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Dignità operaia

Dignità operaia

(9 Marzo 2012) Enzo Apicella
Oggi sciopero generale dei metalmeccanici convocato dalla Fiom e manifestazione nazionale a Roma

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NOTE SULL’ASSEMBLEA NAZIONALE DEL SINDACALISMO DI BASE

(18 Dicembre 2011)

Sabato 3 dicembre si è svolta a Roma l’assemblea nazionale indetta da USB, SLAI-Cobas, Unicobas, Snater, USI, sigle del sindacalismo di base che già avevano proclamato lo sciopero generale per il 2 dicembre e che, dopo il passaggio della staffetta al “tecnico” Monti, hanno ritenuto di revocarlo e ri-programmare “il percorso” della mobilitazione nel nuovo scenario politico.


Quelle che seguono sono alcune annotazioni sul dibattito che vi si è svolto. Valgano come nostro contributo alla discussione in corso in una fase indubbiamente difficile, di repentine accelerazioni che mettono a dura prova il reale orientamento classista delle posizioni in campo e la conseguente bussola di navigazione in acque agitate, laddove confidiamo che i futuri passaggi di discussione e iniziativa possano veder raddrizzare la baracca di quanti si candidano a rappresentare l’opposizione sociale e politica (ci riferiamo in particolare al cartello “Noi il debito non lo paghiamo” che già sottoscrisse l’appello “Dobbiamo fermarli”), quando in realtà hanno messo in campo una battaglia fin troppo spuntata ed evanescente contro il governo Berlusconi, che oggi, alla prova della staffetta all’esecutivo Monti, rischia di sfociare in accenti a tinte nazional-popolari di pretesa “sinistra”.


Ma andiamo per punti.

Innanzitutto: sulla questione della revoca dello sciopero. Più di un intervento ha fatto riferimento allo sciopero generale del 6 settembre per trarre un bilancio sostanzialmente negativo della convergenza e partecipazione del sindacalismo di base a quella giornata di mobilitazione indetta dalla Cgil. Si è detto che quello sciopero non è servito a nulla, che la Cgil lo ha fatto “per dimostrare la propria esistenza”, che non si possono fare scioperi inefficaci e “a comando” per esigenze autoreferenziali di chi poi il giorno dopo firma tutti gli accordi che padroni e governo gli sottopongono.

In ciò c’è molto di vero, salvo il fatto che non si tratta soltanto e semplicemente di vertici “autoreferenziali” che riducono la mobilitazione a inefficace testimonianza, perché purtroppo si tratta inoltre della massa dei lavoratori che, quand’anche aderiscano in modo non spento alla chiamata allo sciopero (come è stato per la piazza cigiellina del 6 settembre, senz’altro più partecipata e vitale – almeno a Roma – della contemporanea e separata piazza autorganizzata), nondimeno mandano giù tutti i discorsi dei vari Camusso-Landini (“contrapposti”? non ci pare), nel senso di non sognarsi tuttora di dover prendere in mano l’iniziativa per cominciare a decidere essi stessi quando si sciopera, per cosa si sciopera, con quali obiettivi, per quali risultati, con quali mezzi e modalità adeguati ad ottenerli, figuriamoci poi con quale generale prospettiva, etc. etc..

Se di questo si tratta (e non di meri vertici concertativi...) allora il sindacalismo di base dovrebbe a maggior ragione convergere efficacemente in tutte le piazze dove sono presenti i lavoratori per prendervi in carico la comune difficoltà a muovere anche un sol piccolo passo per iniziare a mettere in discussione la fallimentare prospettiva sindacal-politica offertagli dai camussian-landiniani. Proprio perché si tratta di leadership (quelle cigiel-fiommine) che hanno chiamato una, due, tre e quattro volte allo sciopero senza aver mai fatto un solo reale tentativo per organizzare la lotta contro l’attacco padronal-governativo (essendone peraltro programmaticamente incapaci), i lavoratori “più coscienti” non dovrebbero far mancare un intervento che chiami credibilmente i lavoratori che seguono il sindacato confederale a questo bilancio, per accendere la discussione e l’iniziativa su comuni basi e interessi, per intaccare e smuovere in avanti la passiva accettazione di meri riti effettivamente inefficaci e dispendiosi (laddove è chiaro che non ci riferiamo a inutili gazzarre sotto il palco, buone per consentire ai vertici di cui sopra di consolidare la divisione tra i lavoratori, impedendo ogni passo verso l’unificazione delle forze disposte a battersi, come premessa e condizione per una lotta vera).

