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(23 Ottobre 2010) Enzo Apicella
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(Iraq occupato)

Ambizioni imperiali

Intervista di David Barsamian a Noam Chomsky

(13 Giugno 2004)

Ebreo americano di origine russa, Noam Chomsky è professore di linguistica al MIT, il Massachussets Institute of Tecnology, la fabbrica dei Nobel scientifici degli States, titolare della cattedra di lingue moderne e linguistica e scrittore di grande successo. In prima fila nelle lotte della sinistra radicale americana, è da sempre impegnato nell'analisi e nella contestazione del colonialismo americano (culturale e non solo) e nella critica del sistema mediatico e del suo impatto sulla società.
Fin dall'inizio degli anni 60, Chomsky ha esplicitamente condannato la politica israeliana contro i palestinesi, suscitando violente reazioni sia tra gli ebrei di Israele che nella potente comunità ebraica americana. E' uno degli esponenti più importanti del movimento contro la globalizzazione capitalistica.


Come sono percepite a livello locale l'invasione e l'occupazione dell'Iraq?

In quell'area, come in tutto il resto del mondo, l'invasione e l'occupazione vengono percepite correttamente, per quel che sono, e cioè una sorta di prova generale per imporre una regola nell'uso della forza militare, regola che è stata decisa lo scorso settembre. Lo scorso settembre è stata resa pubblica la Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d'America. E' stata presentata una dottrina sull'uso della forza che ha caratteri avventurosi ed estremi. E' difficile non notare la coincidenza temporale con i rulli di tamburo per la guerra in Iraq. Ed anche con l'inizio della campagna congressuale. Tutte cose che si tengono fra loro.
La nuova dottrina non è quella di una guerra che anticipa un attacco, che al limite può rientrare in una qualche libera interpretazione della Carta delle Nazioni Unite. No, è qualcosa che non ha nessuna base nel diritto internazionale, è la guerra preventiva. La dottrina, se ben ricordi, era che gli Stati Uniti avrebbero governato il mondo con la forza e nel momento in cui avessero percepito una qualunque sfida al loro dominio, anche se l'avessero percepita a distanza, inventata, immaginata, qualunque cosa, si sarebbero arrogati il diritto di attaccare prima che quella sfida diventasse una minaccia. Questa è guerra preventiva, non è una guerra che anticipa un attacco.
Quando vuole stabilire una dottrina, uno stato potente impone ciò che viene chiamato una nuova regola. Non è una regola che l'India invada il Pakistan per porre fine ad atrocità mostruose. Ma è una regola che gli Stati Uniti bombardino la Serbia con dubbie motivazioni. Questo è il significato del potere.
Per stabilire una nuova regola si deve fare qualcosa. Quella più facile è scegliere un bersaglio privo di difese che la potenza militare più forte della storia possa schiacciare facilmente. Tuttavia, per farlo in modo credibile, almeno agli occhi della tua gente, devi creare un clima di paura. Il bersaglio privo di difese deve essere trasformato in un'imponente minaccia alla tua sopravvivenza, devi addossargli la responsabilità dell'11 settembre, devi dire che ci sta per attaccare nuovamente. Dallo scorso settembre è iniziata una campagna, sostanzialmente riuscita, perché gli americani si convincessero, unici al mondo, che Saddam Hussein non era solo un mostro, ma una minaccia alla loro esistenza. E' stato questo il senso della risoluzione del Congresso di ottobre e, da allora, di molte altre cose. Ed è evidente dai sondaggi. Ormai circa la metà della popolazione è convinta che Saddam Hussein sia il responsabile dell'11 settembre.
Sono tutte cose legate tra loro. E' stata pronunciata una dottrina. E' stata stabilita una regola per un caso molto semplice. La popolazione è stata gettata nel panico; unica al mondo, crede alle fantasie che le vengono propinate e considera quindi giusto appoggiare, per legittima difesa, l'uso della forza militare. Nel momento in cui credi alle fantasie che ti raccontano, ti convinci che si tratta realmente di legittima difesa. Siamo di fronte ad un esempio di aggressione da manuale che si propone di estendere l'ambito di ulteriori aggressioni. Una volta che il caso più semplice abbia avuto successo, si potranno prendere in considerazione casi più difficili.
Queste sono le ragioni principali per cui gran parte del mondo s'è opposta fortemente alla guerra. Non si tratta solo dell'attacco all'Iraq. Molte persone lo hanno percepito correttamente, per come davvero è stato, e cioè "farai meglio a stare attento ché stiamo arrivando". Questo è il motivo per cui oggi gli Stati Uniti sono visti, probabilmente dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale, come la più grande minaccia alla pace del mondo. In un anno George Bush è riuscito a trasformare gli Stati Uniti in un paese temuto, disprezzato e persino odiato.

