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(2 Dicembre 2011)
anteprima dell'articolo originale pubblicato in nena-news.globalist.it
il presidente statunitense Obama con i soldati di stanza in Iraq - foto: nena-news.globalist.it
EMMA MANCINI
Roma, 02 dicembre 2011, Nena News (nella foto, il presidente statunitense Obama con i soldati di stanza in Iraq) – Una exit strategy a metà quella che Washington sta immaginando per il 2012 in Iraq. Gli Stati Uniti invieranno alla fine dell’anno 763 contractor civili e 157 militari americani per l’addestramento e la formazione delle forze di sicurezza irachene. A spiegarne le modalità è stato mercoledì scorso il tenente colonnello dell’esercito statunitense, Tom Hanson, direttore delle comunicazioni strategiche dell’OSC-I (Office of Security Cooperation – Iraq).
La notizia del nuovo impegno americano arriva in contemporanea all’ennesimo attacco nel cuore della capitale irachena: sabato una serie di esplosioni nel mercato di Baghdad e nella periferia Ovest hanno provocato almeno 15 morti. Nelle stesse ore l’ambasciatore Usa in Iraq, James Jeffrey, ha annunciato che nel corso del 2012 gli Stati Uniti spenderanno 6,5 miliardi di dollari nel Paese per garantire assistenza sia nel campo della sicurezza che in quello sociale.
Dopo l’annuncio degli scorsi mesi di una probabile presenza militare americana in Iraq dopo il 31 dicembre 2011 attraverso basi controllate da Washington, a fine ottobre il presidente Barack Obama aveva dichiarato che alla fine dell’anno i circa 20mila militari di stanza in Iraq lasceranno il Paese. Ma solo ufficialmente. Se si attende ancora l’ok di Baghdad, il piano di mantenimento della presenza USA nel Paese appare certo: da mesi l’amministrazione Obama sta tentando diverse vie per rendere la tanto sbandierata exit strategy soltanto apparente.
Gli Stati Uniti hanno bisogno di restare in Iraq. Mantenere una presenza militare e civile nel cuore del Medio Oriente è essenziale a garantirsi il controllo della ricostruzione del Paese e delle sue ricchezze petrolifere, in cui sguazzano da anni le compagnie americane. Ed oggi arriva l’ennesimo tentativo: presenza mista, civile e militare, mascherata dalle necessità di sicurezza in un Paese ancora profondamente instabile sia a livello politico che economico e scosso da settarismi che si traducono in violenza.
In ogni caso, i numeri di cui parla oggi il tenente colonnello Hanson sono ben lontani da quelli prospettati fino a qualche mese: migliaia di truppe che avrebbero dovuto garantire la gestione di tre basi militari e l’addestramento delle forze di sicurezza irachene.
L’azione dei contractor civili e i soldati rientrerebbe all’interno del piano OSC-I e dei compiti dell’ufficio, direttamente controllato dall’ambasciata statunitense a Baghdad. “I contractor sono impegnati in diversi campi, dal rifornimento di equipaggiamento militare agli iracheni all’addestramento nell’utilizzo di mezzi quali tank, aerei e radar”, ha spiegato Tom Hanson. Aggiungendo che l’obiettivo Usa è quello di “aiutare le forze di sicurezza irachene a costruire le proprie competenze e capacità e a modernizzare gli equipaggiamenti”. I futuri trainer opererebbero in diverse basi militari, dislocate a Baghdad, Kirkuk, Basra, Tikrit, Nassiriya, Taji, Besmaya e Arbil.
I contractor che l’ambasciata americana sarà chiamata a gestire non dovranno necessariamente essere cittadini degli States: all’interno di OSC-I non mancano contractor civili di altre nazionalità, alcuni di essi iracheni. Ma il maggiore attrito tra Baghdad e Washington, in merito alla proposta americana, riguarda l’immunità: l’amministrazione Obama sta insistendo con il governo iracheno perché riconosca ai 763 contractor completa immunità dalla legge del Paese, esenzione riconosciuta già al personale militare dell’OSC-I. L’Iraq non ci sta e rispedisce al mittente la richiesta che equiparerebbe civili a funzionari di ambasciata e personale militare ufficiale.
Ad ottobre morte 250 persone per attacchi terroristici in Iraq - foto: nena-news.globalist.it
A fare pressioni su Baghdad perché accetti il piano americano, l’instabilità interna del Paese gioca un ruolo fondamentale: il governo nato dalle ceneri di una guerra e di un’occupazione militare si trova a fronteggiare una dura divisione interna tra miliziani sciiti e ribelli sunniti e l’ingombrante presenza di gruppi armati islamisti, spesso responsabili di attacchi mensili. E se si è lontani dai picchi di violenze del 2006 e del 2007, solo ad ottobre 2011 sono morti in Iraq 250 persone, tra civili, soldati e poliziotti.
Una situazione riconosciuta dallo stesso esercito iracheno: ad ottobre il tenente colonnello Babaker Zebari, capo del personale militare, avrebbe affermato che l’Iraq “non sarà in grado di coprire l’intero spettro delle missioni di difesa esterne almeno fino al 2020-2024”. A preoccupare di più, almeno a livello ufficiale, sono le eventuali minacce esterne al Paese, quasi a considerare quelle interne (la violenza derivante dallo scontro tra sunniti e sciiti) gestibili dalle forze irachene. Nena News
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