Detto ciò la realtà è un’altra ed evidenzia il limite della stessa inziativa del sindacalismo di base che oggi registra con preoccupazione “un generale consenso” al governo Monti e per questo revoca lo sciopero che ritiene votato al fallimento (noi più cautamente parleremmo di imbrigliamento della massa dei lavoratori, disorientata e confusa dopo la cacciata del cavaliere e l’ovazione da “sinsitra” al “tecnico” che ne prende il posto).

Nell’assemblea del 3 dicembre più di un intervento ha messo il dito nella piaga, dicendo che l’aspettativa, anche dei lavoratori, verso il nuovo esecutivo è la conseguenza dell’aver dipinto “da sinistra” il governo Berlusconi come “il male assoluto”. Noi diciamo, più precisamente, che è la conseguenza del convergere anche da sinistra, e anche dai lidi del cartello di forze cui qui ci riferiamo, su un antiberlusconismo vuoto di contenuti di classe, con relativi “ampi archi di forze” a supporto della difesa della democrazia e della costituzione repubblicana che il cavaliere avrebbe messo a repentaglio.

Se fossero stati solidi argomenti di classe a corroborare l’iniziativa contro il governo di centro-destra, argomenti certo non condivisibili con il fronte allargatissimo di tutti i “sinceri democratici” anti-berlusconiani, oggi quegli stessi argomenti varrebbero per inquadrare e disporsi contro l’attacco antioperaio promesso e promosso dal governo Monti.

Poiché invece è stato il lamento sulla violata democrazia e contro il tiranno a tenere insieme un fronte politico e sociale eufemisticamente “più che composito”, a negazione e annullamento di ogni protagonismo di classe dei lavoratori, ecco che su queste basi si è proiettati “da sinistra” innanzitutto ad accogliere il “salvatore” Monti che metterebbe fine all’ “anomalia e specificità italiana” (quella di una sorta di impresentabile neo-Mussolini capitato chissà come al governo).

La realtà è che lo sciopero del 2 dicembre, a conferma di una iniziativa assunta sulla scia dell’antiberlusconismo anche da parte della “sinistra estrema”, cadeva in un contesto in cui il cavaliere appariva ormai cotto, con i sondaggi favorevoli a un nuovo centro-sinistra e con una Cgil che, dopo lo sciopero formale (non per i lavoratori che se lo sono visto decurtare in busta paga) del 6 settembre, aveva iniziato le manovre interne ed esterne di ricomposizione di un quadro sindacal-politico “unitario e condiviso” in vista del cambio a venire (con Landini-Rinaldini che di punto in bianco annullano la “battaglia” in Cgil, e la Camusso che trova infine i compromessi giusti per riallacciare con Cisl-Uil e rieditare patti sociali “anti-berlusconiani” con Confindustria).

In questo quadro il sindacalismo di base avrebbe potuto lucrare l’onda anti-berlusconiana (in realtà si è sempre trattato di miseri spruzzi) e al tempo stesso la retromarcia finale della Cgil. L’arrivo di Monti ha però mandato tutto all’aria.

La revoca dello sciopero evidenzia che il lavoro fatto poteva andar bene per candidarsi come gli “anti-berlusconiani” più conseguenti, ma chiarisce anche che ciò non ha niente a che fare con un argine di classe, quello che già prima e ancor più adesso era ed è necessario opporre, ma al quale in questi anni nessuno ha inteso lavorare. Né, purtroppo e per quanto appresso diciamo, sembra essere questa la determinazione delle forze riunite in assemblea il 3 dicembre, le quali nondimeno devono registrare che, revocato lo sciopero, “occorre costruire” l’iniziativa dei lavoratori “senza fissare nuove date”. Per noi è fin troppo chiaro che il “vento in poppa” dell’anti-berlusconismo lascia i lavoratori, anche quelli “più coscienti” e auto-organizzati, con le ruote a terra nel momento del duro approfondimento dell’attacco.

Se ne vorrà trarre la lezione?


