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I Cobas nel cuore delle lotte

Capitolo 4 del libro di P. Bernocchi «Nel cuore delle lotte - La resistenza al capitalismo dal '68 alla guerra in Iraq»

(8 Giugno 2004)

D: Quali sono le origini, come sono nati i COBAS?

Per certi versi potremmo dire che i nostri antesignani sono stati i Comitati Unitari di Base[1] degli anni Sessanta e Settanta: ma tra quelle esperienze e la nostra ci sono notevoli e numerose differenze. I COBAS veri e propri nascono nella scuola tra la fine del 1986 e l’inizio del 1987. Inizialmente l’acronimo CO.BA.S (con i puntini separatori) voleva dire Comitati di Base della Scuola: poi il termine, escludendo i puntini, è divenuto un nome proprio, inserito addirittura nei vocabolari e utilizzato da tutti come acronimo per Comitati di base. I COBAS originari, quelli della scuola, si mossero fin dall’inizio su due direttrici: una era l’idea che si potesse fare sindacato non in maniera professionistica, che i lavoratori si potessero organizzare senza aver bisogno di persone che di mestiere fossero addetti alla contrattazione e “distaccati” per sempre dal posto di lavoro. Volevamo che i lavoratori potessero occuparsi della loro condizione lavorativa senza dare deleghe a dei mestieranti della trattativa, occupandosi invece, in prima persona, di tutto ciò che riguardasse la propria condizione lavorativa e quella, più generale, della scuola pubblica e della società circostante.

Coloro che fondarono i COBAS, a partire da Roma ove era il nucleo originario, erano tutta gente politicizzata , in gran parte militanti che provenivano dalle esperienze politiche degli anni Sessanta e Settanta e che spesso avevano scelto di fare l’insegnante anche per poter aver più tempo libero e strumenti culturali da dedicare all’attività politica e sociale complessiva. Quindi il progetto COBAS nasce con alcune peculiarità significative, perché è peculiare la storia e le condizioni di coloro che lo fondarono e anche della prima “leva” che li diffuse a livello nazionale. Il secondo elemento caratteristico dei COBAS - il rifiuto della separazione tra attività politica, sindacale, sociale e culturale – si svilupperà con piena chiarezza un po’ più tardi, a partire dai primi anni ’90, anche se, fin dall’inizio, è chiara la volontà di non limitarsi a fare “solo sindacato”.

Il tentativo è davvero originale, in Italia e in Europa: anche se, volendo forzare un po’ gli accostamenti, ci si può vedere anche un impulso a tornare ad alcune caratteristiche dei sindacati delle origini, ad un certo sindacalismo ottocentesco, che non separava la lotta immediata dai progetti di trasformazione globale della società, né l’attività vertenziale da quella politica più ampia. Ma anche a questo proposito le analogie sono almeno tante quante le differenze e l’accostamento ad esempio all’anarco-sindacalismo appare forzato: il nostro approccio alla politica è certamente più complesso, articolato, direi sofisticato di quello del cosiddetto sindacalismo rivoluzionario dei primordi. Noi abbiamo cercato di essere un’organizzazione sindacal-politica che non effettua separazioni tra le lotte del presente e quelle dell’avvenire, tra le lotte nella società attuale e i progetti di trasformazione verso la società futura desiderata, tra lotte nazionali e lotte internazionali. Questa separazione tra la politica e azione rivendicativa (che poi in tanta politica novecentesca del movimento operaio ha significato concretamente da una parte trovare uno spazio nella società esistente entrando nelle istituzioni, e dall’altra parte ridursi alla contrattazione della vendita delle forza-lavoro al miglior “prezzo” e alle migliori condizioni possibili, con una scissione netta che ha affidato il primo terreno al Partito e il secondo al Sindacato) oggi appare in notevole misura superata dai fatti e dalla stretta interconnessione che il capitalismo odierno impone tra locale e globale, settoriale e generale, economico e politico. Dove inizia il politico e finisce il sindacale? Dove inizia la questione di politica interna e finisce quella internazionale? Dove inizia una questione sociale e finisce quella sindacale? Tutto è oggi ormai inestricabilmente interconnesso. I COBAS quindi non sono solo un sindacato, non si battono solo per migliorare le condizione di lavoro ma si pongono l’obiettivo di intervenire su tutti gli aspetti che coinvolgono la vita del lavoratore.

