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(3 Aprile 2013) Enzo Apicella

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Politica estera e Politica interna due facce della stessa medaglia di un governo imperialista

(17 Febbraio 2012)

La Libia è stato l’ultimo dei paesi in ordine di tempo a subire le interessate “attenzioni” delle grandi potenze occidentali. Per “liberarla” dal suo dittatore è stata ridotta ad un cumulo di macerie e consegnata nelle mani di un gruppo di famelici ascari locali pronti a gestire la “ricostruzione” a tutto beneficio e secondo i diktat imposti dalla coalizione occidentale.

I motori degli aerei dei “volenterosi” non si sono nemmeno raffreddati che già si preparano a ripartire.

Nel mirino adesso sono la Siria e l’Iran accusate: l’una di reprimere nel sangue una rivolta, fondata magari su di un malessere reale ma impulsata e foraggiata (con tanto di fornitura di armi e “istruttori”) da parte della Turchia e delle petromonarchie del Golfo, in piena convergenza con le potenze imperialiste occidentali; l’altra di non voler rinunciare al proprio programma atomico che, razzisticamente, in mano agli sciiti iraniani viene tacciato come il pericolo per la pace nel mondo.

La trama delle nuove aggressioni è già confezionata ed una parte di essa è in via di svolgimento in attesa che produca i soliti effetti di assuefazione della pubblica opinione, per poter dare poi avvio al gran finale, fatto di distruzione e morte, seminate, s’intende, a “fin di bene”, a “tutto vantaggio” delle locali popolazioni che “anelano” di essere liberate, anche a costo di rimetterci la pelle, o a trovarsi in un paese riportato all’età della pietra, se riescono a sopravvivere all’afflato liberatorio delle potenze occidentali.

Seguendo un copione ben sperimentato, infatti, siamo bombardati da notizie sui presunti eccidi quotidiani compiuti dal governo in Siria, che a ben vedere si basano, come già accaduto per la Libia, sull’uso esclusivo (e volutamente senza alcuna verifica) di una fonte: quel Consiglio Nazionale Siriano e quell’Osservatorio siriano per i diritti umani che rappresentano una parte in conflitto. Persino il rapporto degli accondiscendenti osservatori della Lega Araba ha rilevato una realtà ben diversa dovendo prendere atto delle poco pacifiche azioni dei cosiddetti rivoltosi. Ed è bastato questo perchè fosse semplicemente ignorato dai suoi stessi mandanti pur di giustificare l’ennesima risoluzione Onu che farà da l’alibi per una nuova aggressione militare.

Per quanto riguarda l’Iran, dopo aver tentato, inutilmente per ora, la carta della rivoluzione verde, si sta puntando sul lavoro sporco degli ispettori internazionali i cui rapporti assicurano che sta già producendo la bomba atomica e dichiarano di avere le prove della “pistola fumante”, nonostante le smentite che vengono dal governo di questo paese. Via allora alle sanzioni e agli embarghi, al blocco dei fondi esteri di questi paesi, via alla provocatoria presenza di portaerei nello Stretto di Hormuz. Intanto il cane da guardia israeliano scalpita e si prepara esplicitamente a bombardare i siti nucleari, sapendo di avere alle spalle il resto delle potenze occidentali che useranno una inevitabile risposta dell’Iran per giustificare un nuovo sterminio.



Quanto siano strumentali queste accuse e lo sdegno manifestato per le sorti dei civili, lo dimostra la totale assenza di condanna della brutale repressione delle rivolte in corso nei paesi del Golfo da parte di quegli stessi regimi che vorrebbero liberare la Siria dal proprio oppressore: ad esempio l’Arabia Saudita – oltre a non tollerare alcun dissenso interno – ha dispiegato le sue truppe per stroncare una sollevazione popolare nel Bahrein. Ma lo dimostra soprattutto l’assordante silenzio-assenso sulla violenza controrivoluzionaria in atto in Egitto per mano dei “nuovi” governanti, tanto sponsorizzati dalle potenze occidentali, allo scopo di stroncare quella poderosa rivolta che sembra indisposta ad accontentarsi della sola democrazia formale. Il motivo di tale atteggiamento “comprensivo” dipende dal fatto che i proletari egiziani in lotta, con le loro rivendicazioni, attaccano il potere delle classi dirigenti locali ma di fatto gli interessi delle imprese e delle potenze imperialiste.