Pare proprio di no. All’assemblea romana lo abbiamo visto nell’ equivoco con il quale si continua a ricostruire lo scenario delle “vaste e convinte mobilitazioni” che avremmo alle spalle (...e che immettono però, guarda caso, alla revoca dello sciopero).

Nell’appello “Dobbiamo fermarli” leggevamo che “da più di un anno in Italia cresce un movimento di lotta diffuso...una vasta e convinta mobilitazione che ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi”, sicché “la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico ha raggiunto la maggioranza del paese”.

Abbiamo già messo alla berlina questa enfasi (vedi sul nostro sito “ Dobbiamo fermarli’: ma sarebbe questo il posto di blocco?)”, che volutamente confonde il piano di un vero movimento di lotta, assente sul terreno reale dei rapporti di forza tra le classi, con le maggioranze conseguite e conseguibili sul ben diverso ed evanescente piano delle votazioni elettoral-referendarie e annessi sondaggi su votazioni future.

Ora però, all’atto di revocare lo sciopero, si ammette che “in Italia, a differenza di altri paesi, manca una risposta forte, ci sono condizioni di difficoltà e il movimento operaio non tiene il passo della mobilitazione e della lotta che invece i lavoratori sono in grado di assumere altrove in Europa”, si registra “la fase di bassa partecipazione e di difficoltà che stiamo attraversando”, etc. etc..

E allora perché negli appelli si scrive il contrario? E forse utile contraddirsi? Forse si attrezzano politicamente i lavoratori e ci si prepara alla lotta con confuse contorsioni che, ben oltre quella che potrebbe essere una comprensibile enfasi agitatoria, registrano in modo posticcio, a scapito finanche della logica, il cosiddetto denominatore che sarebbe comune a quanti le sottoscrivono e dove gli appelli alla lotta sono contraddetti al rigo successivo, dove implicitamente si sostanzia che la lotta non serve perché invece è sufficiente vincere referendum ed elezioni?

Ma in alcuni interventi, dicevamo, registriamo il corto circuito. Gli studenti rivendicano di aver fatto “una opposizione dura e radicale al governo Berlusconi” e ora promettono altrettanto a Monti. “Certo oggi si pone il problema del consenso”, visto che “Repubblica oggi è interamente schierata con Monti” (per dire di quali alleati si sarebbe avvalsa la “radicale opposizione degli studenti”!). Poi però lo stesso studente ammette che “c’è assenza di movimenti sociali e una depressione della mobilitazione” (insomma: lotta “dura e radicale” o depressione della mobilitazione? opposizione dura e radicale degli studenti ma depressione di tutti gli altri o cos’altro? Viene da chiedersi se si prenda sul serio quello che si dice!).

Ma il clou arriva quasi alla fine quando apprendiamo che “grazie alla spinta del 15 ottobre hanno tolto Berlusconi e messo Monti” (allora Monti sarebbe buono?! fesserie a parte sulla spinta del 15 ottobre che avrebbe defenestrato il cavaliere). Qui non si tratta soltanto di “vaste mobilitazioni” e “maggioranze già conquistate alla nostra parte” perché sarebbe anche all’ordine del giorno (in un certo senso conseguentemente alle bufale poste a premessa) il “governo di emergenza popolare” quello fatto “dalle forze presenti in questa assemblea”. D’altra parte “se Monti l’hanno messo al governo senza votare, non possiamo anche noi essere messi al governo senza votare?”. Da un lato si dice che qualcuno “dovrebbe metterci al governo”, dall’altro lo farebbe perché incalzato dall’ “emergenza popolare”. Questa sarebbe “l’unica possibilità che abbiamo per fare un governo nostro, che non ci farebbe pagare il debito”, un governo “dove ministro del lavoro sarebbe il segretario nazionale della USB, il quale certo poi non firmerebbe l’accordo con Marchionne”. Quindi “dobbiamo costruire e instaurare il nostro governo, con le buone o con le cattive” (dove l’avvertimento più che alla borghesia e allo Stato, sembrerebbe rivolto a una stralunata platea silente).