Il movimento COBAS che nasce nelle scuola alla fine degli anni Ottanta è anche la prima grande esplosione del lavoro intellettuale in via di “proletarizzazione”, dell’intellettuale-massa. È un movimento che si identifica nella lotta per difendere la scuola pubblica e nella lotta contro l’aziendalizzazione della scuola e la mercificazione dell’istruzione: e questo dà ad esso un ampio respiro politico, sociale e culturale che va al di là della pura difesa sindacale delle condizioni di lavoro negli istituti scolastici. Inoltre i COBAS nascono con una forte carica antiburocratica, contro il potere corporativo e para-mafioso dei sindacati confederali. Su questa base nel 1987, in pochi mesi, si sviluppano, soprattutto a partire dalla questione salariale e da lotte anti-gerarchiche e anti-carrieristiche, una marea di Comitati di base in tantissime scuole. Ciò condurrà a varii scioperi e ad un prolungato blocco degli scrutini che durerà alcuni mesi. Il dilagare di questo processo su scala nazionale è interrotto nel 1988 quando avviene la scissione della GILDA ovvero di una componente professional-corporativa che in una prima fase si era riconosciuta negli obiettivi generali del movimento ma poi aveva attaccato l’egualitarismo e la linea dell’unificazione con le spinte analoghe presenti in altre categorie di salariati, riaffermando invece il primato dell’insegnante nella scuola e una rivendicazione di riconoscimenti professionali e di privilegi salariali e normativi oramai fuori dalla realtà.

In quel momento i COBAS cessano di essere un movimento davvero trasversale e onnicomprensivo, molti lavoratori/trici devono scegliere in una battaglia tra linee che spesso non capiscono e non vorrebbero e molti, in realtà, se ne tornano a casa: ma da quello stesso momento i COBAS diventano la sigla di tutto ciò che mette in crisi il sindacalismo tradizionale, che difende strenuamente gli interessi dei lavoratori e l’acronimo finisce sui dizionari della lingua italiana come un’inedita forma dell’agire sociale e sindacale, radicale e intransigente, in conflitto con il sindacalismo di mestiere tradizionale e concertativo. Sull’onda dei COBAS della scuola nascono altre strutture “COBAS” prima nelle ferrovie poi nell’industria. In quel passaggio credo che si commisero degli errori. Prima non intervenimmo adeguatamente su quella generalizzazione e non riuscimmo a lavorare su un progetto complessivo. Assistemmo compiaciuti al diffondersi dei Comitati di Base, senza cercare davvero l’unità. Per esempio quando sorse il COMU (Coordinamento dei Macchinisti Uniti) alla fine degli anni Ottanta non riuscimmo a stabilire un serio collegamento e da lì “incendiare la prateria” negli altri settori, anche perchè a loro volta i macchinisti preferirono lottare come sotto-categoria senza neppure cercare sul serio momenti di unità con il personale viaggiante e con gli altri lavoratori delle ferrovie e dei trasporti. Così la sigla COBAS finì di lì a poco per assumere due significati diversi. Da una parte i COBAS, per una certa “opinione pubblica”, erano i più radicali, i più decisi, quelli schierati sia contro la destra politica e sindacale sia contro certa ”sinistra” dominante che faceva propri i contenuti della conservazione e della difesa dello status quo; ma per altri erano anche coloro che corporativamente facevano leva ed esasperavano la microconflittualità di spezzoni di categorie che, invece di cercare una più ampia unità, curavano soprattutto la difesa ad oltranza del proprio “orticello”.

Così quando a Milano – a partire dall’Alfa Romeo – Malabarba, Canavesi, Delle Donne[2] (tutti compagni che non a caso venivano dalle lotte degli anni Settanta) – iniziano a pensare alla fondazione di COBAS dell’industria, noi li incoraggiamo ma allo stesso tempo forse esageriamo con una interpretazione un po’ troppo letterale dell’auto-organizzazione, un’auto-organizzazione in cui ognuno viaggia parallelamente e deve fare da sè ma perdendo di vista l’interazione reciproca e la necessità di strutture nazionali che piano piano si costituissero, con un aiuto da parte di chi stava già più avanti, in ogni settore di conflitto. Questo rapporto nascente finisce su un binario morto nel momento in cui entra nei COBAS dell’industria anche il gruppo napoletano della Fiat di Pomigliano raccolto attorno a Mara Malavenda e a Vittorio Granillo[3]. Essi introducono nell’azione COBAS una forzatura classicamente “emmelle”, non accettando davvero l’unità del politico e del sindacale e ripristinando invece l’idea che i Cobas siano un sindacato per il grosso degli iscritti/aderenti e una specie di partitino per ristretti nuclei dirigenti molto politicizzati, che usano la sigla Cobas come terreno di coltura per la costruzione dell’avanguardia politica, stile Servire il Popolo[4]. Questo incontro paradossale tra due realtà così diverse tra loro (molto politicizzati ad Arese, per lo più di estrazione trotzkista o “autonoma” anni ’70, emmelle/maoisti/populisti a Pomigliano) produce quello strano incrocio che è il “sindacato COBAS”. Si costituisce lo Sla- Cobas (che poi per questioni giuridico-burocratico diverrà Slai), che sta per Sindacato lavoratori autorganizzati-Cobas. E la sigla contraddittoria (i Cobas si costituiscono anche con il postulato che non sono solo un sindacato, che svolgono funzioni sindacali ma non solo) spiega come lo Slai intenda raccogliere sì la spinta innovatrice dei COBAS ma per racchiuderla in un più prosaico sindacato che solo in seconda battuta si propone come una sponda politica. Da quel momento in poi loro seguiranno la loro strada che produrrà successivamente una scissione dello SLAI COBAS che partorirà il SIN COBAS, ossia sostanzialmente il gruppo sindacale legato alla IV Internazionale di Maitan, la corrente interna del PRC di Bandiera Rossa, con Luigi Malabarba come esponente più significativo.

