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(12 Agosto 2010) Enzo Apicella
Dopo numerosi rinvii, sembra che gli Stati Uniti rispetteranno i tempi previsti per il ritiro delle truppe dall’Iraq

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Iraq: dov'e' la svolta?

articolo di FABIO ALBERTI (Un ponte per...) su Il Manifesto del 10 giugno

(11 Giugno 2004)

La svolta non c'è. O almeno non ci sarà per 20 milioni di iracheni per i quali la risoluzione dell'Onu, negoziata a New York senza gli iracheni, ha posto le basi per un nuovo periodo di violenza e, forse, di guerra civile. Avrei preferito dire: è un passo avanti e un compromesso accettabile. Non è così. E il problema non è di principio, né è nella insufficienza dei poteri trasferiti, ma nel riconoscimento di un governo «made in Usa». Ciò che infatti né la Francia, né tutto il Consiglio di Sicurezza possono cambiare è la scarsa rappresentatività del neo-nominato «governo transitorio iracheno». E questo farà la differenza per la popolazione dell'Iraq: solo un governo veramente rappresentativo può portare la pace. Il «governo» è stato nominato ignorando tutti i «consigli» dell'inviato di Kofi Annan, a partire dal principale: che i membri dello screditato Governing Council avrebbero dovuto farsi da parte. E' stato invece Bremer e lo stesso Governing Council, in carica mentre nelle carceri irachene avveniva quel che è avvenuto, a nominare il suo successore. Sul primo ministro si è già detto che è stato un agente della Cia, «senza nessuna credenziale democratica» come nota «Iraqi Democrats Against Occupation», l'associazione di esuli iracheni vicini alla sinistra. Allawi, nell'ultimo anno si è occupato, come ministro del commercio estero, della privatizzazione delle imprese irachene. Sulla non-rappresentatività del governo transitorio si sono già pronunciati Harith Al-Dari, segretario del Consiglio degli Ulema, e rappresentante della «Conferenza Nazionale Irachena», larga coalizione nata l'8 maggio da un incontro di circa 2000 delegati di formazioni politiche, sciite, sunnite e laiche, che lo ha definito «un gioco americano». L'Ayatollah Al Sistani, sempre cauto, ha detto che «non rappresenta in maniera accettabile tutti i segmenti della società irachena». I segretari del «National Council of Iraqi Tribes» e del «Democratic Grouping of Iraqi Tribes», due influenti raggruppamenti delle tribù irachene, hanno espresso lo stesso concetto. Gli sciiti radicali di Moqtada al Sadr non sono stati coinvolti, come i gruppi della resistenza. E a Baghdad gli iracheni non danno credito al neonato governo, considerato, a ragione, una mera prosecuzione del precedente.

In questa situazione non è difficile pensare che la Conferenza Nazionale (che Brahimi voleva prima della nomina del governo e che la risoluzione prevede a luglio), possa ancora essere il luogo in cui raggiungere quel «consenso iracheno» che, solo, può mettere fine alla violenza e promuovere un processo elettorale condiviso.

La resistenza, anche armata, alla presenza di truppe straniere continuerà. Ricostruzione e rilancio dell'economia continueranno a tardare. La costituzione verrà dettata dagli occupanti. Gli Usa, che si sono riservati «tutti i mezzi disponibili per mantenere la sicurezza», continueranno a combattere la loro guerra per impedire che l'Iraq divenga un paese democratico e per insediare a Baghdad un governo che garantisca i loro interessi strategici e le basi militari permanenti. A farne le spese saranno 20 milioni di uomini, donne, bambini giocati dalle grandi potenze come pedine sullo scacchiere mondiale, come nei 13 anni delle sanzioni economiche, il cui milione e mezzo di morti dovrebbe pesare ancora sulla coscienza del Consiglio di Sicurezza Onu. L'occupazione prosegue.

FABIO ALBERTI
Un ponte per...

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