Superato il disagio di una discussione così confusa da ammettere al tempo stesso “depressione della mobilitazione” ed “estrema sinistra (da operetta...) al governo”, con interventi che si susseguono tranquillamente sull’uno o sull’altro tasto e qualche volta suonando i due tasti assieme, arriviamo al primo nodo politico. Un delegato operaio dello SLAI Cobas ha ripreso il leitmotiv della “opposizione anti-berlusconiana” denunciando “le modifiche della democrazia” in corso. “La democrazia – ha detto – è un bene immateriale, che non si mangia, per questo quando ti riducono la democrazia, solo dopo ti accorgi che invece la democrazia è qualcosa che si mangia”. Oggi la riduzione della democrazia passa per “l’azzeramento della democrazia in fabbrica”, laddove “non si vota il rinnovo delle RSU a Pomigliano, così come non si vota per mandare al governo il ’tecnico’ Monti”. Lo stesso lavoratore aggiunge che “anche la politica è qualcosa che si mangia” e conclude: “noi abbiamo bisogno di un’attività sindacale e politica di classe”.

E’ giusto e doveroso che un’assemblea dove sono convocati i rappresentanti del sindacalismo di base metta al centro la questione dell’agibilità sindacale nei posti di lavoro, della libertà di organizzare i lavoratori nelle fabbriche e negli uffici per potersi difendere collettivamente e lottare.




E’ sacrosanta la denuncia della repressione che colpisce quanti nei luoghi di lavoro organizzano i lavoratori (vedi l’intervento del delegato di Ascoli Piceno licenziato per questo). Siamo i primi a non sottovalutare e a prendere in carico questa battaglia.

Quello che contestiamo è che essa viene svilita se assunta in nome della “costituzione repubblicana”. Quello che contestiamo è che la “politica di classe” di cui i lavoratori hanno bisogno di cibarsi possa mai essere quella che si riassume nella petizione della democrazia. Noi in questo vediamo piuttosto la debolezzza (e, francamento detto, l’attuale nullismo politico) del proletariato, l’effettiva rinuncia alla propria politica di classe, quand’anche formalmente evocata, l’illusione che la difesa dei lavoratori possa passare per altre più facili (in realtà disarmanti) vie.

La denuncia della repressione nei posti di lavoro non trova il suo naturale alveo di collocazione, gli attesi riconoscimenti e la generale presa in carico (financo da parte delle istituzioni che a ciò sarebbero preposte), perché si dimostra invece inane e perdente lamento, che in nulla modifica rapporti di forza a noi sfavorevoli, nelle parole di quell’altro lavoratore che interviene per “dichiararsi del P.C.I.”. Penserete al partito comunista, visto che di “politica di classe” si stava parlando. Macchè! Egli si è dichiarato del “partito della costituzione italiana”, rimarcando la necessità che il sindacalismo di base lanci “una proposta su fisco, scuola, sanità fondata sui valori dati nella costituzione repubblicana”.

Sull’inganno della democrazia va fatta chiarezza e data battaglia. Ce lo chiede anche l’intervento, per chi vuol capire, di quel delegato operaio dello SLAI Cobas proveniente dal Nordafrica che ha chiesto il sostegno dei lavoratori italiani alle lotte nei paesi arabi contro la Nato. Contro la Nato, il che per noi signfica che una cosa sono le lotte dei lavoratori dei paesi arabi e del Nordafrica che rivendicano libertà sindacali e politiche per i lavoratori, e in tal senso “democrazia per il proletariato” in quanto libertà di organizzarsi e lottare per i propri interessi di classe sfruttata, tutt’altra cosa è la general-generica petizione di democrazia agitata da forze sociali non proletarie che puntano a scalzare il tiranno con il favore se non con l’intervento in armi dell’imperialismo occidentale.

Dove è allora la “politica di classe”, di cui pure si evoca la necessità senza però saper indicare la strada per potercela riconquistare? Non sta certo nella difesa della “nostra (in realtà loro, dei borghesi!) carta costituzionale”, che, lo si ammetterà, riconosce e tutela innanzitutto la divisione di classe e lo sfruttamento.

Si vuol forse dire che antagonismo sociale e sfruttamento possono anche starci, purché ci siano garantiti “i diritti democratici”, il voto, il lavoro, il welfare e quant’altro?

In effetti a questo si allude, a un impossibile ritorno all’indietro quando per una breve stagione è sembrato che potessero stare insieme gli interessi di profitto del padronato e determinate tutele garantite ai lavoratori. Questa è un’illusione che ha potuto in qualche modo radicarsi nel proletariato metropolitano nel lungo ciclo espansivo del secondo dopoguerra.