D: Quali sono gli elementi che invece vi dividono dalla CUB-RdB?

B: Il progetto CUB (Confederazione Unitaria di Base) nasce con l’idea di riunificare in pura chiave sindacale tutto ciò che si muove a “sinistra” di Cgil, Cisl e Uil. Parte all’inizio degli anni Novanta dalla scissione della FIM CISL di Milano, con la fuoriuscita di quadri rispettabili ma fortemente influenzati dal vecchio sindacalismo radicale degli anni Sessanta-Settanta, e dall’incontro con le RdB (Rappresentanze di Base) che sono il parto sindacale di una componente del movimento del ’77 romano, l’Organizzazione Proletaria Romana[5], che interveniva non solo tra i lavoratori – specialmente del pubblico impiego – ma anche fra gli occupanti di case , gli studenti, ecc. Le RdB costituiscono una struttura su due livelli, che scinde profondamente l’attività politica dal sindacato. Così mentre noi, nel nostro statuto, affermiamo apertamente di essere per il superamento di una società basata sullo sfruttamento, sul profitto e sulla mercificazione globale e abbiamo una forte connotazione politica antagonista all’esistente, le RDB lasciano aperte le porte a tutti/e, hanno discriminanti “ideologiche” e culturali persino più modeste di quelle della CGIL.

Questo incontro fra ex-cislini e una componente dell’autonomia romana inizialmente è molto strumentale, CUB e RdB cercano di riempire uno spazio che si è aperto con la crisi dei confederali all’epoca dei “bulloni”, ma in senso molto tradizionale, da “nuovo” sindacato che cerca un suo spazio garantito accanto ai confederali, sempre al limite del sindacato autonomo classico, con una riverniciatura da “sinistra di base” di tanto in tanto, che non va mai in profondità. Un sindacato con un buon numero di funzionari (in percentuale non meno dei confederali), distaccati quasi tutti in modo permanente dal loro lavoro di origine, in lotta per la conquista della rappresentanza a tutti i costi, che firma anche regole-capestro e contratti repellenti pur di avere la rappresentatività e i distacchi garantiti. Noi non ci riconosciamo in un simile progetto: per noi sarebbe elemento di crisi avere all’interno dei COBAS ad esempio lavoratori leghisti o di Alleanza Nazionale, ma soprattutto è per noi inaccettabile non mettere dei paletti ideali, culturali e politici ben definiti.

Pur in questo quadro noi proponemmo nel passato, a varie riprese ma sostanzialmente tra il ’93 e il ’98, a Cub/RdB patti federativi o almeno patti di consultazione permanente al fine di raggiungere un’unità d’azione. Tuttavia il loro atteggiamento da “grande potenza”, che non puntava alla collaborazione ma allo strangolamento/assorbimento delle altre realtà, l’estrema spregiudicatezza di linea che li porta a fare scelte in base quasi esclusivamente alla convenienza da apparato, ha condotto al fallimento di qualsiasi intento unitario. Tra l’altro, nonostante la loro ossessionante ricerca del “riconoscimento” formale, oggi alla CUB-RdB viene riconosciuta la rappresentanza solo in alcuni comparti del Pubblico impiego, tra l’altro piuttosto marginali; non sono riusciti a portare a compimento la loro ipotesi da “grande potenza” nè a garantire a molte realtà di lavoratori la rappresentanza; ma hanno comunque un discreto numero di iscritti, una “cassa” sufficientemente cospicua, operano in alcuni gangli dell’apparato pubblico e curano assai bene i loro interessi di apparati: dunque, poiché non hanno particolari ambizioni politico-ideologiche, potrebbero tirare avanti a lungo il loro tran-tran.

