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Articolo 18

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(13 Marzo 2012) Enzo Apicella

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Le ragioni dell'attacco all'articolo 18

(14 Febbraio 2012)

E’ spontaneo chiedersi perché mai il tema dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori occupi in modo così rilevante l’attenzione del governo Monti. E questa domanda è ulteriormente sollecitata dal fatto che risulta, da dichiarazioni di alcuni esponenti confindustriali e da un sondaggio dalla stessa Confindustria fra i suoi iscritti, che questo tema, invece, non è (o per lo meno non lo era, prima del pressing del Governo e di diversi, famigerati, organismi internazionali) al centro dell’attuale attenzione del mondo imprenditoriale.

Acquista così, su questa base, forza l’ipotesi che il problema non sia allora quello – già in sé e per sé incredibile – di adottare una misura che incentivi (con un passo all’indietro di più di quaranta anni) l’occupazione, ma sia quello di proseguire, sul piano dell’organizzazione produttiva, nella ristrutturazione, in senso autoritario, dell’intero sistema sociale.

L’obbligo, per i datori di lavoro, di reintegrare nel posto di lavoro chi è stato licenziato senza giusta causa o giustificato motivo costituisce, infatti, l’unica effettiva tutela – per le possibilità di vita proprie e della propria famiglia – di quei lavoratori che hanno posizioni ideologiche antitetiche a quelle del pensiero unico dominante, e che, coerentemente, cercano di diffondere queste loro posizioni – e le azioni conseguenti – nei luoghi di lavoro e nella società.

Tolto l’obbligo di reintegrazione, sostituendolo con quello di corrispondere un indennizzo monetario, l’organizzazione produttiva si potrà facilmente liberare – con una certa quantità di soldi – di queste “spine irritative” non conformiste, di questi “suscitatori di dissenso”, di questi “sognatori” di un’organizzazione sociale ribaltata in senso socialista.

Né si dica, come dicono alcuni professori di area di c.d. sinistra, che sarà sufficiente mantenere la possibilità dell’annullamento dei licenziamenti discriminatori: è infatti ben noto, a chi si occupa di diritto del lavoro, che la prova del carattere discriminatorio di un licenziamento costituisce “probatio diabolica”, cioè pressoché impossibile. Ricordiamo che, mentre la prova dell’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo deve essere fornita da chi ha licenziato, la prova della discriminatorietà deve essere data da chi ne sostiene l’esistenza.

Nella stessa direzione, peraltro, vanno anche, pur con sfumature diverse, le proposte d’area PD di un “contratto unico” che lasci, all’interno dello schema del rapporto di lavoro subordinato, i nuovi assunti privi della tutela dell’art. 18 per i primi (tre) anni di lavoro.

Con questo tipo di inserimento aziendale sarà facile, per gli Uffici Personale, selezionare i lavoratori “degni” di essere stabilizzati. L’inserimento stabile nel mondo del lavoro sarà, cioè, riservato solo a chi dimostrerà, nel lungo periodo iniziale, di essere omogeneo ai c.d. valori aziendali.

Trattando di questo tema mi è spontaneo ricordare gli anni 1976/1977, a Milano, quando la lotta dei disoccupati organizzati si legò alle iniziative sul piano giudiziario tese a denunciare la pratica delle “schedature” preassuntive all’Alfa Romeo (prassi già emersa anni prima alla Fiat) e a rimettere in funzione l’allora ancora vigente sistema del Collocamento pubblico della manodopera (voluto da una legge del 1949, e poi lasciato cadere in disuso) che assicurava, attraverso la cosiddetta “chiamata numerica” dall’Impresa all’Ufficio di Collocamento, l’assunzione dei lavoratori iscritti al Collocamento stesso secondo criteri obiettivi, senza alcuna possibilità di discriminazione.

E non per caso, dopo questa ripresa di funzionamento del ruolo pubblico del Collocamento, entrarono in Alfa Romeo decine e decine di giovani, sicuramente “non conformisti”, e assai disponibili a portare avanti le lotte allora in corso, ed altre ancora.

Eliminare oggi l’art. 18, ovvero anche costruire un “contratto unico di ingresso”, è, cioè, operazione lungimirante, non limitata all’oggi, voluta dalle intelligenze che tirano le file dell’attuale riassetto sociale, a livello internazionale, e volta a procedere nella costruzione di quel nuovo modello sociale che, pezzo per pezzo, viene montato. Modello sociale che non ha più nulla di “liberale”, e ha tutto del sistema, nei fatti (non nelle forme), dittatoriale: unicità di pensiero, de-solidarizzazione, aggressività guerrafondaia sotto le ipocrite forme delle missioni di pace, criminalizzazione delle ideologie “sovversive”, e, in ultima analisi, annientamento di chi rifiuta di allinearsi.

Già, perché privare della tutela dell’art. 18 i lavoratori ancora antagonisti, ovvero impedire l’accesso al lavoro dei giovani anche solo potenzialmente ribelli, significa proprio questo: togliere loro possibilità di vita dignitosa, cioè annientarli.

E, ancora una volta, mi sembra di poter cogliere i nessi, anche sul piano delle forme giuridiche, tra organizzazione del lavoro (e possibilità di vita dei lavoratori stessi) e sistema penale.

Alla ulteriore “marginalizzazione” di settori sociali antagonisti risponde infatti (anzi, ha già risposto) la creazione di un armamentario repressivo essenzialmente centrato sulla punizione, in misura esorbitante rispetto alla “media” delle “quantità punitive”, della identità sovversiva.

Milano, 06.02.2012

Giuseppe Pelazza

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