Ma, innanzitutto, dovrebbe essere chiaro che ciò è stato possibile solo in pochi paesi imperialisti. Secondariamente, che tutto ciò viene oggi messo in discussione.

I “diritti democratici dei lavoratori” che sarebbero scritti nella costituzione o vengono conquistati e difesi con la lotta oppure non esistono; invece il dominio della borghesia e lo sfruttamento stanno scritti nella realtà dei rapporti sociali e la “gloriosa costituzione nata dalla resistenza antifascista” si è guardata bene dal metterli in discussione perché invece li preserva, aggiungendovi qualche foglia di fico ovvero ininfluente orpello pseudo-sociale. Pare se ne sia acccorta anche la “Rete dei comunisti” che da un lato reclama referendum a tutto spiano (e così contro la costituzionalizzazione del principio del pareggio del bilancio), dall’altro si accorge che la “costituzione nata dalla resistenza” impedisce referendum in materia di bilancio pubblico, tasse e trattati internazionali.

Quel che accade è che tanto più i passaggi oggettivi della crisi incalzano verso l’aut aut socialismo-capitalismo (non nel senso che la soluzione ne sia posta per dopodomani), tanto più i “comunisti in rete” arretrano dal programma di cui portano il nome per riscoprire invece “i nessi” tra le accelerazioni in corso e “la questione democratica” (così pensano di avvicinarsi alle masse, quando in realtà si mettono alla coda del senso comune più confuso e disorientato cui essi stessi contribuiscono “in modo organizzato e da sinistra”).

Leggiamo da un volantone della “Rete dei Comunsti”, distribuito all’assemblea, che la popolazione... è stata sistematicamente espropriata da ogni sovranità o possibilità di decidere sulle soluzioni adottate. Sistemi elettorali maggioritari, autoritarismo dei governi e sedi decisionali sopranazionali, hanno impedito con ogni mezzo che la società potesse esprimersi sulle scelte decisive, magari anche scegliendo di fare i sacrifici ma solo dopo essere stata consultata, informata e messa nella condizione decidere. Nell’Unione Europea oggi questo tema è stato posto all’ordine del giorno sulla base di una divaricazione incompatibile tra democrazia e capitalismo” (grassetti nostri).

Se un tempo la divaricazione e alternativa data era tra socialismo e barbarie-capitalismo (per noi lo è tuttora!), oggi l’ “alternativa” al capitalismo sarebbe la democrazia!

Lasciamo poi perdere il quadretto armonioso di un capitalismo e una democrazia che, non ancora “divaricati” prima degli “anni ottanta e novanta” (quelli della “sistematica espropriazione” che porta all’attuale “divaricazione”), avrebbero consentito “alla popolazione-società” la “possibilità di decidere le soluzioni adottate... magari scegliendo di fare i sacrifici... ma messa nella condizione di decidere”. Veramente era questo il quadretto degli anni ’70 e precedenti? Non crediamo proprio e dovreste ricordarlo anche voi!

Il fatto si è che “la questione democratica” viene assunta del tutto a sproposito e al contrario di ogni plausibile corretta considerazione, sicché in Libia diviene la porta di ingresso per accreditare miserabili “rivoluzionari” cirenaico-qatarioti e per mettersi al carro dei bombardieri Nato, mentre in un paese imperialista come l’Italia viene evocata da “comunisti” quando i suoi orizzonti storici sono tramontati da 150 anni.

Visto che alcuni dalla platea del 3 dicembre hanno inteso rimarcare con un “viva Lenin!” l’intervento sui “governi popolari” di cui sopra, noi lo citiamo piuttosto per ricordare che “è necessario separare rigorosamente due periodi del capitalismo... da una parte sta il periodo del crollo del feudalesimo e dell’assolutismo, il periodo in cui si formano la società borghese e gli Stati democratici borghesi... dall’altra parte sta davanti a noi il periodo degli Stati capitalistici completamente formati, il periodo in cui il regime costituzionale è consolidato da lungo tempo, in cui l’antagonismo tra il proletariato e la borghesia è fortemente sviluppato, il periodo che può essere definito la vigilia del crollo del capitalismo” (da “Sul diritto di autodecisione delle nazioni”, maggio 1914; dove si legge ancora, tanto per rimarcare i tempi storici che non possono essere manomessi a piacere, sulla “questione fondamentale del compimento della rivoluzione democratica borghese” con riferimento all’Austria, dove “essa è cominciata nel 1848 ed è finita nel 1867. Da allora, da circa mezzo secolo ormai, quel paese è retto da una Costituzione, borghese nel suo complesso, che permette l’azione di un partito operaio legale”...).