D. Non pensi che queste divisioni tra i sindacati di base possano essere viste come il frutto del solito settarismo di gruppi dirigenti, già abituati dai movimenti degli anni Settanta al leaderismo e alla protezione del proprio orticello, per piccolo che sia?

B. Per quel che riguarda le divergenze tra COBAS e CUB certamente no, sono modelli assolutamente diversi che in qualsiasi altro paese di Europa nessuno accosterebbe, attribuendo loro la comune etichetta di “sindacati di base”: loro sono una struttura molto tradizionale come apparato, distacchi, modalità di trattare con la controparte, noi siamo molto più politicizzati, una struttura sindacal-politica, molto poco attenta agli “interessi” di gruppo e alle “carriere” dei propri militanti: carriere che infatti semplicemente non esistono, i nostri lavorano tutti e non ottengono alcun vantaggio materiale per sé dall’essere Cobas. Magari è vero che Slai e Sincobas potrebbero stare in gran parte con noi, e lì forse la questione dei gruppi dirigenti conta, ma non per quel che riguarda le due componenti principali citate. E poi in Italia ci sono molte decine di partiti o gruppi che si chiamano comunisti, altrettanti che si considerano socialisti, perché “a sinistra” dei confederali ci dovrebbe essere un’unica organizzazione, quando le differenze sono così marcate, almeno tra noi e la Cub?

D: Quindi oggi i COBAS stante queste divergenze e differenze con gli altri sindacati cosiddetti “alternativi” cercano di costruirsi non solo nel settore in cui tradizionalmente ha un radicamento – la scuola – ma in tutti i comparti. Non pensate che questo rappresenti un limite, nel momento in cui proponete a dei lavoratori e/o delegati che si trovano in situazioni che tradizionalmente sono appannaggio dei sindacati confederali di passare a una sindacato – che non è solo sindacato – a costruire un intervento spesso partendo da zero?

Intanto voglio dire che abbiamo sempre cercato di rapportarci con le forze e i quadri sindacalmente più avanzati e generalmente più radicali. Nel 2001, all’epoca del G8 di Genova, tentammo per esempio di unificarci con il SIN. COBAS. Quel progetto non andò a buon fine perché il gruppo dirigente del SIN, legato quasi tutto alla Quarta Internazionale trotzkista (Bandiera Rossa), nel momento in cui, con l’esplosione del movimento no-global e i rilevanti conflitti dopo Genova, si apriva una dinamica di scontro politico significativo, credo che abbia temuto che la Confederazione COBAS potesse entrare in collisione, o almeno in forte concorrenza con Rifondazione Comunista (al cui interno essi militano, seppur come “tendenza” organizzata) e in scontro anche con i Social Forum e con la parte moderata del movimento no-global, puntando magari, così pare vociferassero, ad un partito a sinistra del PRC. Ma più in generale, malgrado tuttora su molti aspetti si sostengano cose simili, il SIN COBAS non ha mai davvero abbandonato la scissione tra azione politica e azione sindacale: da una parte quasi tutti militano in Rifondazione, nella sua tendenza trotzkista “maitaniana” e dall’altra sviluppano la loro attività sindacale appunto in quanto SIN COBAS.

Ma rispondendo alla tua domanda più ampia su come noi “reclutiamo”, ci tengo a precisare che la nostra attività di “reclutamento” è tutt’altro che pressante, anzi. Non insistiamo affatto nel “proselitismo”: al contrario forse può sembrare che eccediamo nella fiducia nell’autorganizzazione, nella capacità di ognuno di tirar fuori la possibilità di non dare delega nel processo organizzativo. Oggi ci troviamo in realtà di fronte a un problema opposto: i confederali non coprono più tutta la domanda di organizzazione sindacale. In alcuni casi, nelle piccole aziende o nelle situazioni più deteriorate e radicalizzate, i confederali hanno deciso di lasciarle al loro destino. Così abbiamo una richiesta di organizzazione e rappresentanza da tutto il mondo del lavoro precario, dei servizi in appalto, delle piccole industrie, ma anche delle grandi dove il lavoro è a rischio o con ben pochi diritti, in cui molto spesso non siamo in grado di rispondere alla domanda di organizzazione che ci arriva quotidianamente. Piuttosto che ad autorganizzarsi spesso molti pensano (e ci richiedono) ad un apparato a disposizione: un apparato su posizioni radicali, combattive ma pur sempre un apparato. Queste sono situazioni molto difficili da organizzare e in alcuni casi sono situazioni addirittura disperate. In questo senso per loro la sigla “COBAS” rappresenta una garanzia, si immaginano una nostra potenza organizzativa e sindacale, una “forza di apparato” decisamente superiore a ciò che in realtà possiamo mettere in campo.

