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Un altro mondo è impossibile

la Repubblica e i movimenti al tempo dei tecnici

(13 Gennaio 2012)

Scritto per il trimestrale online Cassandra, n. 1/2012

pirani 1

Ancora una volta il la lo ha dato Eugenio Scalfari, con un articolo pubblicato il 16 ottobre 2011. Nel quale, nonostante, il titolo (Stato sconfitto da un pugno di teppisti) non ci si concentra sugli scontri di piazza alla manifestazione degli indignati. Questo tema viene appena accennato, con generici richiami ad una minoranza di violenti e la deprecazione del fatto che le forze dell’ordine non sono state in grado di “neutralizzare preventivamente i teppisti e i provocatori che dovrebbero essere noti e rintracciabili”. In realtà, a Scalfari interessa regolare i conti proprio con il movimento, di cui offre un ritratto a dir poco caricaturale. Le mobilitazioni contro la logica per cui tutto può essere privatizzato, vengono ricondotte ad una “reminiscenza di comunismo utopico” e ad una “tonalità francescana”.

Di più, in certe manifestazioni emergerebbe “un rischio estremamente grave: un contagio di populismo”. Per Scalfari, infatti, “esiste storicamente il populismo dei demagoghi, costruito per accalappiare i gonzi, e il populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole”. Stupisce l’evocazione del pensiero di Tommaso Campanella: in fondo si sta parlando solo di chi lotta affinché le aziende municipalizzate non cadano nelle mani di imprenditori italiani e stranieri. Ma all’”uomo che non credeva in Dio” interessa perseguire, anche attraverso palesi esagerazioni, un preciso obiettivo. Far percepire il movimento degli indignati come un fenomeno speculare al berlusconismo: un populismo d’altro segno, che può avere effetti nefasti.

Certo, nei giorni successivi l’articolo suddetto non è stato molto ripreso sulle pagine di Repubblica, più impegnata a blandire i manifestanti pacifici, anch’essi “vittime” dei black bloc. Trasmettendo l’idea illusoria di comprendere le ragioni di chi ha espresso civilmente il suo dissenso, il giornale ha cercato di spingere il movimento verso un terreno che non dovrebbe essere suo, quello della delazione. Il tentativo è in parte riuscito e, tra gli indignati, non è mancato chi è passato da un discorso serio e necessariamente rigoroso sulle pratiche di piazza alla diffusione di filmati su internet per consentire alla polizia di individuare i “delinquenti”. Senza peraltro neanche riflettere sui motivi di fondo che hanno portato agli scontri, partecipati non da poche centinaia di “soliti noti”, ma da migliaia di giovani [1].



Una discussione rivelatrice

Una volta affievolitasi l’eco dei fatti del 15 ottobre, l’impostazione di Scalfari ha avuto la meglio, ripresa anche da chi non sempre è in linea con il suo pensiero. E’ il caso di Mario Pirani che, sulle colonne di Repubblica, rappresenta da tempo l’anima più schiettamente liberista, laddove il fondatore è almeno tradizionalmente attento a quella fascia di lettori che, su certi argomenti, ancora pensa “cose di sinistra”. La convergenza tra i due big del giornalismo è stata suggellata nella rubrica settimanale tenuta da Pirani ( Linea di confine) con un articolo, datato 21 novembre 2011, dal titolo curioso: Cancellato Stalin si torna a Proudhon.

Da poco tramontata l’era Berlusconi ed in piena “luna di miele” tra i grandi giornali ed il neonato governo tecnico, Pirani cita il suo illustre collega in uno scritto che colpisce sin dall’incipit: “Nell’angoscioso succedersi delle notizie sul disastro finanziario internazionale non si è pienamente avvertito l’emergere di un risvolto ideologico di sottofondo, pericoloso ancorché confuso”. Il giornalista pare assumere l’aria corrucciata di chi è preoccupato per l’affermarsi di mentalità che minano la civile convivenza. A suo avviso, tra coloro che diffondono messaggi fuorvianti, rivolti alle “parti più sprovvedute o tendenti all’illusione e all’utopia dell’opinione pubblica”, vi è il sociologo tedesco Ulrich Beck. Il quale, sulla base di un articolo riportato da Repubblica il 1 novembre [2], viene descritto come un intellettuale in preda ad un “empito palingenetico”. Certo, tale raffigurazione contrasta nettamente con il breve profilo dello studioso che troviamo nel Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no global [3]. Dove egli è ritenuto “estraneo alle suggestioni liberiste”, ma anche lontano “da ogni tentazione catastrofista”, perché “fiducioso verso la possibilità di costruire una nuova modernità, il cui segno prevalente sia nella democratizzazione di tutti i processi decisionali”.

