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La Cina è vicina

La Cina è vicina

(17 Agosto 2010) Enzo Apicella
Il prodotto interno lordo cinese ha superato quello del Giappone, ed è secondo solo a quello degli Usa

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Declino industriale o rovina popolare?

Appunti e spunti sulla crisi attuale

(1 Giugno 2004)

1) Dal punto di vista della successione dei modi di produzione, il modo di produzione capitalistico, dopo aver attraversato la curva ascendente della sua parabola storica (manifatturiera, prima; industriale e della libera concorrenza, poi), a partire quantomeno dal 1914 e con la generalizzazione della fase monopolistica ed imperialistica, è entrato nella sua curva discendente.

2) Dal 1914 al 1945, circa, è riuscito a superare una crisi trentennale, strutturale e generalizzata, culminata con il tracollo del 1929, mediante ben due guerre imperialistiche mondiali, decine di milioni di morti e distruzioni immani. Hiroschima e Nagasaki, sul fronte Usa, e i campi di concentramento nazisti, sul fronte tedesco ne testimoniano la fine storica: a Hiroshima e ad Auschwitz non è morto dio (che non è mai nato), è morto il capitalismo, come sistema economico-sociale.

3) Dal 1946 al 1966, circa, il capitalismo a livello mondiale si è avvitato in una spirale di crescita economica, sospinta dalla riproduzione allargata degli Usa, trasformatisi in una macchina di profitti e di guerra, apparentemente senza fine. Tuttavia, questo ventennio di sviluppo capitalistico non ha fatto altro che aggravare il sotto-sviluppo, l’arrettratezza e il divario della maggioranza dei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, e dei 4/5 della popolazione mondiale. Si sono arricchiti un pugno di occidentali e di giapponesi, sulle spalle di miliardi di africani, asiatici, e latino americani; e mediante lo sfruttamento, intensivo ed estensivo, dei rispettivi proletariati.

4) Gli anni 1967 - 1974 sono stati caratterizzati da recessione, crisi del dollaro e guerra del petrolio. Le contraddizioni sono venute drammaticamente al pettine con le esplosioni sociali avviatesi col maggio francese del 1968, seguite dalle manifestazioni studentesche di tutto il mondo, e da un nuovo, poderoso ciclo di lotte operaie, in Italia e altrove. L’imperialismo Usa ha cominciato a mostrare la corda e, con la bancarotta del dollaro dell’agosto 1971, è iniziato il suo lento ma inesorabile declino, solo rinviato con la guerra del petrolio scatenata nel 1973.

5) Negli anni 1975 - 1979, con l'avvio di una fase di stag-flazione ha mosso i primi passi il capitalismo parassitario.

6) Nel periodo 1979 - 1992, iniziato con lo shock petrolifero del ’79, il capitalismo mondiale si è avvitato grazie ad una reazione produttivistica, che si è nuovamente inceppata a cavallo tra il 1992/93.

7) Tra il 1993 - 2000 abbiamo avuto un nuovo ciclo espansivo, trainato soprattutto dalle nuove tecnologie informatiche e dalla bolla speculativa della “new economy”.

8) In questi ultimi anni (2001 - 2003), abbiamo assistito allo scoppio della bolla speculativa, ad una nuova crisi, all'esasperazione del capitalismo parassitario, dell’aggressivismo imperialistico ed inter-imperialistico; e alla completa finanziarizzazione dell’economia.

9) Ci troviamo, ormai, da 3 anni, soprattutto in Italia, nel pieno di una fase di crisi, caratterizzata da una reiterata riproduzione rattrappita (stagnazione), con momenti recessivi, accompagnata da piccoli segni di ripresa, subito rientrati, in un quadro di inflazione strisciante. Gli Usa, invece, paiono da alcuni mesi aver imboccato la via della ripresa, zavorrata tuttavia da un immane debito pubblico, da un colossale debito commerciale e da un inaudito indebitamento delle famiglie. Una ripresa, inoltre, trainata dal “dollaro debole”, ma soprattutto dall’emergente capitalismo cinese e favorita dalle continue guerre di aggressione (Kosovo, Afghanistan, Irak). Vediamo, più in dettaglio, gli aspetti peculiari della crisi in Italia.

10) Dal primo trimestre del 2001 l'economia italiana si trova nella più lunga fase di ristagno degli ultimi 50 anni

Dopo il primo trimestre del 2001 l'espansione dell'attività produttiva è stata pressoché nulla. Si tratta della più lunga fase di ristagno in mezzo secolo. A partire dal 2002 ha registrato un forte rallentamento rispetto al tasso medio di sviluppo del precedente quinquennio (1997-2001).