Comunque molti lavoratori guardano a noi perché hanno intuito che la controparte ci teme per la nostra radicalità, perché abbiamo non solo un’immagine da “rompiscatole” che buca i mass-media, ma anche una coerenza e un’indipendenza dal quadro politico-sindacale dominante che crea molte attese e speranze. In realtà, ad esempio nell’industria, fare il salto ed entrare nei COBAS, ti espone alle stesse difficoltà che ci potevano essere negli anni Cinquanta quando in una fabbrica FIAT aderivi alla FIOM o al Partito Comunista: solo che allora avevi dietro uno schieramento internazionale potente, un fortissimo partito alle spalle e la sensazione di stare nella corrente “forte” della storia: quindi la repressione non preoccupava più di tanto. Sulla nostra Confederazione le forze moderate cercano di far aleggiare, per giunta, lo spettro di essere un’organizzazione che copre ogni tipo di “estremismo”, che addirittura ha punti di contatto con il cosidetto “terrorismo” internazionale.

Quindi, per tornare alla domanda che mi ponevi, noi non ci mettiamo mai a “pressare” il lavoratore/trice perchè abbandoni la sua organizzazione sindacale. Nello stesso tempo, e ciò fa parte del nostro codice genetico, noi vogliamo che il lavoratore non ci deleghi, vogliamo che prenda il suo destino nelle sue mani, per così dire. Tutto ciò lo richiediamo non solo o soprattutto per impostazione ideologica ma anche perché non abbiamo funzionari, siamo tutti lavoratori/trici, non possiamo spostare decine di persone ad organizzare gli altri. Qualche compagno ora lavora part-time per dedicare più tempo all’attività politico-sindacale dei COBAS, qualche altro è pensionato e può dedicarsi a tempo pieno all’organizzazione ma, avendo rifiutato il funzionariato, quello che possiamo fare è aiutare il lavoratore a compiere i primi passi, gli mettiamo a disposizione un servizio legale, sollecitiamo i lavoratori a prendersi le loro responsabilità in maniera diretta. Così una parte delle richieste d’organizzazione che ci vengono dai posti di lavoro rifluiscono negli apparati tradizionali o finiscono per appassire su se stesse. Oggi noi abbiamo molti meno iscritti di quanto ne potremmo avere. D’altra parte non ci interessa avere una marea di iscritti, se questa poi costituisce solo una grande area passiva. Per noi è un criterio politico: se uno entra nei COBAS deve entrarci per fare attività, anche se nella misura di quanto gli è possibile, e non per scaricare sugli altri un peso sempre più gravoso di impegni e di lavoro politico-sindacale.

D: Mi puoi fornire un fotografia della realtà dei COBAS su scala nazionale? In quale comparti è presente, in quali zone del paese? Chi è il “militante COBAS”?

La Confederazione è oggi composta da quattro federazioni. La prima è quella della scuola che è presente in un’ottantina di province. Questo insediamento è differenziato al suo interno. In molte province ha una sede, in altre si riunisce regolarmente ma non ha una sede propria dove è possibile trovarci tutti i giorni. Gli iscritti dei COBAS scuola sono poco più di 10.000, assai meno di quanto potremmo avere (per i motivi succitati), ma l’area di influenza è nettamente superiore; credo che l’area di consensi e di adesioni “di linea” oscilli tra il 15% e il 20% dell’intera categoria (alle ultime elezioni RSU nelle 2100 scuole dove abbiamo presentato liste, abbiamo ottenuto il 23% circa, al secondo posto dopo la Cgil), che, lo ricordo, conta circa un milione di lavoratori, tra docenti ed ATA. In gran parte gli iscritti/e ai COBAS scuola sanno bene a che cosa hanno aderito sia dal punto di vista politico-sindacale sia sul piano culturale ed ideologico, conoscono il nostro impegno complessivo. C’è una prevalenza femminile tra i nostri iscritti/e ma ciò è dovuto alle peculiarità del mondo dell’insegnamento dove c’è una massiccia presenza delle donne. Tuttavia se guardiamo la situazione a livello di Esecutivo Nazionale, a livello del gruppo che si accolla una funzione più gravosa e trainante, le cose cambiano: la presenza femminile è più limitata. Questa situazione penso non sia determinata da processi soggettivi interni all’organizzazione o all’Esecutivo (insomma non mi pare ci sia alcuna volontà di far prevalere l’elemento maschile), ma piuttosto dal fatto che l’impegno è veramente intenso, le modalità politiche di continuità del lavoro richiesto ad un certo livello sono tali da far sì che sono prevalentemente maschi coloro i quali sono disponibili a girare in lungo e in largo per l’Italia, a stare in giro tutti i fine settimana, anche per dinamiche familiari in cui, probabilmente, certi oneri sono ancora a carico soprattutto delle donne, o anche forse perché tra le donne c’è un maggior tasso di “polivalenza” mentale che fa rifiutare l’impegno “monomaniaco” in politica, oltre un certo grado. Non abbiamo voluto mai introdurre “le quote” nei gruppi dirigenti perché si tratta di un problema prima di tutto di disponibilità: e conseguentemente le compagne non hanno mai proposto la scelta delle “quote”.