Nello scritto oggetto di critica, Beck attribuisce al movimento internazionale degli indignati la capacità di demolire “la visione economica dell’american way”, in una fase in cui il capitalismo “viene portato sul banco degli imputati e sottoposto a una critica radicale”. E’ vero, la sua prosa assume toni decisi, che non gli sono consueti, ma ciò non implica una svolta radicale nella sua elaborazione. E’ il fatto di trovarsi di fronte ad una crisi che in molti ritengono peggiore di quella del 1929, a spingerlo ad usare parole forti. Ma la sostanza del suo discorso e, soprattutto, le sue proposte (che Pirani omette di citare) sono tutt’altro che dirompenti. Muovendo dall’intento di “impedire ad ogni costo” la catastrofe, il noto sociologo propone al movimento Occupy di “avanzare alcune proposte basilari – come ad esempio una tassa sulle transazioni finanziarie – nell’interesse correttamente inteso degli Stati nazionali”. Per rendere concreta questa ipotesi di “Robin Hood Tax” si dovrebbe creare “un’alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale”. Così, gli “attori statali” avrebbero maggiore incidenza nella dimensione “trans-statale”. E col tempo “si potrebbe ottenere (…) che non sia l’economia a dominare la democrazia, ma, al contrario, la democrazia a dominare l’economia”.

E’ evidente: assolutizzando alcune frasi a effetto, Pirani ha attaccato a testa bassa un discorso di buon senso, che prospetta forme di intervento che sono già oggetto di discussione tra i leader europei, escluse a priori soltanto da quel David Cameron che ha paura d’inimicarsi la City. D’altra parte, se un giornale come la Repubblica ospita gli articoli di Beck, è per rendere meno monocordi le sue pagine. Sono scritti stimolanti, che salvano il lettore dalla tirannia del “pensiero unico” che domina sulle pagine del quotidiano, ma che è davvero una forzatura ricondurre a propositi rivoluzionari.

Comunque, dopo aver travisato il pensiero di Beck, Pirani rivolge i suoi strali contro il discorso sui beni comuni. Su questo tema egli riprende l’articolo di Scalfari prima citato, segnato dall’irrisione verso l’ipotesi di una società in cui i beni comuni siano “messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono e abitano in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d’uso nelle “agorà”, nelle piazze di quel luogo”. Al solito, va posto il problema di quanto tale descrizione corrisponda al vero, comunque Pirani ne tra spunto per parlare di un singolare “revival del socialismo utopistico del primo Ottocento, quando Proudhon predicava la rigorosa equazione del valore delle cose al lavoro”. Fantasticherie che distoglierebbero dall’analisi dei processi in atto e dalla conseguente capacità di affrontarli concretamente, adottando – in una fase in cui è “venuta meno la potestà degli Stati nazionali”“nuove regole capaci di controllare e imbrigliare l’innovazione, altrimenti devastante, della libera circolazione dei capitali”.

Il discorso sembra filare, anche perché è partito dalla disamina di posizioni in parte immaginarie, ma ci spinge ad alcune considerazioni. In questi anni, anche se i quotidiani progressisti fingono di ignorarlo, non sono mancati discorsi tali da coniugare radicalità e rigore scientifico, non limitandosi, ad esempio, a deplorare il primato della finanza e ad invocare un salvifico ritorno alle virtù dell’”economia reale”. Accanto alle vulgate sulla crisi mosse da un giusto risentimento ma non ancorate ad un’analisi strutturale, si sono fatte strada interpretazioni che tentano di arrivare al cuore dei problemi.

SI pensi alla chiarezza d’un Emiliano Brancaccio, quando mette in guardia da una visione “moralistica del tracollo economico, che individua la causa di tutti i mali nel greed, la famigerata avidità dei banchieri e degli speculatori”. I quali invero “hanno quasi sempre agito nel pieno rispetto di due leggi, quella dello Stato e quella del profitto”. Da queste premesse deriva una conseguenza che pone il dibattito ben al di là di dove lo hanno collocato gli editorialisti di Repubblica. Infatti, occorre tornare a “parlare (…) del capitalismo e delle sue contraddizioni interne. In particolare” va finalmente compreso “che l’odierno fallimento del capitale è una diretta conseguenza del suo enorme successo nella strategia degli ultimi decenni, finalizzata all’annientamento politico del lavoro”. In sostanza, quella in corso è “la crisi di un mondo di bassi salari”, perché “per una potente miscela di progresso tecnico e di intensificazione dello sfruttamento, in questi anni abbiamo assistito a un notevole incremento della capacità produttiva dei lavoratori, senza però che la loro capacità di spesa aumentasse di pari passo" [4].

Questa tesi dello studioso dell’Università del Sannio ha suscitato un ampio dibattito, raccogliendo adesioni ma anche dissensi nell’ambito degli specialisti e della cosiddetta sinistra alternativa. A tale discussione Pirani e Scalfari si sono sottratti, preferendo scagliarsi contro obiettivi considerati, a torto o a ragione, più facili. Del resto, a spaventarli non sono solo le analisi più puntuali, ma anche le ricadute politiche delle critiche più “popolari” al capitalismo, meno raffinate ma comunque in grado di sollecitare attenzione verso problemi reali.