“La questione democratica” messa al centro (a sproposito) negli appelli cui ci riferiamo, nella realtà storica e nella battaglia politica del marxismo attiene alla costituzione di Stati moderni adeguati alla necessità della borghesia rivoluzionaria di abbattere l’assolutismo feudale limitativo delle proprie energie di sviluppo e, innanzitutto, di unificare la propria nazione a tal fine. Nell’Austria citata da Lenin questo compito è esaurito alla data del 1867 e non sarà, putacaso, neanche l’Anschluss nazista a riaprire i tempi storici della “questione democratica”, perché ormai, alla data del 1938, la bagascia democratica e la sua evoluzione (obbligata a date condizioni dello scontro) – e poi reciproca osmosi – nel cosiddetto Stato totalitario necessitano che il proletariato li combatta entrambi dietro la bandiera e secondo il proprio distinto programma di classe, sul terreno e con le armi ad esso corrispondenti.





Insomma la “questione democratica”, secondo il nostro spartito, non è riferibile, a qualsiasi minus, a qualsiasi scostamento (piccolo o grande che sia, dalla “reazione agraria del fascismo”, all’ “anomalia Berlusconi”, al “governo Monti non votato ma imposto dalla BCE”) del moderno Stato capitalistico rispetto a un optimum di esso (con tanto di diritti di voto della “popolazione sovrana”, diritti sociali – transitoriamente garantiti a una parte del proletariato delle metropoli – e quant’altro) come idealizzato dall’opportunismo stalinista e post-stalinista che ha sostituito il programma del socialismo con quello della borghese (e capitalistica) “democrazia progresssiva”.

La “questione democratica”, secondo la nostra teoria, non conosce neanche i truffaldini tempi supplementari che ad essa concederebbe un “risorgimento” italico “interrotto”, “tradito” e per questo tuttora e sempre “da completare”.

Al metro dell’opportunismo la “questione democratica” verrebbe sempre aperta e riaperta anche nei paesi capitalistici stramaturi ogniqualvolta si assista a effettivi giri di vite e concretissime ristrutturazioni in senso ancor più autoritario dello Stato democratico e delle sue istituzioni nazionali e sovranazionali, che di questo si tratta. E poiché l’incrudirsi dell’attacco antiproletario sempre questo mette in moto e accompagna, ciò varrebbe a sostituzione perenne e definitiva della bandiera di classe con quella (borghese) della “vera” democrazia. Nessuno ha mai inteso sottovalutare la portata delle controriforme con cui lo stato democratico sempre più si blinda preventivamente contro il potenziale “rischio” proletario; si tratta di prenderle in carcico e combatterle sul loro e sul nostro ad esso contrapposto terreno.


Purtroppo non potevano mancare nell’assemblea del 3 dicembre i preoccupanti punti di caduta, riferiti alla risposta di dati settori dell’ “estrema sinistra” al governo “imposto dall’Europa”, da noi tempestivamente presi in carico negli interventi postati sul sito (vedi in particolare gli articoli “ ’Ei fu’: famelici eredi in arrivo” e “ Addosso al tedesco (a chacun son boche)”, ai quali qui rimandiamo). Ne abbiamo avuta inevitabile conferma nella discussione romana

La relazione introduttiva ha giustamente affermato che “la competizione tra poli imperialisti prelude all’attacco contro i lavoratori”, ma nel volantone della “Rete dei Comunisti” leggiamo qualcosa di molto diverso. Sarebbe in atto “una ricomposizione delle classi dominanti e soprattutto dei poteri decisionali della borghesia europea” che vedrebbe “la nascita di una borghesia europea a prevalenza ’carolingia’ attorno al cui asse si aggregherebbero pezzi delle borghesie ’nazionali’ (tra virgolette, n.n.) in declino – come quella italiana –... e nelle quali alcuni settori sono destinati ad essere perdenti”.