Dal punto di vista anagrafico i nostri iscritti/e sono perlopiù nella fascia di età che va dai 30 ai 55 anni. Non abbiamo una presenza davvero rilevante tra i giovani, perché i giovani insegnanti sono quasi tutti precari e per cui spesso aderiscono solo per il periodo in cui ottengono l’impiego e non si riesce quindi a costruire un rapporto continuativo.

In secondo luogo abbiamo una Federazione della Sanità; in questo settore siamo presenti in una ventina di province, gli iscritti oscillano intorno ai 4.000. Qui la militanza media degli iscritti è più limitata; ma non incide solo il fatto che in tale settore abbiamo meno tradizione ma soprattutto le condizioni lavorative: la stragrande maggioranza dei nostri iscritti sono infermieri o lavoratori dei servizi che fanno i turni; la gran parte dei medici si tiene alla larga dai Cobas, non ne condivide forse l’egualitarismo e la difesa ad oltranza della sanità pubblica, l’ostilità ad ogni forma di privatizzazione della salute.

Fra le nostre federazioni quella del Pubblico Impiego è quello dove abbiamo un intervento più limitato, almeno per ora, anche se ci sono positivi segnali di espansione. Oggi in questo settore abbiamo poco più di paio di migliaia di iscritti/e.

Infine c’è il cosiddetto settore “privato” dove abbiamo fatto confluire tutto ciò che non è, o non è più interamente, pubblico, comprese quelle aziende che sono state privatizzate da non molti anni come l’ENEL o la Telecom, e poi i trasporti. Nel settore privato tradizionale, “classico” (e tra i precari in particolare) oggi c’è una richiesta di rappresentazione e una necessità d’organizzazione gigantesca, a cui, come già dicevo prima, diamo una risposta limitata. Riusciamo a organizzare forse solo un 10% di quelle richieste: e comunque abbiamo già parecchie migliaia di iscritti/e in questo comparto, che è quello in crescita più tumultuosa. Il caso più eclatante in questo senso è stato quello degli autoferrotranvieri. Dopo le lotte di dicembre-gennaio, oggi noi organizziamo gli autoferrotranvieri in una quindicina di province mentre prima eravamo presenti solo in un paio. Io credo che se avessimo avuto a disposizione un gruppo di militanti a tempo pieno, magari anche solo per pochi mesi, se avessimo potuto seguire quei lavoratori nelle loro realtà per un certo numero di settimane, ora noi avremmo potuto avere veramente una presenza tra quei lavoratori, su scala nazionale, in gran parte delle province italiane.