In un certo senso, lo riconosce Pirani stesso quando parla di “affabulazioni innocue ma non tanto se le rapportiamo allo striscione che apriva la prima manifestazione contro Monti: ‘via il governo dei sacrifici’”. Insomma, si avverte il rischio che risulti culturalmente legittimato il dissenso verso un governo capace di attuare le ricette di BCE e Confindustria con una celerità che i precedenti esecutivi “politici” non garantivano. Sta tutta qui la sostanza di certi affondi: si possono, certo, delineare delle misure volte a mitigare le conseguenze devastanti del “capitalismo reale”. Però, tali accorgimenti, di portata limitata, debbono essere individuati esclusivamente dalle classi dirigenti, non disturbate dalle piazze e perciò in grado di mettere a fuoco i provvedimenti necessari affinché il “nostro mondo” non crolli.

In ultima analisi, il vero motivo di dissenso da Beck risiede nella granitica convinzione che certi processi decisionali non possano essere democratizzati. La discussione collettiva, pubblica potrebbe generare un mostro: l’idea di una “alternativa di sistema”. Per respingere la quale viene rievocato “il più grande esperimento sociale e politico che l’uomo abbia tentato in tutta la sua storia”. Ossia, quel socialismo reale “che fallì ovunque con eguali caratteristiche: dittatura poliziesca e depressione economica”. Un’esperienza che i contestatori non possono rimuovere: “la sua memoria è incancellabile”.

Dunque, ogni tentativo di uscire dalla catastrofe attuale cercando nuove soluzioni, sarebbe destinato ad un esito tragico. A dirla tutta, qui l’autore della rubrica Linea di confine ci sembra più visionario degli “utopisti”, veri o presunti, che sbeffeggia. E’ come se collocasse il capitalismo in una dimensione atemporale, sottratta al divenire storico e quindi impermeabile a quei contraccolpi della realtà che un’”alternativa di sistema” la potrebbero imporre davvero, a prescindere dalle intenzioni e dalle proposte di chi si ribella all’ordine vigente.

Dopo la battaglia

Ora, questa svolta nel rapporto tra il secondo quotidiano italiano ed i movimenti sociali, delineatasi a partire dal 16 ottobre 2011, non si è tradotta solo in un atteggiamento poco comprensivo verso le ragioni di chi scende in piazza. Ma anche in parziali oscuramenti: come quello subito dalla manifestazione del 26 novembre 2011 a difesa dell’acqua pubblica. Pochi mesi prima, la Repubblica rivendicò l’esito referendario, ritenendolo – analogamente al risultato delle amministrative – un segnale di cambiamento e di apertura di una nuova fase politica, oltre il berlusconismo.

La scelta di rendere poco visibile la battaglia di chi pretende che quell’espressione di volontà popolare sia rispettata, e si oppone pertanto agli odierni propositi di privatizzazione di un servizio essenziale, ci appare paradigmatica. E’ la rivelazione dell’uso strumentale, e a tempo, di una campagna che non s’è mai veramente condivisa. Ciò da parte di un quotidiano che, nel suo lungo scontro con il Cavaliere, ha usato volta per volta gli argomenti più disparati. Se quello legalitario è stato il principale, non è mancato il tentativo di ammantare di connotati sociali l’ostilità verso il fondatore del Pdl [5]. Ma per quanto la si sia camuffata, la battaglia contro il berlusconismo non è mai stata rivolta contro una delle manifestazioni più estreme del capitalismo maturo. Come se l’egoismo proprietario e l’intreccio fra media e politica non fossero tratti presenti – certo, in forme diverse – in tutti i paesi “avanzati”. Nell’insistere sull’anomalia italiana rispetto al mondo occidentale, si è giunti a concepire quest’ultimo come una sorta di Bengodi. Oggi che contraddizioni pesanti sembrano minacciarne persino la sopravvivenza, la Repubblica si erge in sua difesa, deridendo o demonizzando chiunque cerchi di esplorare nuove vie.







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[1] In tal senso è sintomatico che il breve editoriale di Valentino Parlato del 16 ottobre sia stata scambiato, anche da alcuni lettori del Manifesto, per un’apologia della violenza. Invero, l’affermazione più “scioccante dell’autore” (“è bene, è istruttivo, che ci siano stati” gli scontri) rimanda ad una verità elementare. Cioè ad una rabbia giovanile diffusa che non trova sbocchi, non essendo né rappresentata in Parlamento, né organizzata in un qualsiasi percorso politico, anche antagonista. Qualcuno, prima o poi, dovrà farsi carico di questo problema.

[2] Il Movimento del 99 per cento può cambiare il mondo.

[3] Roberto Della Seta, Daniele Guastini, Dizionario del Pensiero ecologico. Da Pitagora ai no global, Carocci 2007.

[4] La crisi di un mondo di bassi salari, Liberazione, 19 febbraio 2009 (ora anche in Emiliano Brancaccio, La crisi del pensiero unico, Franco Angeli 2010).

[5] Su questo piano, va riconosciuto che Pirani ha avuto un atteggiamento più lineare rispetto ad altri commentatori di Repubblica, perché, sempre concentrato sulle necessità dell’impresa, non ha mai fatto delle istanze dei lavoratori un argomento da agitare nell’opposizione a Berlusconi.

Stefano Macera

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