Per quanto riguarda, invece, l’energia e le armi atomiche, è risaputo che le maggiori potenze mondiali possiedono migliaia di centrali nucleari e di mostruosi arsenali atomici, di cui una parte vanno permanentemente in giro per il mondo su navi ed aerei; oltre che massicce quantità di altre micidiali armi di distruzione di massa, regolarmente utilizzate negli ultimi anni in tutte le missioni di imposizione della loro “democrazia”. Senza contare la “civile” Israele, che possiede almeno 200 bombe atomiche e minaccia di usarle contro lo stesso Iran, mentre mantiene un intero popolo -quello palestinese, a cui ha rubato la sua terra-, in un immenso lager a cielo aperto massacrandolo con continui bombardamenti e assassinii di massa. Gli ispettori internazionali sempre pronti a denunciare i sotterfugi, veri o presunti, dei “paesi canaglia”, in questi casi così eclatanti non stilano nessun rapporto di denuncia, mentre l’Onu ne prende atto, non volendo trovare ragioni di condanna (e come potrebbe essere altrimenti!).

Attentati ed omicidi mirati avvengono quotidianamente nei “paesi canaglia”, in particolare in Iran, da parte dei sicari dei servizi segreti occidentali o dei loro alleati mediorientali. Eppure per i media questo non è terrorismo di stato internazionale, ma “intelligence” di cui andare orgogliosi. Nessuno dei protagonisti di tali efferatezze finirà sul banco del tribunale internazionale, sempre pronto ad un comando delle potenze imperialiste a processare il tiranno di turno (gli Usa ed i suoi cittadini ne sono esentati per default), meno ancora rischiano di finire in qualche Guantanamo o Abu Graib, simboli luminosi della Giustizia e dei valori umanitari dell’Occidente. Anzi i massimi responsabili delle aggressioni, come Barak Obama, vengono insigniti del premio Nobel per la Pace.



Le imminenti aggressioni alla Siria ed all’Iran (altra tappa per andare molto oltre…. fino alla Russia e la Cina) non hanno nulla a che fare né con la protezione dei civili ed i diritti umani, né con l’eliminazione degli incombenti pericoli nucleari sul mondo. Come per la ex Jugoslavia, l’Irak, l’Afghanistan e la Libia, l’obiettivo dei “liberatori” è, molto più terra terra, quello di mettere le mani sulle materie prime di questi paesi e su una ampia forza lavoro a bassissimo costo. Uno scopo che, ovunque non sia stato possibile raggiungere pienamente con il “pacifico” strangolamento economico, ovunque è ostacolato da una classe dirigente refrattaria a subordinarsi totalmente alla rapina imperialista, si punta ad ottenere, oltre che con le pressioni diplomatiche e le sanzioni, anche con il sostegno o la diretta promozione di rivolte interne finalizzate a provocare un cambio di regime con una classe dirigente più disponibile a subire le imposizioni delle grandi potenze. Tutte misure che, in genere, sono il preludio di vere e proprie aggressioni militari esercitate in nome dell’esportazione della democrazia.



A dettare questa accresciuta aggressività verso i paesi periferici c’è la stessa urgente necessità che ispira il giro di vite nelle metropoli imperialiste: aumentare lo sfruttamento ed il saccheggio nel tentativo di uscire da una crisi che uscita non ha.

La politica interna e la politica internazionale sono due facce della stessa medaglia, legate da un nesso inscindibile e unitariamente antiproletarie.

Come denuncia il movimento Occupy USA: l’1% difende con le unghie e con i denti la sua ricchezza ed i suoi privilegi contro il 99% del resto della popolazione mondiale, condannata allo sfruttamento, all’affamamento ed all’incertezza del futuro.

Ed infatti, nel disperato tentativo di recuperare profitti, mentre su scala internazionale si procede con la rapina a mano armata (anche con un progressivo aumento della conflittualità tra i paesi dominanti), nelle metropoli imperialiste, dopo aver provato a trasferire l’immensa bolla finanziaria sui bilanci statali, oggi viene presentato il conto ai lavoratori imponendo politiche di lacrime e sangue che dovrebbero servire proprio a sanare quel debito provocato dal sostegno al grande capitale. Solo negli USA il salvataggio di quasi tutte le banche è costato 1200 miliardi di dollari cash ed altri 2500 trasferiti indirettamente dalla casse statali ai bilanci delle principali banche di affari.

Il caso greco è emblematico della macelleria sociale, della completa deregolamentazione del mercato del lavoro e del supersfruttamento a cui si intende sottoporre anche i proletari da questa parte del mondo. Ma i sacrifici ed il brutale attacco alle condizioni di vita e di lavoro imposti, anche in Italia con le “manovre” degli ultimi mesi, e quelli ancora da venire, non hanno nessuna possibilità di superare la crisi, come la stessa Grecia dimostra. Non a caso i nuovi prestiti a quest’ultima, vincolati ad ulteriori misure antisociali, sono finalizzati unicamente alla restituzione dei debiti già maturati nei confronti delle grandi banche, mentre queste nel frattempo hanno cercato di liberarsi dei titoli di stato greci per lasciare il cerino in mano a qualcun altro. Intanto con la minaccia del default si impongono arretramenti che nemmeno il peggior fallimento dello stato potrebbe determinare.