Al World Social Forum di Porto Alegre, lo scorso gennaio, hai descritto Bush e le persone intorno a lui come "nazionalisti radicali" impegnati nella "violenza imperiale". L'attuale regime di Washington è molto diverso dai precedenti?

E' sempre utile avere una prospettiva storica. Dunque, andiamo alla parte politica opposta, e cioè ai liberali kennediani, che più o meno è fin dove ci si può spingere. Nel 1963 annunciarono una dottrina non molto diversa dal rapporto di sicurezza strategica nazionale di Bush. Successe nel 1963. Dean Acheson, un anziano e rispettato statista, consigliere senior nell'amministrazione Kennedy, tenne una conferenza all'American Society for International Law e disse che se si fosse dovuto rispondere ad una sfida che metteva in discussione la posizione, il prestigio e l'autorità statunitensi, per gli Usa non sarebbe valso alcun richiamo all'ordine legale. La formulazione era praticamente uguale a quella attuale. A cosa si riferiva Acheson? Si riferiva agli attacchi terroristici statunitensi e alla guerra economica contro Cuba. Anche allora il tempismo fu significativo. Accadde subito dopo la crisi dei missili, che portò il mondo sull'orlo di una guerra nucleare. E fu in gran parte conseguenza di una campagna di terrorismo internazionale per ottenere il cosiddetto cambiamento di regime, un fattore considerato determinante per l'invio dei missili. Subito dopo, Kennedy intensificò la campagna terroristica ed Acheson disse alla Society for International Law che quando la nostra posizione e il nostro prestigio venivano sfidati si aveva il diritto alla guerra preventiva, anche nei casi in cui la sfida non comportava una minaccia alla nostra esistenza. Una formulazione ancor più estrema di quella contenuta nella dottrina Bush.
Certo, guardandola in prospettiva va detto che si trattava solo di un'affermazione di Dean Acheson e non di una dichiarazione politica ufficiale. E che non era la prima né l'ultima. Ma quanto accaduto nello scorso settembre non è un fatto ordinario, e non solo per la sua impudenza, ma proprio perché si tratta di una dichiarazione politica formale e non della dichiarazione di un alto funzionario.

Uno degli slogan delle manifestazioni per la pace è "No blood for oil" (niente sangue per il petrolio). La questione del petrolio viene spesso individuata come il motivo che sta dietro all'attacco ed all'occupazione statunitensi dell'Iraq. Quanto è centrale il petrolio nella strategia statunitense?