L'Italia è, quindi, entrata in recessione all'inizio del 2003, con una dinamica negativa del processo di accumulazione del capitale, visto che gli investimenti fissi lordi sono calati nel 2003 del 2,1 per cento. In presenza di una significativa accelerazione dell'interscambio mondiale di beni e servizi in Italia le esportazioni hanno registrato nel 2003 una contrazione del 4 per cento, dopo essere già scese dell'1,4 l'anno prima. Questi risultati hanno provocato un'ulteriore erosione delle quote di mercato; tra il 1998 e il 2001 l'incidenza dell'export italiano è calata dal 14,5 al 13,5 per cento per i flussi interni all'Eurozona e dal 12,3 al 10,6 per cento per quelli indirizzati all'esterno di quest' area.

La produzione industriale è stagnante o in caduta da circa 38 mesi mentre durante l’ultima crisi grave – quella del ’92 – la risalita cominciò dal 19° mese.

Se il ciclo della riproduzione resta rattrappito o addirittura negativo, significa che i profitti ricavati non vengono man mano reinvestiti nella produzione, bensì nella speculazione (mobiliare ed immobiliare). E se i profitti non vengono reinvestiti vuol dire che il saggio generale di profitto è troppo basso per rendere appetibile l’investimento produttivo. L’unico modo per rianimare il saggio generale di profitto è distruggere capitale (costante e variabile). Cioè chiudere reparti e stabilimenti interi; mettere gli operai in Cig, in mobilità o licenziarli tout court; evitare assunzioni stabili, privilegiando le occupazioni precarie, saltuarie e flessibili. In una parola: occorre ripristinare l’esercito industriale di riserva al livello precedente il 2001, al fine di piegare la resistenza della classe operaia e farle accettare salari più bassi, orari più lunghi, ritmi più intensi. Vediamo come ciò sta avvenendo.

- a) La distruzione di forza-lavoro

Gli occupati nelle grandi imprese industriali stanno diminuendo al ritmo di circa 25.000 all’anno. Al febbraio 2004, 2.353 imprese risultano a rischio. I lavoratori coinvolti in cassa integrazione, cessazione d'attività, mobilità, sono oltre 126 mila; l'anno scorso la Cisl ne calcolava 82 mila. Se poi si aggiungono anche i lavoratori di aziende in amministrazione controllata (Parmalat, Cirio, ecc.) il numero sale a più di 140 mila. I comparti coinvolti sono particolarmente il metalmeccanico (a rischio quasi 47 mila lavoratori) e il tessile (38 mila). Ci sono due grandi aree di difficoltà: le grandi imprese e quelle medie attive soprattutto nell'esportazione. Ci sono le Fiat e le Parmalat, quindi, ma anche imprese più piccole e pure d'importanza strategica per il territorio in cui operano (es. la Molisana di Campobasso, pasta di qualità; la ligure Ferrania, pellicole fotografiche; ecc. ecc.).

Una buona misura della crisi è l'aumento della cassa integrazione (+31,6% rispetto all'anno scorso), soprattutto di quella straordinaria (+70,4%). Nel settore metalmeccanico la crescita di questo dato rispetto al 2003 è impressionante: + 53,6%; nel tessile va appena meno peggio: +18,1%. L'impennata della cassa integrazione straordinaria segnala una situazione di emergenza permanente, cui le aziende cercano di far fronte con strumenti propri di una situazione eccezionale, e che invece il governo sta concedendo con estrema facilità, quasi a ratificare la normalità dell'emergenza. Le crisi strutturali hanno il sopravvento su quelle passeggere.

La ripartizione delle sofferenze industriali per regione segnala in particolare le difficoltà del Piemonte (dove la crisi Fiat pesa molto anche sull'indotto), della Lombardia (oltre 46 mila lavoratori coinvolti in ristrutturazioni o crisi) e della Campania; in situazione più lieve appaiono invece Umbria (13 aziende in crisi, meno di mille lavoratori) e Calabria (12 aziende, 900 lavoratori). Il tessile di Prato e i mobili della Brianza, l'elettronica di Varese e le scarpe della Puglia: questi i distretti industriali più in difficoltà.

- b) Delocalizzazione e multinazionali estere

Se da un lato ci sono le manifatture che si trasferiscono nei paesi (Romania, Cina, ecc.) dove il costo del lavoro è estremamente basso, dall'altro ci sono le multinazionali estere che in Italia fanno i loro comodi e se ne vanno quando vogliono (v. acciaierie di Terni passate in mano dei proprietari tedeschi della ThyssenKrupp i quali, dopo aver minacciato di cancellare il settore del lamierino magnetico, hanno in programma almeno 161 esuberi).