Questo è il capitalismo e quella che subiamo è la sua crisi come sistema sociale che nulla ha da offrire all’umanità. Non ci sarà salvezza dalla sua crisi senza distruggerne alla radice le cause, che risiedono nelle relazioni sociali dominanti fondate sulla ricerca del profitto.

Naturalmente questa semplice ed evidente realtà ci viene nascosta in tutti i modi e ce ne viene rappresentata un’altra: ci troveremmo di fronte ad una “grave malattia” (?), che andrebbe affrontata e curata per il bene di tutti (?).

Da questa mistificazione nasce la retorica del “bene del paese” che (in Italia, soprattutto con l’insediamento del presunto governo tecnico di Monti) viene seminata a piene mani, allo scopo di rendere il “fronte interno” disponibile ad accettare sacrifici durissimi (alimentando una continua guerra tra poveri), nonché a sostenere la crescente competizione internazionale ed a schierarsi al fianco della propria borghesia contro i proletari di altri paesi e le masse sfruttate dei paesi dominati.



Ed è per difendere gli interessi della “patria” che mentre prosegue il massacro dei salari, delle pensioni e del welfare spostando quelle risorse verso le casse del capitale nazionale ed internazionale, la spesa militare aumenta ovunque.

Naturalmente l’Italia non fa eccezione. Il governo Napolitano-Monti, con un generale come Ministro della Difesa, ha rifinanziato tutte le spedizioni all’estero e riconfermato la decisione - accettata da tutte le forze politiche e programmata dai governi, Prodi prima e Berlusconi poi - di acquistare circa 100 cacciabombardieri F35 capaci di decollare dalle portaerei, che da soli costeranno 12 miliardi di euro.



I fatti ci dicono, quindi, che politica interna antiproletaria e politica estera di aggressione sono intimamente legate.

Non è pensabile ritenere di potersi difendere sul piano interno senza contrastare allo stesso modo il crescente militarismo e la politica di aggressione verso l’esterno.

Per tale motivo la sempre più necessaria ripresa delle mobilitazioni contro gli attacchi del nuovo governo dovrà mettere al primo posto la denuncia della sua natura imperialista ed antiproletaria.

Ovviamente non possiamo aspettarci che ciò possa avvenire per mano di quella cosiddetta sinistra prima sostenitrice del governo Monti e delle sue riforme; né di un sindacato che tranne qualche respiro grosso da troppo tempo “collabora” a risanare l’economia nazionale e si guarda bene dal chiamare ad un’opposizione frontale alle politiche di salasso del governo. Nelle precedenti missioni per “esportare la democrazia”, come nel caso della Libia, abbiamo visto essere proprio la sinistra, Napolitano in testa, a reclamare la difesa degli “interessi vitali” dell’Italia. Non ci possono essere dubbi che la Siria e l’Iran godranno di identico trattamento. Già la Cgil, in combutta con gli altri pacifinti del Tavolo della Pace e dell’Arci, ha dato la sua adesione alla manifestazione del 19 febbraio promossa da referenti del Cns siriano in Italia a sostengo dei rivoltosi, con tanto di appello alla “comunità internazionale” perché fermi i massacri, commessi naturalmente solo dal regime di Assad. Ciò dimostra che l’esplicito sostegno della Cgil alla missione militare in Libia non è stato un indicente di percorso ma una convinta adesione alla difesa degli interessi imperialistici dell’Italia. Ma nel corso dell’aggressione alla Libia non si è avuto solo il sostegno attivo della sinistra istituzionale. Anche nel più ampio movimento pacifista e persino tra gli attivisti della sinistra extraparlamentare è prevalso un atteggiamento di passività, di sostanziale indifferenza rispetto a quanto andava accadendo, con i bombardieri che decollavano dai nostri aeroporti militari per le loro missioni di morte, verso un territorio ed una popolazione dove il nostro stato si è già macchiato dei crimini più orrendi. Segno che la propaganda umanitaria aveva prodotto i suoi malefici frutti.

Contro gli inviti sciovinisti e interventisti, da qualunque parte vengano, ad unirsi sul piano nazionale per difendere l’Italia ed i suoi interessi internazionali, va rafforzata l’unità e la solidarietà internazionalista con i proletari di tutto il mondo, poiché è solo da essa che potrà venire la forza necessaria per respingere il micidiale attacco indirizzato contro i lavoratori e le masse oppresse di tutto il pianeta. Di fronte agli imminenti preparativi di aggressione contro Siria ed Iran, è quanto mai ingenuo (a pensar bene) se non sospetto, fare appello all’ONU, il covo dei briganti imperialisti e primo corresponsabile di tutte le aggressioni attuate negli ultimi anni.

Vanno invece promosse iniziative di controinformazione e di mobilitazione contro l’imperialismo a partire da quello italiano in cui si denunci proprio il ruolo di quella comunità internazionale in cui si annidano i piromani e non i pompieri che dovrebbero spegnere l’incendio.

Collettivo Red Link

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