E' centrale. Non c'è persona sana di mente che ne dubiti. La regione del Golfo è la principale al mondo per produzione di energia. Lo è stata fin dalla Seconda Guerra Mondiale e lo sarà per almeno un'altra generazione. E' un'enorme fonte di potere strategico, di ricchezza materiale. L'Iraq è in questo assolutamente centrale. Le riserve di petrolio sono le seconde al mondo per grandezza. Petrolio facilmente accessibile, economico. Controllare l'Iraq significa essere nella condizione di determinare il prezzo ed i livelli di produzione - non troppo alti, non troppo bassi -, mettere in discussione l'autorità dell'Opec, usare il proprio potere a piacimento in tutto il mondo. Questo è stato vero dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Il punto non è l'accesso al petrolio, gli Stati Uniti in realtà non hanno intenzione di usufruirne, il punto è il controllo. Le cose stanno così. Se l'Iraq fosse nell'Africa centrale non sarebbe stato scelto per questa prova generale. Tuttavia questo non dà conto delle specifiche tempistiche dell'operazione, perché si tratta di un interesse costante.

Un documento del Dipartimento di Stato del 1945 descrive il petrolio del Medio Oriente come "... una stupenda fonte di potere strategico, uno dei bottini più importanti nella storia del mondo". Gli Stati Uniti importano il 15 per cento del petrolio dal Venezuela. Ne importano anche dalla Colombia e dalla Nigeria. Questi stati, secondo Washington, sono oggi problematici: Hugo Chavez in Venezuela, seri conflitti interni (nei fatti una guerra civile) in Colombia, rivolte in Nigeria che mettono a rischio il rifornimento di petrolio. Che cosa ne pensi?

Penso che la tua è un'osservazione pertinente, quelle sono le regioni in cui gli Stati Uniti intendono avere libero accesso. Il Medio Oriente lo vogliono controllare. Ma, almeno secondo i piani dell'Intelligence, vogliono fare affidamento sulle risorse del Bacino Atlantico, ritenute più stabili (Bacino Atlantico significa Africa Occidentale ed emisfero occidentale) e più controllabili di quanto non lo sia il Medio Oriente, che è una regione difficile. Quindi i piani sono: controllare il Medio Oriente e mantenere l'accesso al Bacino Atlantico, di cui fanno parte i paesi che hai citato. Ne consegue che la mancanza di fedeltà da parte di quei governi e qualsiasi disordine politico e sociale rappresentano una grave minaccia. E' molto probabile, se le cose andranno come vogliono i pianificatori del Pentagono, che lì si verifichi un altro episodio tipo Iraq. E se la vittoria sarà facile, senza troppi combattimenti, senza troppe catastrofi, se riusciranno ad insediare un regime che potrà essere chiamato democratico, se tutto funzionerà come sperano, allora si sentiranno pronti a fare il passo successivo. E per passo successivo si può pensare a diverse possibilità. Una di queste, in effetti, è la regione delle Ande, che al momento è circondata da basi militari Usa. Ci sono forze militari direttamente sul posto. Colombia e Venezuela sono entrambi notevoli produttori di petrolio, soprattutto il Venezuela, e ce n'è anche da altre parti, per esempio in Ecuador e in Brasile. Si, c'è la possibilità che il prossimo passo nella campagna di guerre preventive, una volta che la cosiddetta regola sia stata stabilita ed accettata, vada in quella direzione. Un'altra possibilità è l'Iran.

Infatti, l'Iran. Nientedimeno che "quell'uomo di pace" di Sharon, come l'ha chiamato Bush, ha consigliato agli Stati Uniti di occuparsi dell'Iran "il giorno dopo" aver finito con l'Iraq. Che ne pensi dell'Iran? Uno stato dell'Asse del Male ed anche un paese con molto petrolio.

