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Maestà, torniamo allo Statuto!

(23 Marzo 2012)

Di “estremismo liberista” e dell'illusione del governo “tecnico”, scrive con accenti ormai preoccupati Lelio Demichelis, a proposito di Monti, ricordando “la grande differenza che c'è tra politiche liberiste e liberali“. E non è un caso isolato. “Abbiamo sentito con fastidio e anche con rabbia le ultime parole del Presidente Napolitano sulla trattativa sindacale sull'articolo 18”, scrive a sua volta Cremaschi su Micromega, ricordando a Napolitano che l'Italia non è una monarchia. In quanto a Matteo Pucciarelli, pacato nella forma, rischia il vilipendio per la sostanza, ma ha il cuore di dirlo: “Il Presidente del Consiglio è Giorgio Napolitano” e fa apertamente cenno a una” tecnica del colpo di Stato“.
E' difficile negarlo: il centro nevralgico della vita politica della Repubblica non è più il Parlamento, ma il Quirinale, promotore d'una campagna insistita e costituzionalmente discutibile a favore di un’idea di “coesione nazionale”, astratta, per certi versi astorica e moti altri pericolosa. Il concetto chiave è semplice, ma ha un forte impatto non solo mediatico: esiste un generico e tuttavia supremo “interesse di tutti”, dai connotati vaghi, ma fortemente gerarchici, che prevale sui bisogni vivi inderogabili, concreti e palpitanti di giovani, lavoratori, e disoccupati. L'interesse di un “signor nessuno”, dietro cui si celano, però, evidentemente le banche e i ceti più abbienti, per il quale si possono e, anzi, si devono negare quelli che il Presidente definisce senza esitazioni “interessi particolari”, e sono, invece, i diritti delle classi subalterne.
Per giustificare una siffatta superiorità, che pare “al di sopra delle parti” ma è profondamente di parte, c'è stato chi in passato è giunto ad affermare che “non occorre il blocco delle masse piegate”, perché “valgono assai meglio a questo fine le minoranze volitive, aristocratiche, che sono, in fondo, le antesignane di ogni battaglia. Il grosso della masse, infatti, messo in condizioni di non nuocere, è rimorchiato sempre dai migliori”. E' una concezione “confindustriale” o, meglio, padronale della società, entro la quale il lavoro - e al suo fianco la formazione - o procedono in sincronia con le regole del “libero mercato”, perno del sistema, sole tolemaico attorno al quale tutto ruota in funzione subordinata, o si rendono colpevoli di un “tradimento”. Spiace dirlo ma, in una Repubblica parlamentare, questa concezione della vita politica, economica e sociale, che fu di Arnaldo Mussolini, non ha - o almeno non dovrebbe - trovare cittadinanza e più che un assalto liberista alle società dei diritti, la natura “tecnica” del governo Monti, apertamente e malaccortamente sostenuto ad ogni pie' sospinto da Napolitano, chiama alla mente le parole ciniche ma tremendamente efficaci di Malaparte, un letterato che attraversò epoche storicamente contrapposte e ci ricorda che “la questione della conquista [...] dello Stato non è un problema politico, ma tecnico”. E da “tecnici”, guarda caso, ci parlano Monti e suoi ministri che, tuttavia, per molti, formano ormai soprattutto il governo politico di Napolitano.
D'altra parte, alla luce di quanto accade nella cosiddetta “trattativa” sul mercato del lavoro, escono dall'ombra e balzano in luce meridiana inquietanti punti di contatto tra la concezione ripetutamente espressa da Napolitano e alcuni dei temi classici che furono alla base della riflessione sullo Stato autoritario. Per cominciare, l'idea di Bottai che gli astratti doveri verso un'idea di Stato di natura etica precedono la concretezza dei diritti, sicché non fa scandalo che una trattativa con il padronato sul terreno dei “sacrifici” si realizzi su un piede che non può essere considerato di parità, dal momento che lo Stato, arbitro e allo stesso tempo parte in causa, si schiera e disciplina in maniera giuridica unilaterale i rapporti collettivi di lavoro, resi di fatto subalterni alle scelte degli imprenditori. E' un’idea chiaramente corporativa delle “relazioni sindacali”, venata da una sottile, ma evidente vena mussoliniana; quella per cui in fabbrica esiste una gerarchia e la sua natura è squisitamente tecnica.
In questa logica di “militarizzazione” della politica in nome di un'equivoca union sacrée, il governo che interviene nella dialettica tra le classi, impone un'idea di solidarietà alla rovescia, che cancella i diritti dei lavoratori in nome di un “superiore interesse nazionale” dei padroni e, per dirla alla Bottai, manifesta la volontà tipica dello Stato corporativo, di eliminare dai rapporti sindacali il “ramo secco” della mediazione politica. Ne esce stravolta un'idea di democrazia che non fu di De Gasperi o Pertini, ma risale all'alba del Novecento e all'Italia liberale e prefascista. I riferimenti, per esser chiari, non sono Giolitti e Nitti, ma Rocco, il cui pensiero fu volgarizzato nella celebre formula per la quale: “tutto è nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato”. Rozza quanto si voglia, è una formula che sembra spiegare la posizione più volte assunta da Giorgio Napolitano, quando ha invitato i Presidenti delle Camere a modificare i regolamenti parlamentari, a votare rapidamente, senza troppe discussioni, una eccezionale e dolorosa legge finanziaria e - siamo a ieri - quando ha dettato le regole al sindacato, ripetendo senza la minima prudenza istituzionale che è tempo di smetterla di discutere, perché di fronte alla crisi non si possono difendere posizioni particolari. Per Napolitano, quindi, garante della Costituzione della Repubblica fondata sul lavoro, chi lotta per la tutela dei lavoratori difende “interessi particolari”.
A questo punto siamo, al punto che se il reazionario Sonnino ripetesse oggi il suo invito, nessuno troverebbe di che ridire: “Maestà, torniamo allo Statuto!”.

Giuseppe Aragno

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