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Capitalismo senza capitali?

E’ un ritornello bi-partisan, che si ripete da vecchia data, secondo il quale l’Italia sarebbe un “capitalismo senza capitali”, o con scarsità di capitali (privati).

(2 Giugno 2004)

Professori, economisti, giornalisti, politici lo ripetono come fosse un dogma, o una tale ovvietà, sulla quale tutti concordano, e non potrebbe essere altrimenti.

Sul piano teorico, un capitalismo senza capitali, è un non senso. Ogni modo di produzione capitalistico si caratterizza per la polarizzazione sociale tra chi detiene i mezzi di produzione (capitalisti) e chi non li detiene, ed è pertanto costretto a vendere la propria forza-lavoro (operai). Pertanto, chi si riempie la bocca di questo ritornello confonde, tanto per cominciare, “capitale” in genere con “capitale monetario”.

Sul piano storico, ho già risposto, e in senso critico, nel post sull’ accumulazione originaria in Italia. In esso ho sostenuto “che quello italiano non è tanto un capitalismo senza capitali … bensì un capitalismo senza veri e propri capitalisti industriali, e con un proletariato super-sfruttato ma con un bagaglio di lotta di classe pluri-secolare”.

Francesco Rossi (della ditta tessile F.lli Rossi di Schio), nel 1872 disse: "Non credo che manchi il capitale in Italia, bensì in massima fece prima difetto la fiducia dei capitalisti nelle imprese e negli uomini che le dirigevano". Egli distingueva tra "industriali" e "capitalisti", come gruppi aventi interessi contrastanti: quelli, bisognosi di abbondanti capitali a buon mercato; questi, invece, rifuggenti dai prestiti alle industrie e orientati verso impieghi speculativi (già allora!). Ed è ovvio, perchè chi presta(va) denaro alle industrie esige(va) interessi non inferiori a quelli altissimi che poteva ricavare, agevolmente e senza rischi, da investimenti in altri campi, come il debito pubblico e le speculazioni ferroviarie, interessi che non lascia(va)no margini al profitto d'impresa. Nell'Italia post-unitaria un industriale trovava a fatica, e dai privati (le banche erano quasi interamente dedite alle speculazioni) il denaro al 6%, mentre in Inghilterra lo sconto era del 3,5% o al massimo del 4%.

Sempre nel 1872, l'industriale Pietro Giacone di Marsala, parlando dell'incameramento dei beni ecclesiastici, ebbe a dire che "quei beni [sono] passati dalla manomorta ecclesiastica alla manomorta ... baronale": aveva detto tutto, già da allora, in due parole! Cioè, che i patrimoni monetari (cospicui), detenuti dall’aristocrazia agraria, furono investiti in terreni prima, e in speculazioni immobiliari poi.

Ecco perché, fin dai primi passi del capitalismo italiano, sono mancati i capitali monetari ai (relativamente pochi) imprenditori industriali. Essi hanno continuato, lungo i decenni, a essere prevalentemente investiti, oltre che nel settore immobiliare, in obbligazioni ferroviarie ed elettriche e, infine, in quelle statali (bot, cct, ecc.). Una parte, ogni tanto, si “degna” di fare qualche (grossa) capatina speculativa (v. Montedison allora, o Telecom ora). Solo le briciole si riversano nelle attività produttive vere e proprie, e solo in quelle più profittevoli.

Stante così le cose, è ovvio che il sistema industriale in Italia ha potuto e può svilupparsi solo grazie all’intervento statale e alle banche. Lo Stato, raccogliendo denaro mediante le imposte, le obbligazioni pubbliche e il risparmio postale; le banche, mediante i depositi dei correntisti. Infatti, in Italia abbiamo un capitalismo finanziario monopolistico di Stato.

Concludendo, i capitali monetari ci sono eccome (si parla addirittura di “eccesso di liquidità”!), ma come ogni capitale che si rispetti (e si fa rispettare per forza e con la forza), si investono là dove trovano più convenienza (oggi: i settori energetici, tlc e tutti quelli legati all’economia di guerra). E c’è ancora qualcuno che crede al “capitalismo sociale”, da raggiungere mediante le “public companies” o altre amenità del genere

s.b.

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