo sul fenomeno fisico o psicologico ma che non promuovono percorsi virtuosi di rimozione dei motivi della violenza stessa (culturali, etici, economici), le politiche che non pongono le donne al centro della preoccupazione di giustizia sociale e di equità economica sono miopi e non possono modificare a fondo il quadro.

E sulle donne si continua ad esercitare la violenza di uno Stato che, in Italia, continua ad attuare politiche repressive di controllo sociale, limitando di fatto l’accesso alle scelte riproduttive alle famiglie e non garantendone l’accesso agli individui.

Alla violenza dei singoli, del sistema economico, dello Stato si può e si deve reagire con la solidarietà, con la partecipazione attiva, con il rilancio dell’attività e dell’impegno femminista e il contrasto alle scelte di governo economico, con la valorizzazione reciproca delle competenze e con una sana, reale e costruttiva esplosione di rabbia collettiva e individuale, per riprenderci questa metà del cielo (e della terra) e il diritto per tutte a una vita degna, libera e consapevole.

25 novembre 2011

Commissione etiche e politiche di genere Federazione dei Comunisti Anarchici

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