- c) La riorganizzazione siderurgica

Lo smantellamento dell’Iri-Finsider, e lo smembramento dell’Italsider, non hanno ridotto la capacità produttiva siderurgica italiana: siamo al secondo posto in Europa e al decimo nel mondo. Invece del gigante di Stato abbiamo tanti grandi, ma più gestibili, e profittevoli, imprese, capitanate dai vari Riva, Rocca, Lucchini, Marcegaglia, ecc.

- d) Finanziarizzazione dell’economia

Sempre più pesante, invece, si presenta l'indebitamento delle imprese italiane nei confronti del sistema bancario. Solo quelle quotate in Borsa, nel 2002, assommavano a 488 miliardi di euro di debiti, più di un terzo del debito pubblico italiano (Gemina; Ifi-Ifil-Fiat; Parmalat; Pirelli-Telecom; Aurelia; ecc.). Al contrario Eni e Finmeccanica (energia ed economia di guerra, statali) godono buona salute.

11) Il nuovo ruolo del capitalismo monopolistico di Stato

Dal 1933 al 1993, cioè per circa 60 anni l’Iri ha lavorato in perdita per consentire ai capitalisti italiani di lavorare in attivo, anche nei periodi di crisi. Nel dopo-Iri, e dopo l’ondata di smobilizzi e di privatizzazioni iniziata nel 1993, culminata con la nascita di Telecom Italia nel 1997, i gruppi industriali statali (con l’eccezione di Alitalia) mietono più profitti dei gruppi privati, forti delle loro posizioni di monopolio strategico. Ciò perché l’Italia è ormai diventata una compiuta economia di guerra, basata sui settori energetici (Eni, Enel), sistemi d’arma e aerospazio (Finmeccanica), cantieristica navale (Fincantieri), e telecomunicazioni (Telecom Italia); che trainano uno stuolo di produttori privati di armi e munizioni. Questo è l’attuale asse portante del capitalismo italiano. Dei 5 colossi citati, ben 4 sono a controllo statale. Guarda caso l’unico privato (Telecom), è quello più indebitato, quindi tipica espressione del capitale finanziario.

Vuol dire che, ora, si socializzano i profitti, e si privatizzano le perdite? Assolutamente no! I debiti dei gruppi privati vengono accollati alle masse tramite l’ingegneria finanziaria, borsistica e fiscale: imposte indirette e tasse sui servizi sociali (tickets, ecc.), da una parte; rapina sistematica dei piccoli e medi risparmiatori (Cirio, Parmalat, ecc.) e mille truffe finanziarie di ogni tipo, dall’altra. I sovra-profitti dei monopoli statali, ottenuti anche grazie ad una politica imperialistica sempre più aggressiva, rifluiscono nelle tasche dell’oligarchia finanziaria dei “padroni d’Italia”, mediante leggi e leggine, decreti e circolari ministeriali, che assicurano loro sgravi fiscali, condoni, finanziamenti a tassi di favore e/o a fondo perduto. La differenza di fondo consiste nel fatto che al posto di aziende pubbliche che producono in perdita, pur di garantire l’occupazione e, quindi, la base elettorale della prima Repubblica (Dc, Psi, Pci); ora abbiamo monopoli strategici, a controllo statale, che mietono profitti e sovra-profitti, tagliando tutti i rami in perdita e marginali rispetto alle esigenze dell’economia di guerra. La base elettorale della seconda Repubblica viene assicurata, ora, dal monopolio mediatico (Tv-radio-carta stampata), che ha trasformato il popolo italiano in un pubblico da imbonire e rincitrullire, e soprattutto da una rete capillare e ramificata di affarismo e corruzione generalizzate.


Conclusione

La crisi attuale, iniziata alla fine del 1° trimestre 2001, è una crisi mediante la quale il capitalismo italiano sta cercando di rianimare il saggio generale di profitto, calato nel corso degli anni precedenti, mediante il rafforzamento dei settori di punta trainati dal nuovo capitalismo monopolistico di Stato, fondato sull’economia di guerra e sull’espansionismo armato. Il tratto distintivo della crisi attuale è il tentativo di ripristinare un più esteso esercito industriale di riserva, soprattutto sotto forma di armata mobile del lavoro flessibile e precario.

Pertanto, invece di accodarci passivamente al piagnuccolìo su un inesistente “declino industriale” italiano, da rianimare con un nuovo patto sindacal-confindustriale; vediamo di organizzarci in un’armata, si ma proletaria e rivoluzionaria, onde trasformare la crisi attuale del capitalismo italiano, e internazionale, nella sua tomba. In caso contrario, saranno i capitalisti a scavarci la fossa e a riprendersi alla grande, per un nuovo ciclo di sfruttamento operaio e di lauti profitti.

s.b.

Fonte

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