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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Dagli operai della Fincantieri un esempio di lotta di classe

(14 Gennaio 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Quando, nella mattinata del 4 gennaio, i lavoratori della Fincantieri di Sestri Ponente hanno occupato l’aeroporto “Cristoforo Colombo”, costringendo gli aerei a partire vuoti, Marta Vincenzi, sindaco di Genova, è rimasta tanto sorpresa da lasciarsi sfuggire il segreto del “sostegno” delle autorità ai lavoratori: “Da parte mia e del Cardinale (che strana coppia!) non sono mancate le sollecitazioni a trovare una soluzione. Non è possibile che il governo convochi un tavolo solo dopo manifestazioni e scioperi come quello che ha visto bloccare l’aeroporto Colombo. L’esecutivo di Monti deve considerare che ogni ritardo nelle decisioni può comportare problemi di ordine pubblico”. Ecco svelato il vero motivo di tanto interesse delle istituzioni locali, laiche ed ecclesiastiche: la lotta di classe turba i piani dei nostri amministratori, occorre bloccarla. L’“appoggio” delle autorità locali non ha lo scopo di salvare i posti di lavoro o i salari, ma di distogliere i lavoratori dai conflitti della strada e della fabbrica in rivolta per ricondurli alle quiete stanze della trattativa corporativa gestita da sindacalisti flessibili, alla concertazione, parola che sostituisce l’espressione troppo “brutale”: collaborazione di classe.

Dal suo punto di vista, la Vincenzi ha ragione di protestare: la decisione del ministro Passera di convocare i sindacati era stata presa il giorno 3, ma nessuno ne sapeva niente, a cominciare dal segretario della Fiom di Genova, Grondona. Perciò non è servita a impedire l’occupazione dell’aeroporto. Il governo tecnico perde colpi, non sa fare il pompiere. E’ proprio quello che gli rimprovera anche il governatore Burlando (noto pure come “Il Gerundio”), convinto che la manifestazione si potesse evitare. Gli amministratori locali sanno che gli operai della Fincantieri fanno sul serio, e, se non avranno garanzie per l’occupazione, non consegneranno in tempo la nave Oceania Riviera. Che serve tutto il teatrino della solidarietà delle istituzioni locali se il governo non sa fare da sponda? Eppure dovrebbe sapere che non c’è da scherzare: lo scorso anno, la pronta risposta dei lavoratori costrinse la Fincantieri a ritirare un piano che prevedeva più di 2500 licenziamenti a Sestri Ponente, Riva Trigoso e Castellamare di Stabia, con inevitabili disastrose conseguenze sull’indotto. Era una vittoria parziale, perché tutti sapevano che l’azienda sarebbe ritornata all’attacco, valendosi della connivenza di sindacalisti fiancheggiatori. Queste lotte non furono un fatto limitato ai lavoratori dei cantieri, ebbero ampia eco, dimostrarono che ci si poteva ribellare alla prassi degli scioperi burletta, preavvisati, spezzettati, fatti solo per dare ai lavoratori l’illusione della lotta, mentre in realtà tutto era deciso in trattative in cui i salariati non avevano voce in capitolo. Per fortuna, le parole d’ordine di classe hanno ripreso a circolare – e ancora circolano - tra questi lavoratori, e si spera che il loro esempio venga seguito da altri.

I lavoratori dei cantieri non sono saliti sui tetti, non sono ricorsi agli scioperi della fame o ad altre forme di lotta autolesionistiche puramente dimostrative, ma, come nella migliore tradizione operaia, hanno colpito direttamente gli interessi dell’azienda, toccando la produzione, i trasporti. In Italia, troppo spesso si ha una spettacolarizzazione delle lotte, si bloccano corse ciclistiche, si cerca di entrare al festival di Sanremo, di apparire in televisione. Questo può suscitare simpatie, ma non cambia radicalmente i rapporti di forza, per farlo occorre colpire i profitti.