Per Israele l'Iraq non è mai stato un gran problema. Lo considerano una specie di gioco da ragazzi. Ma l'Iran è una questione differente. L'Iran è una potenza militare ed economica molto seria. Per anni Israele ha fatto pressione sugli Stati Uniti perché si affrontasse il problema Iran. Siccome è un bersaglio troppo grosso da attaccare, Israele vuole che ci pensino i fratelloni americani.
E' probabile che la guerra sia già in corso. I giornali hanno scritto che un anno fa più del 10 per cento della forza aerea israeliana era stanziato nella Turchia orientale, nelle enormi basi militari statunitensi. E' stato detto che venivano fatti voli di ricognizione sul confine iraniano. In più, ci sono resoconti giornalistici credibili secondo cui Stati Uniti, Turchia e Israele aizzano le forze nazionaliste azere del nord dell'Iran perché alcune parti dell'Iran siano annesse all'Azerbaijan. Nella regione c'è una sorta di asse di potere statunitense-israeliano-turco che si oppone all'Iran, che potrebbe anche determinare una rottura in quel paese ed un conseguente attacco militare. Ma un attacco militare ci sarà solo quando gli Usa saranno certi che l'Iran non ha difese sostanziali. Non invaderanno nessuno stato in grado di contrattaccare.

Con le forze militari statunitensi in Afghanistan ed in Iran e con le basi in Turchia e in Asia centrale, l'Iran è completamente circondato. Non potrebbe accadere che questa situazione porti l'Iran a dotarsi di armi nucleari - se già non le ha - per legittima difesa?

Molto probabile. C'è il sospetto che il bombardamento israeliano del 1981 del reattore Osirak abbia spinto, o potrebbe aver dato inizio, ad un programma iracheno di sviluppo di armi nucleari. In quel periodo stavano costruendo un impianto nucleare, ma nessuno sapeva di che si trattasse. Subito dopo il bombardamento è stata fatta un'indagine sul campo da un noto fisico nucleare di Harvard - credo che al tempo fosse il direttore del dipartimento di Fisica di Harvard. La sua analisi è stata pubblicata da una rivista scientifica di punta, Nature. Secondo lui si trattava di una centrale nucleare a scopo civile. Era un esperto dell'argomento. Altre fonti irachene in esilio hanno rivelato - ma non possiamo provarlo - che non stavano costruendo nulla di serio. Forse si limitavano a giocare con l'idea delle armi nucleari, ma poi il bombardamento dell'impianto avrebbe portato allo sviluppo di un programma di armi nucleari. Non si può dimostrare, si può solo dedurre. Ed è plausibile. Non c'è bisogno che sia vero. Quello che hai descritto è molto probabile. Se te ne esci a dire: "Attento, stiamo per attaccarti", e quel paese sa di non avere mezzi di difesa convenzionali, gli stai virtualmente ordinando di dotarsi di armi di distruzione di massa e di reti terroristiche. E' del tutto ovvio. La Cia - ed anche altri - l'ha previsto sulla base di questo.

Cosa significano la guerra irachena e l'occupazione per i palestinesi?

Un disastro.

Nessuna "road map" per la pace?

