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Eric Hobsbawm

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La rivoluzione dal basso

(7 Gennaio 2012)

Letture di Classe



Graziano Giusti, La rivoluzione dal basso. Dagli Iww ai Comunisti dei Consigli (1905-1923), Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2011.

Pagine 200. € 15 – comprese le spese di spedizione.

Richiedere a: http://www.paginemarxiste.it/



Questo libro giunge come il cacio sui maccheroni in un momento in cui, anche in Italia, i primi segnali di lotta di classe accendono riflessioni sull’organizzazione proletaria. Ed è quanto mai utile parlare, oggi, degli Industrial Workers of the World (Iww) e della Sinistra comunista tedesca e olandese (detta «consiliarista»), in un Paese come il nostro, dove una pesante eredità «leninista» ha sempre posto in secondo piano, se non denigrato, queste esperienze di lotta che, invece, furono tra le più avanzate. Avvennero nei due Paesi – Usa e Germania –, in cui maggiore è stato, ed è tuttora, lo sviluppo del modo di produzione capitalistico. E in cui la classe operaia si è scontrata con il capitalismo nelle sue forme più alte, con ridottissimi margini di mediazione politico-sociale. Di conseguenza, era del tutto secondario il problema delle alleanze con i ceti medi – la piccola borghesia contadina e artigiana –. Problema che, invece, dovettero affrontare in Russia Lenin e il partito bolscevico, nel quadro di una rivoluzione democratica.



È quindi assai bizzarro che, ancor oggi, alcuni «vetero rivoluzionari» si richiamino a quell’esperienza politica e a quel modello organizzativo, quando, oggi, la situazione è del tutto mutata, e ci sono ben altri problemi, su cui sarebbe più opportuno riflettere.

Certo, il mito dell’Ottobre rosso è ancora forte, anche in quegli ambienti che, nei suoi confronti, hanno espresso critica e dissenso. Senza però fare poi il passo successivo, ovvero prendere in considerazione tendenze, come gli Iww e la Sinistra comunista tedesca – cui possiamo aggiungere gli anarco-sindacalisti in Spagna (la Confederación Nacional del Trabajo-Cnt) – che, ponendosi in una prospettiva rivoluzionaria, hanno dato vita a un diverso rapporto tra «partito e classe», per usare la terminologia «leninista». Un rapporto che, per farla breve, privilegia la classe, e in cui il partito è solo uno strumento. Concezione che mi sembra assolutamente attuale, e che, tra l’altro, supera quella separazione «contro natura» tra lotta economica e lotta politica (tra partito e sindacato).

Per inciso, i leninisti nostrani dimenticano che l’organizzazione «consiliare» degli operai nacque in Russia, nel 1905 (i soviet!), e si affermò nel 1917, con la successiva fondazione della Repubblica russa dei consigli (1918), il cui declino coincide con il declino dei consigli stessi, annichiliti dal ri-emergere dei rapporti di produzione capitalistici. Cui contribuì la realpolitik dei bolscevichi, loro malgrado. E in questo, il buon Stalin c’entra come i cavoli a merenda: arrivò quando i danni erano già stati fatti (1924). Egli non fu altro che il cinico curatore fallimentare di una rivoluzione in fase di riflusso. A ben vedere, responsabilità ben più gravi ebbe Trotsky.

Analogo ragionamento possiamo fare per quanto avvenne prima negli Usa, poi in Germania e in altri Paesi, tra cui la Spagna nel 1936, dove la sconfitta non fu causata dalle forme organizzative adottate dagli operai, bensì dalla riaffermazione dei rapporti di produzione capitalistici, accompagnata, ovviamente, dalla violenta repressione borghese. Questa riaffermazione-repressione la possiamo capire considerando la sfasatura temporale delle lotte (Usa 1907-1917, Russia-Germania-Italia 1917-1919, Spagna 1936), che mostra, in primis, i diversi livelli di sviluppo capitalistico e quindi la diversa composizione della classe operaia. I proletari si mossero per ranghi compatti, ma separati, nel tempo e nello spazio; ciò nonostante il movimento complessivo indica una linea di tendenza comune: l’organizzazione unitaria dal basso (One Big Union, come dicevano gli Iww), che tendeva a superare le divisioni indotte da fattori sia oggettivi (tecnico-organizzativi) che soggettivi (politico-razziali). Ed è questo l’aspetto su cui occorre soffermarsi, una volta tolto di mezzo quanto c’è di accidentale e obsoleto in quelle passate esperienze.



La questione resta però tutta da sviluppare. Benché il libro di Giusti ci offra una panoramica ampia e articolata, lascia sullo sfondo la specifica fase attraversata allora dal modo di produzione capitalistico, che ci può permettere di formulare una valutazione di quelle lotte, fuori da facili schemi politico-ideologici.

Quella era la fase di sviluppo delle forze produttive, in cui il capitale poteva integrare alcuni settori, più o meno ampi, della classe operaia, come avvenne attraverso il welfare state. Beninteso, quell’integrazione non cadde dal cielo, fu il frutto del grande movimento di lotte dei primi decenni del Novecento, cui parteci-parono wobbly, bolscevichi, comunisti dei consigli e anarco-sindacalisti, e che, benché sconfitti, dei segni gli operai li avevano lasciati. E i padroni e i loro governi dovettero tenerne conto. Lo fecero i Paesi democratici, a partire dagli Usa di Roosevelt; lo fecero i Paesi totalitari, a partire dall’Italia di Mussolini. E lo fece anche l’Unione Sovietica di Stalin ... con un welfare state miserabile. E nonostante ciò, da quelle parti, qualcuno oggi rimpiange il piccolo padre, dicendo che «si stava meglio quando si stava peggio»... Questo è sicuramente un segno dei tempi, che vedono il tracollo senza futuro del modo di produzione capitalistico, in cui si inscrive l’attuale crisi.

Crisi che butta sulla scena della storia la massa crescente dei senza risorse delle mille periferie del mondo, che non hanno nulla da perdere, se non le loro catene. E che i venti del Nordafrica stanno già scuotendo...

Milano 6 gennaio 2012

Dino Erba

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