Come prevedibile, la Fincantieri è tornata alla carica con l’accordo firmato il 21 dicembre da Fim–Uilm–Ugl–Fails, che è quasi la copia di quello presentato a maggio e ritirato per la ribellione dei salariati. Prevede 1234 licenziamenti (pudicamente chiamati esuberi) su 8500 lavoratori e la cassa integrazione straordinaria a rotazione dall’inizio del 2012 per due anni. Per Sestri e Castellamare è previsto il disimpegno dal settore Cruise. Per Sestri, due anni di stop, e 400.000 euro per la “messa in sicurezza” del cantiere. Per non usare la parola “chiusura”, hanno consultato il vocabolario dei sinonimi.

Certi dirigenti sindacali sono sempre pronti a firmare, sono le “penne del padrone”. Non si tratta di corporativismo sindacale, di difesa di fasce di aristocrazia operaia, ma di un puro e semplice arruolamento nelle file padronali.

Per questo, la ribellione dei lavoratori non è rivolta solo contro l’impresa e il governo, ma anche contro i sindacalisti compiacenti. Le lotte dei lavoratori della Fincantieri non si sono interrotte neppure durante le festività natalizie, con presidi permanenti a Genova, a Palermo, Castellamare ed Ancona.

Dopo l’occupazione dell’aeroporto, l’Authority nazionale sugli scioperi ha chiesto informazioni al prefetto di Genova “a tutela dei diritti costituzionali degli utenti”. Queste istituzioni, quasi sempre in letargo, funzionano perfettamente solo quando si tratta di colpire i lavoratori.

Il 10 gennaio l’incontro del ministro Passera con i sindacati è avvenuto, e il governo ha convalidato l’accordo separato firmato infischiandosi della volontà dei salariati, quindi la lotta deve riprendere.

I lavoratori sono molto determinati, ma esiste ancora un pericolo, che potrebbe indebolire la loro lotta: molti pongono l’accento sulla salvaguardia dell’azienda, della tecnologie e delle competenze acquisite nel settore navale in tanti anni. Il problema esiste, ma si scontra con la natura stessa del capitale, che ha come scopo fondamentale la propria valorizzazione. Se puntare sulla professionalità, sulla tecnica, sulla scienza applicata crea profitto, si investe, altrimenti il capitale è pronto a vendere macchinari e tecnologia, e a gettare via come limoni spremuti gli operai. Se vendere i terreni e partecipare alla speculazione edilizia rende di più, fabbriche efficienti, autentici gioielli, vengono vendute o trasportate a migliaia di chilometri. Il capitalismo non è l’economia dei consumi, come vogliono farci credere, è l’economia dello spreco, di materie prime e di macchine certamente, ma anche e soprattutto di forza lavoro. “Studiate, frequentate corsi, createvi una professionalità!”, ci hanno detto fin dall’infanzia, ma non ci dicono che quando non serviremo più a creare profitto saremo rottamati. Per questo, nessun sacrificio per l’azienda, l’obiettivo deve essere un altro: salvare il salario, e con esso la possibilità di sopravvivere.

Oggi un lavoratore licenziato, soprattutto se ha superato i 50 anni, molto difficilmente trova un’occupazione, e anche le possibilità di prepensionamento, una volta abbastanza facili, sono ora impedite. Chi è tagliato fuori dalla produzione, inoltre, ha anche scarsa possibilità di contribuire alle lotte sociali, se non con azioni disperate, ma poco efficaci.

Ci sono vecchie rivendicazioni del movimento operaio che borghesi e sindacalisti infrolliti hanno cercato di farci dimenticare. C’è la riduzione delle commesse? Il mercato è saturo? Si riduce l’orario di lavoro e la sua intensità, distribuendo il lavoro tra tutti i lavoratori della Fincantieri, mantenendo invariati i salari.

Le imprese vogliono ridurre il personale e scaricare tutto il lavoro su chi resta. Cercano di giustificare questo abuso con mille pretesti: l’Europa ci chiede di lavorare di più, dobbiamo farlo per creare le condizioni perché i nostri figli abbiamo lavoro assicurato, o per dare una risposta alla Cina, che pratica bassi salari. In realtà c’è crisi, non perché il lavoro è poco produttivo, ma perché lo è troppo e la produzione eccessiva ingombra i mercati. Oggi, con la crescente meccanizzazione, bastano pochi operai dove prima ne occorrevano centinaia, e la riduzione dell’orario di lavoro - che potrebbe alleviare il problema, anche se non risolverlo, - e stata dimenticata, a cominciare dai sindacati.