E' interessante leggere su questo argomento. Una delle regole del giornalismo - non so esattamente come sia stata stabilita, ma viene rispettata con assoluta coerenza - è che quando si nomina George Bush il titolo deve parlare della sua visione politica e l'articolo dei suoi sogni. Di solito c'è una sua fotografia accanto che lo ritrae mentre guarda in lontananza. E tra i sogni e le visioni di George Bush c'è quella di avere da qualche parte, prima o poi, in qualche posto non specificato, forse nel deserto, uno stato palestinese. Ed è convinto che si debba rendere grazie a questa grandiosa visione. Per i giornalisti è diventata una convenzione. C'era un articolo di fondo sul Wall Street Journal del 21 Marzo che conteneva le parole "visione" e "sogno" circa dieci volte.
La visione ed il sogno sono che gli Stati Uniti smettano di compromettere gli sforzi del resto del mondo per un qualche tipo di accordo politico. Fino ad ora, negli ultimi 25 o 30 anni, gli Stati Uniti l'hanno ostacolato. L'amministrazione Bush l'ha fatto in modi così estremi che non ne è stata data neppure notizia.
Lo scorso dicembre all'Onu, per la prima volta, l'amministrazione Bush ha modificato la posizione politica su Gerusalemme. Fino a quel momento era d'accordo, almeno in linea di principio, con la risoluzione del 1968 del Consiglio di Sicurezza, quella che imponeva ad Israele la revoca delle politiche di annessione, di occupazione e di insediamenti a Gerusalemme Est. Per la prima volta, lo scorso dicembre, l'amministrazione Bush ha fatto marcia indietro. Ma è solo uno dei molti tentativi tesi a compromettere la possibilità di un qualsivoglia accordo politico significativo. Per mascherarlo lo si chiama visione, così come si chiama iniziativa statunitense il tentativo di perseguirlo, ma in realtà si tratta solo, come sa chiunque presti un minimo di attenzione alla storia, della volontà di vanificare gli sforzi di vecchia data dell'Europa e del mondo arabo, di fare in modo che perdano significato. I grandi elogi a Sharon, che è ora considerato un grande statista - e invece è uno dei peggiori capi terroristici che il mondo ha conosciuto negli ultimi 50 anni - sono un fenomeno interessante, svelano un altro sostanziale successo della propaganda, svelano l'intera faccenda, una faccenda molto pericolosa.
A metà marzo Bush ha fatto quello che è stato chiamato il suo primo significativo pronunciamento sul Medio Oriente, sul problema arabo/israeliano. Ha tenuto un discorso. Grandi titoli sui giornali. Prima dichiarazione significativa dell'anno. Se si va a leggere, è la stessa solfa di sempre, eccetto che per una frase. Quella frase, se la si guarda da vicino, ci dice in che consiste la sua "road map": "con l'avanzare del processo di pace, Sharon dovrà porre fine ai programmi di nuovi insediamenti". Che significa? Significa che fino a che il processo di pace non raggiungerà il punto che va bene a Bush, e questo potrebbe avvenire in un futuro indefinitamente lontano, Israele potrà continuare a costruire insediamenti. Questo è un cambiamento di politica. Fino a quel momento, almeno ufficialmente, gli Stati Uniti si sono opposti all'espansione degli insediamenti, i quali rendono impossibile ogni accordo politico. Ma ora Bush dice il contrario: andate e insediatevi, noi continueremo a pagare fino a che non decideremo che il processo di pace è arrivato al punto giusto. Quindi sì, c'è stato un cambiamento significativo verso una maggiore aggressività, un maggiore indebolimento delle legge internazionale e delle possibilità di pace. Non ce l'hanno presentato così, ma tu leggi attentamente le parole usate.

Hai descritto il livello di protesta pubblica e di resistenza alla guerra all'Iraq come "senza precedenti"; non c'era mai stata così tanta opposizione prima che una guerra cominciasse. Dove sta andando questa resistenza?

Non so fare previsioni sul futuro dell'umanità. Andrà nel modo in cui la gente deciderà che debba andare. Ci sono molte possibilità. Dovrebbe intensificarsi. I compiti ora sono molto più grandi e molto più seri di quanto non fossero prima. Per molti versi tutto è diventato più difficile. Dal punto di vista strettamente psicologico, è più facile organizzarsi per opporsi ad un attacco militare che ad un programma di ambizione imperiale di cui questo attacco è una fase, mentre altre fasi stanno per arrivare. C'è bisogno di più riflessioni, più dedizione, più impegno. E' la differenza tra chi decide "ci sono dentro a tempo pieno" e chi pensa "domani vado ad una manifestazione e poi torno a casa". Si tratta di scelte. Lo stesso vale per il movimento dei diritti civili, per il movimento delle donne, per qualunque cosa.
Parliamo delle minacce e delle intimidazioni ai dissidenti qui, negli Stati Uniti, per esempio ai rastrellamenti degli immigrati ed anche dei cittadini americani.
Le persone indifese come gli immigrati devono davvero preoccuparsi. L'attuale governo rivendica diritti che non hanno precedenti. In tempo di guerra ne furono praticati alcuni veramente ripugnanti, come il rastrellamento dei giapponesi nel 1942. Ma ora viene rivendicato il diritto di arrestare cittadini, di tenerli in stato di detenzione senza che possano mettersi in contatto con la famiglia o con avvocati, e per un tempo indefinito, senza che vi sia un'accusa. Gli immigrati ed i soggetti più deboli dovranno essere cauti. Le minacce a quelli come noi, cittadini con ogni privilegio, sono talmente poca cosa se confrontate con quel che la gente deve sopportare in tante parti del mondo che è difficile rimanerne impressionati. Sono stato un paio di volte in Turchia ed anche in Colombia: in confronto a quel che devono sopportare lì, noi viviamo in paradiso. E loro non se ne preoccupano. Cioè, ovviamente lo fanno, ma non lasciano che questo li fermi.