Ma la stessa cosa può essere detta per le piccole fabbriche e le aziende dei servizi. In queste situazioni, laddove riusciamo ad arrivare, presentiamo la RSU, veniamo eletti, abbiamo dei successi. Tuttavia c’è l’altra faccia della medaglia: in queste situazioni sei poi costretto a seguire un conflitto quotidiano minuto, sparpagliato, complicato che ha le sue notevoli difficoltà perché tanto più l’azienda è piccola e tanto più rapidamente di fronte al conflitto i padroni chiudono dalla notte alla mattina l’azienda, la ditta, la fabbrica e magari la trasferiscono all’estero. Come detto, abbiamo già parecchie migliaia di iscritti in questo settore “privato”, la crescita è persino caotica e se forzassimo un po’ la mano, qui e là, non sarebbe molto difficile arrivare in tutto il privato e precariato a decine di migliaia di lavoratori/trici COBAS: il problema però sarebbe poi tenere tutte queste situazioni insieme senza “funzionari”, perché abbiamo fatto uno sforzo volontaristico enorme sugli articoli dell’attività antisindacale che ci richiedevano un’organizzazione nazionale (quando ci si nega il diritto di organizzazione sindacale in un posto di lavoro, si fa causa al padrone utilizzando l’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori che, appunto, difende i lavoratori in caso di attività padronale anti-sindacale; ma si può ricorrere all’art.28 solo se si dimostra di essere un’organizzazione sindacale sufficientemente presente su tutto il territorio nazionale). Nel nostro comparto “privato” il livello di coscienza è più differenziato che nelle altre federazioni: ci sono dei lavoratori che si sono rivolti a noi semplicemente perché nessuno li difende. Si tratta di un iscritto/a che magari ha una forte carica antiburocratica, non ha problemi se ti batti anche su questioni politiche come la guerra ma si rivolge a noi con richieste che inizialmente sono molto elementari. Oggi questi quattro comparti di lavoro sono coordinati nazionalmente da un Esecutivo composto da 26 persone dei vari settori, con una proporzione non rigorosamente matematica che riflette la forza delle singole federazioni o il loro tasso di sviluppo: ma il luogo decisionale fondamentale è l’Assemblea nazionale degli iscritti/e.

Dobbiamo riconoscere che nel nostro impegno, nell’impegno dei compagni più responsabilizzati, c’è un aspetto quasi monomaniaco, è quasi una deformazione mentale, l’attività politico-sociale è assolutamente al primo posto nella vita e nei pensieri di ognuno, c’è una passione quasi morbosa nel voler intervenire su “come va il mondo”, nel “mettere bocca” in qualsiasi ingiustizia, violenza, sopruso che si compie in qualsiasi parte del mondo (la “lezione” di Che Guevara, insomma: non sopportare in silenzio alcuna ignominia sociale, dovunque e comunque avvenga): per molti di noi il primo pensiero, una volta svegli, è rivolto all’attività politico-sindacale-sociale, e magari sovente anche l’ultimo prima di dormire. Oggi i giovani non sono più disponibili a una militanza così totalizzante, così “dispotica”. E forse è meglio così: non è giusto che noi si chieda a tutti di condividere a tal punto passioni così estreme.

Ma in siffatta situazione, in un’organizzazione che per scelta non ha funzionari, non ha permessi, non ha distacchi dal lavoro, finisce che evitare del tutto la delega diventi estremamente difficile.

D: Questo rapporto “soft” con la militanza da parte delle nuove generazioni rimanda alla questione della “morte del movimento operaio”. Il movimento operaio italiano, per come lo abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra, seppur legato al carro dello stalinismo, aveva un’identità di classe molto forte, con una sua cultura, con le sue strutture, con le sue tradizioni, con la sua ideologia. I cambiamenti strutturali intervenuti e il crollo dei paesi dell’Est lo hanno fatto definitivamente tramontare. Quel movimento operaio era costruito sulla separazione netta tra azione economico-rivendicativa e azione politica demandata ai suoi partiti, in particolare il PCI. Da quanto ho capito, voi pensate che la nascita di un “nuovo movimento operaio” giungerà dal ricongiungimento, dalla non separazione, tra rivendicazioni politiche e rivendicazioni sindacali.

B: È un processo, quello che tu hai delineato, che vediamo in opera su scala mondiale. Pensiamo a delle esperienze internazionali come Via Campesina[6] o in Italia anche realtà tradizionalmente moderate come l’ARCI. Quest’ultima nasce costola del PCI ma si è nell’ultimo periodo, con la gestione di Tom Benettollo (affiancato nell’attività no-global e no-war da Raffaella Bolini), autonomizzata da una visione secondo la quale era il partito che si occupava di politica in senso stretto, e oggi interviene a tutto campo un po’ su tutto, non si limita più ad essere un’organizzazione che opera sul terreno più prettamente culturale, associativo, ricreativo. In Via Campesina (ma anche nei Sem Terra brasiliani o in una realtà piuttosto diffusa come quella di ATTAC) è difficile dire dove comincia l’attività sociale e finisce quella politica, dove agisce il sindacale e dove il cultural-formativo. Oggi,da più parti, si tenta di pensare come concretamente potrebbe funzionare una società se non ci fosse il dominio del capitale sul lavoro e della merce e del profitto su tutta la società: e dunque, per così dire, si mette un po’ bocca su tutto. Dopo Genova 2001, fino a quando poi la “politica politicante” è tornata a dominare la scena in Italia riproponendo al centro dell’agenda l’obiettivo spesso strumentale del “battere la destra”, si aveva la sensazione di un generale riagglutinarsi di un movimento dei lavoratori salariati, in cui le singole componenti non erano più semplicemente la rappresentazione del “vecchio”, si stavano ridefinendo con la “contaminazione” reciproca.