Quanto alle paghe infime dei cinesi, si tratta di una storia di altri tempi: “La Cina è stata a lungo considerata un paese a basso costo, soprattutto dal punto di vista del costo della manodopera. Negli ultimi anni tale vantaggio è gradualmente venuto meno, a causa dell'innalzamento delle retribuzioni e del tenore di vita. L'inflazione è cresciuta in maniera incessante. Tra il 1980 ed il 1998 gli aumenti salariali nel settore manifatturiero hanno registrato in tutto il paese un tasso medio annuale del 16% (fonte: annuario statistico della Cina) e nel decennio 1988-1998 i salari sono aumentati in termini assoluti di oltre il 400%.” (1) Si tratta di una relazione sulla cantieristica mondiale di una decina di anni fa. Da allora, i salariati cinesi, nonostante i mille ostacoli posti da un regime pseudocomunista, in realtà capitalista in massimo grado, sono riusciti a strappare altri aumenti, ma industriali e governo fingono di ignorare questi variazioni, perché vogliono spaventare i lavoratori, costringerli ad accettare i piani aziendali.

Nel mondo occidentale, e nei paesi di vecchia industrializzazione, la quota destinata al lavoro dipendente è diminuita, e in Italia più che altrove: “Posta uguale a 100 la quota del compenso del solo lavoro dipendente sul PIL nel 1980, si vede però che nel 2010 per tutti i paesi considerati la quota è diminuita, da un minimo di 4,24 punti in Giappone ad un massimo di 11,83 punti in Italia.” (2)

Nella quota del lavoro dipendente, inoltre, conteggiano anche gli stipendi dei dirigenti. Si atteggiano a lavoratori “dipendenti”, ma certo sono super-salariati, e una parte ingente del reddito, destinato sulla carta al mondo del lavoro, va proprio a questi sfruttatori.

Quindi le lacrime delle imprese sono la solita commedia. Preferiscono versare enormi stipendi ai top manager, piuttosto che assicurare i salari degli operai. Si sa che ogni aumento del salario porta a una riduzione dei profitti, ma è ora che la grande industria italiana, che ha lucrato vergognosamente su un abbassamento del salario reale che ha pochi paragoni nei paesi avanzati, conceda qualcosa del maltolto. I lavoratori non devono farsi carico degli interessi delle aziende, ma dei propri salari e delle condizioni dei disoccupati.

Ci hanno sempre detto che occorre ridurre il costo del lavoro, in realtà occorre lottare per aumentarlo, alzando anche il salario differito e indiretto (le pensioni, i servizi pubblici, le prestazioni sanitarie, ecc).

Non è la produzione che deve decidere della vita dei lavoratori. Il capitale se ne infischia della vita dei lavoratori (si pensi ai quotidiani omicidi bianchi), e questi a loro volta, devono infischiarsi dei profitti delle imprese.

Il capitalismo, nei paesi di vecchia industrializzazione, è in crisi da almeno trenta anni, anche se ha cercato di salvarsi con gli artifici finanziari e con la crescita esponenziale dei debiti. Cerca di sopravvivere continuando a licenziare e facendo lavorare fino alla consunzione chi resta sul posto di lavoro. Guai ad accettare questa logica, che trova in Marchionne l’esponente più in vista in Italia. Per difendersi e respingere il ricatto occupazionale, è necessario puntare sulla riduzione dell’orario e dei ritmi a parità di salario, e su una adeguata indennità di disoccupazione, pagata dai padroni e senza gli stretti limiti temporale e normativi attuali.

11 gennaio 2012

NOTE

1) EUR-Lex - 52000DC0263 – IT , SECONDA RELAZIONE ”Seconda relazione della Commissione al Consiglio sulla situazione della cantieristica mondiale”. 2001

2) Stefano Perri (Università di Macerata) “Il falso paradosso del costo del lavoro” - 03 Gennaio 2011.

scritto per il Bollettino de 'l'Internazionale'

Michele Basso

Fonte

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