A questo esito avrebbe contribuito “il blocco sociale berlusconiano... debolissimo sul piano della progettualità (!?), con le sue spregiudicate alleanze internazionali che hanno irritato sia gli USA che l’Unione Europea (dunque una progettualità più consona sarebbe stata quella prona agli interessi dei fratelli imperialisti maggiori ancor più di non essersi sparati sui piedi in Libia?), le posizioni demenziali della Lega (con tanto di spallucce per i purtroppo tantissimi operai dementi che le supportano, il che evidentemente non sarebbe affar nostro, n.n.) e le tattiche opportunistiche della Confindustria pronta ad accaparrarsi benefici senza mai pensare alle prospettive (!?).

Insomma altro che competizione interimperialista. La “borghesia italiana ’stracciona’ si presenta senza alcun rapporto di forza da giocare con la Germania e con la Francia... accede all’unificazione europea in posizione subordinata e subalterna”. Quel che sarebbe peggio, “la nostra classe dominante si appresta ancora una volta a ’tradire’ non solo gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne ma anche quelli del ’popolo italiano’... collocando gli interessi collettivi in secondo piano rispetto a quelli predominanti”.

Da un lato “l’Unione Europea è imperialista”, ma dall’altro “la nostra classe dominante è pronta a sacrificare gli interessi delle classi subalterne all’ ’interesse generale’ della costruzione di un’Unione Europea gerarchizzata nei suoi ruoli di potere”. Logica conclusione di questo argomentare è che tutto sarebbe andato invece a posto “per le classi subalterne e per il popolo” se la progettualità del governo e la prospettiva assunta dai padroni fossero stati adeguati al risultato di collocare l’Italia tra i vincenti (e non tra i perdenti) nella “ricomposizione di classe dominante a livello europeo”. Sarebbe questa la “fuoriuscita dal capitalismo” che poi spunta fuori come i cavoli a merenda a margine di queste sconcertanti lezioni di geo-politica, che si pongono a qualche miglio di distanza dalla millantata “applicazione del metodo dell’analisi di classe alla situazione italiana”?!

Quindi non solo in Italia (come – supponiamo – in tutte le nazioni europee “perdenti nella ricomposizione”) sarebbe tuttora aperta la “questione democratica”, ma essa, reduce da qualche mese di bombardamenti alla Libia, non sarebbe neanche “imperialista”, posto che si collocherebbe in posizione “subordinata e subalterna” rispetto all’ “Europa imperialista”. E infatti leggiamo ancora che, quanto a “espropriazione di sovranità” si porrebbero sullo stesso piano “tutti i paesi ipotecati dal debito, quello estero negli anni ottanta e novanta nei paesi in via di sviluppo, e quello pubblico nei paesi europei del XXI secolo” (sic!).

Non sorprende che il documento finale approvato dall’assemblea del 3 dicembre denunci il passaggio dal “commissariamento” alla “colonizzazione dell’Italia, grazie a poteri forti nazionali asserviti al potere finanziario internazionale rappresentato da Mario Monti”.

Un’Italia “subalterna” all’ “Europa imperialista”, “commissariata e colonizzata dal potere finanziario internazionale”, una borghesia “nazionale” (virgolettato, n.n.) “stracciona” e, come si è letto altrove, “compradora”, un “popolo” “tradito” e oppresso dal debito al pari dei paesi realmente dominati dall’imperialismo (quello italiano ben compreso, piccolo particolare che in questo contesto sparisce, n. n.), etc.. Con repentina accelerazione a precipizio vengono squadernati sul piatto tutti gli ingredienti di un nazional-sciovinismo di stampo mussolinian –“sinistreggiante” (a conferma di come democrazia e fascismo giammai appartengano a contrapposti campi di classe, essendo due facce del medesimo programma borghese che il proletariato è chiamato a combattere sulle proprie contrapposte basi di classe).

Un baratro senza ritorno al quale i proletari e i compagni che non hanno perso la bussola devono evitare di affacciarsi per non finirci dentro. Il che chiama oggi i veri comunisti a una dichiarata e coerente battaglia politica.

16 dicembre 2011

Nucleo Comunista Internazionalista

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