Oggi il “vecchio” sembra tornare a galla e forse era inevitabile che non potesse sparire senza grosse convulsioni. Oggi ti trovi allora di fronte a una situazione in cui ci sono manifestazioni gigantesche come quelle del 20 marzo 2004 e poi il giorno dopo i giornali discutono della contestazione a Fassino, invece che dei contenuti dell’enorme corteo: insomma il politico-parlamentare ti viene riproposto come la realtà centrale, mentre il movimento proponeva e propone una affatto diversa centralità del mix di attività politico, sociale, sindacale e culturale che ti consente di cimentarti davvero sulla grande questione di quale sia “l’altro mondo possibile e indispensabile”. Comunque, tornando al “vecchio” movimento operaio, le anime che esistevano nel PCI non sono mai davvero sparite e a guardar bene, mutatis mutandis, ancora sono in certo modo in circolazione: i DS potrebbero essere visti come la “modernizzazione” della vecchia componente gestionale tosco-emiliana del PCI, sono quelli che hanno sempre pensato a gestire un po’ meglio l’esistente, Rifondazione è l’anima massimalista-movimentista, che al dunque però non esce mai davvero dall’alveo istituzionale con una discreta schizofrenia tra militanti radicali e amministratori locali moderati, il PdCI ripropone in salsa “moderna” la componente togliattian-staliniana. Non si può negare che il PCI sia stato qualcosa di veramente originale, un partito di origine terzointernazionalista con un forte radicamento in tutta la vita sociale, che ha inciso come nessuno in Europa, da sinistra, sulla realtà globale del proprio paese e sulla mentalità di tutti i settori popolari, degli intellettuali e non solo.

A livello internazionale è diverso perché non c’è stata un’esperienza come quella del PCI. Il vecchio movimento operaio non tornerà più in auge neppure qui in Italia, la sua visione nazionalista è veramente superata; tuttavia molto spesso ostacola l’emergere di un nuovo movimento “operaio” (il termine non va preso alla lettera, non ci può più essere una centralità della classe operaia di fabbrica, anzi non credo ad alcuna centralità possibile, ma a un fronte ampio e poliedrico) che operi immediatamente su scala globale.


Note

[1] Comitati Unitari di Base (CUB). Organismi sorti spontaneamente specialmente nelle fabbriche della Lombardia a partire dal 1968. Si trasformarono progressivamente in organismi collegati ad Avanguardia Operaia e nel 1974-75 confluirono di fatto nei sindacati confederali e nei Consigli di Fabbrica.

[2] Luigi Malabarba (1954-). Senatore del PRC dal 2001. Militante della Quarta Internazionale e oggi di Bandiera Rossa, leader del S.in COBAS e sindacale all’Alfa Romeo. Enzo Canavesi ()... Opraio Alfa, dirigente dello SLAI-Cobas Corrado delle Donne (...) Operaio Alfa. Dirigente SLAI-COBAS, consigliere regionale della Lombardia. Dal 1998 aderente alla Confederazione dei Comunisti.

[3] Mara Malavenda (), operaia dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’ Arco, tra i fondatori dello SLAI-COBAS, eletta deputata come indipendente nelle liste del PRC, abbandona il suo gruppo parlamentare dopo il voto favorevole del PRC al governo Prodi. Dirigente della Confederazione dei Comunisti. Vittorio Granillo (). Leader dello SLAI-COBAS.

[4] Servire il popolo (dal nome del giornale dell’Unione Comunista Italiani), gruppo maoista sorto nel 1968 e disciolto nel 1972, si caratterizzava un’iconografia chiesastica sull’ideologia del sacrificio militante. Il suo principale leader fu Aldo Brandirali.

[5] Gruppo della sinistra romana antagonista sorto nel 1972. Dopo aver partecipato al movimento del 1977 si congiunge al gruppo del Generale Nino Pasti, particolarmente attivo nei primi anni Ottanta anche a livello elettorale.

[6] Via Campesina, movimento internazionale che coordina organizzazioni contadine bracciantili, dei piccolo proprietari e delle comunità indigene. È molto attiva nei Forum Sociali Mondiali.

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