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Erdogan torna all'ovile occidentale e punta a leadership regionale

Ankara annuncia dure sanzioni economiche contro Damasco, ex alleato e partner commerciale. Il suo obiettivo è conquistare la leadership regionale ed essere allo stesso tempo riferimento delle potenze occidentali.

(1 Dicembre 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in nena-news.globalist.it

Erdogan torna all'ovile occidentale e punta a leadership regionale

foto: nena-news.globalist.it

EMMA MANCINI

Beit Sahour (Cisgiordania), 01 dicembre 2011, Nena News (nella foto i due ex alleati, il presidente siriano Bashar al-Assad e il premier turco Recep Erdogan) – La Turchia annuncia le proprie personali sanzioni contro la Siria e punta alla leadership regionale. Con l’Egitto invischiato in una rivoluzione ancora viva, l’Arabia Saudita alleata fedele degli Stati Uniti e Damasco fuorigioco, Ankara sfrutta il momento e prova a ergersi a potere forte nel mondo arabo e a punto di riferimento per gli alleati occidentali.

L’annuncio è arrivato ieri per bocca del ministro degli Esteri turco Ahmet Dayutoglu: sanzioni economiche e finanziarie che mettono fine ad un’alleanza strategica lunga quasi un decennio. Innanzitutto, la Turchia sospenderà il prestito che la Turkish Export-Import Bank ha concesso al presidente Bashar al-Assad e diretto a finanziare progetti infrastrutturali in Siria. In secondo luogo, il governo turco procederà al blocco immediato di tutte le transazioni tra la Banca Centrale turca e quella siriana e il congelamento di rapporti di credito, fatta eccezione per le operazioni in corso.

Ma non solo. Ankara sospenderà i piani di cooperazione strategica con la Siria e congelerà il trasferimento di armi ed equipaggiamento militare all’esercito di Damasco. Infine, divieto per gli uomini d’affari turchi ad intraprendere viaggi in Siria per svolgere le proprie attività economiche.

Sanzioni pesanti che arrivano a pochi giorni da quelle stabilite dalla Lega Araba che, tra le varie misure adottate, ha sospeso lo status di membro della Siria. La giustificazione che il governo turco dà alla decisione di scaricare l’alleato Bashar sono le repressioni in atto nel Paese nei confronti delle proteste di piazze contro il regime alawita del presidente al-Assad.

Una repressione che l’Onu è tornata a condannare lunedì con un nuovo report sulle violenze delle forze di sicurezza governative: dall’inizio delle manifestazioni, sarebbero state uccise almeno 3.500 persone, tra cui centinaia di bambini. Il rapporto, firmato dalla Commissione Indipendente di Inchiesta sulla Siria, ha raccolto le testimonianze di 233 testimoni di omicidi e vittime di stupri e torture.

Ma se la giustificazione ufficiale fornita da Ankara è la repressione guidata da Bashar, il reale obiettivo della Turchia appare chiaro: con un Egitto ancora troppo instabile per riprendersi il suo ruolo di guida del mondo arabo, la Turchia ha di fronte a sé l’occasione di conquistare la leadership del Medio Oriente, di diventare punto di riferimento non solo per il resto del mondo arabo, ma anche per i poteri occidentali e per la Nato, di cui Ankara è membro.

Come spiega bene in un articolo dello scorso 23 novembre Ramzy Baroud, direttore di PalestineChronicle.com, la politica estera adottata dalla Turchia a partire dal 2003 (quando Recep Tayyip Erdogan divenne premier) è stata quella degli “zero problems”: obiettivo, mantenere cordiali rapporti con gli alleati storici, tra cui Israele e i vicini arabi, Siria in testa. Una politica che non era stata intaccata nemmeno dal raid israeliano contro la nave di attivisti turchi Mavi Marmara nel maggio 2010.

Manifestazioni contro il regime di Bashar per le strade della Siria

Ma a seguito della Primavera Araba e dell’instabilità interna che ha colpito i due poteri forti del Medio Oriente, Egitto e Siria, la Turchia si sta facendo avanti. Abbandonata la strategia degli “zero problems”, Ankara punta oggi alla leadership e attacca l’amico di vecchia data Bashar al-Assad, definito dallo stesso Erdogan un partner non più credibile: “La Turchia ha perso fiducia nella leadership siriana”, ha detto il premier di fronte al Parlamento a metà novembre.

Il tentativo di conquista del ruolo di guida ha spinto la Turchia ad incrementare le pressioni anche contro Israele, chiedendo ripetutamente a Tel Aviv scuse ufficiali per l’attacco alla Marmara e risarcimenti alle famiglie delle nove vittime dell’assalto. Il 2 settembre scorso Ankara ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore israeliano in Turchia e il congelamento della cooperazione militare con Israele.

Altra ragione che ha spinto Ankara all’implementazione di sanzioni economiche contro la Turchia è il timore che i settarismi e le violenze siriane possano emigrare e contagiare la Turchia, in particolare il confine a Sud Est. Il presidente siriano Bashar è rappresentante della minoranza alawita, in un Paese in cui la maggioranza della popolazione è sunnita e dove sono presenti altre significative minoranze, da quella curda a quella cristiana.

Allo stesso modo, la Turchia è patria di un simile melting pot religioso ed etnico, che il governo teme possa prima o poi esplodere. Un’eventuale guerra civile in Siria potrebbe trasformarsi nella scintilla sufficiente ad accendere le regioni più instabili nel Sud della Turchia.

Ma non tutti in Turchia sembrano contenti della decisione del governo di scaricare la Siria. Le più preoccupate sono le imprese private turche che negli ultimi sette anni hanno fatto ingenti affari con Damasco, stringendo stretti rapporti con società presenti sia nelle grandi città che a Nord della Siria, al confine con la Turchia. I dati parlano chiaro: se nel 2004, quando i due governi firmarono un accordo di libero scambio, il volume di affari era pari a circa 750 milioni di dollari l’anno, oggi ha raggiunto i 2.2 miliardi di dollari.

In ogni caso, la Siria è sempre più isolata: martedì l’Arabia Saudita ha chiesto ai propri cittadini di lasciare il Paese e ha deciso il blocco dei voli commerciali da e per la Siria a partire dalla prossima settimana. Intanto, a Gedda, si è tenuto ieri un incontro d’emergenza dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, a cui hanno partecipato quasi tutti i ministri degli Esteri dei 57 Stati membri. Obiettivo del meeting quello di costringere Damasco a fermare la repressione e le violenze contro i civili.

A ciò si aggiunge la crisi che molti settori dell’economia siriana stanno soffrendo a causa delle sanzioni imposte da Europa e Stati Uniti. In particolare, l’industria turistica e gli scambi con i Paesi dell’Unione Europea, a cui Damasco vende il 90% della produzione di greggio. Nena News

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