Pensi che l'Europa e l'Asia orientale possano emergere come poteri contrapposti a quello statunitense?

Stanno sicuramente emergendo. Non c'è dubbio che l'Europa e l'Asia siano potenze economiche grosso modo alla pari con il Nord America, potenze che hanno interessi propri, che non sono semplicemente quelli di seguire gli ordini statunitensi. Però sono strettamente legati. Il settore imprenditoriale in Europa, negli Stati Uniti ed in gran parte dell'Asia è molto unito, ha interessi comuni. Ci sono invece interessi separati - e questo crea problemi che vanno nel senso inverso - specialmente per quanto riguarda l'Europa.
Gli Stati Uniti hanno sempre avuto un atteggiamento ambivalente nei confronti dell'Europa. Volevano che fosse unita per diventare un mercato più efficiente per le multinazionali statunitensi, perché ne fosse avvantaggiata l'economia di scala. Contemporaneamente si sono sempre preoccupati che l'Europa potesse muoversi in un'altra direzione. Molte questioni legate all'entrata dei paesi dell'Europa orientale nell'Unione Europea hanno a che vedere con questo. Gli Stati Uniti sono decisamente favorevoli perché sperano che questi paesi, più esposti all'influenza statunitense, possano indebolire il cuore dell'Europa, costituito da Francia e Germania, i grandi paesi industriali, che tendono a muoversi in direzioni per qualche verso indipendenti.
Sullo sfondo c'è anche un vecchio risentimento statunitense nei confronti del sistema sociale europeo, che fornisce indennità, stipendi e condizioni di lavoro decenti. E' molto diverso dal sistema statunitense. Gli Usa non vogliono che questo modello esista, lo considerano pericoloso. Secondo loro fa venire strane idee alla gente. E' stato esplicitamente detto che l'ingresso dei paesi del blocco orientale, dove si hanno stipendi bassi, condizioni di lavoro repressive e così via, potrebbe compromettere gli standard sociali e di lavoro dell'Europa occidentale, e questo sarebbe un grosso vantaggio per gli Stati Uniti.

Con il deterioramento dell'economia statunitense, con i licenziamenti, con la guerra permanente e l'occupazione di numerosi paesi, come farà l'amministrazione Bush a mantenere quello che alcuni chiamano uno "stato guarnigione"? Come ci riusciranno?

Devono riuscirci per altri sei anni circa. Per allora sperano di aver formalizzato programmi fortemente reazionari. Avranno lasciato l'economia in uno stato pietoso, con un deficit enorme, molto di più rispetto agli anni 80. E allora sarà un bel problema rimettere insieme i cocci. Nel frattempo avranno - loro sperano - indebolito i programmi sociali e diminuito la democrazia, che naturalmente detestano, vogliono che le decisioni siano tolte dall'arena pubblica e messe in mani private. E l'avranno fatto in un modo che risulterà molto difficile da sbrogliare. Lasceranno un'eredità penosa e complicata. Ma solo per la maggioranza della popolazione. Gli altri se la passeranno come banditi. In modo molto simile a quanto successo negli anni di Reagan. E' la stessa gente dopo tutto.
Dal punto di vista internazionale sperano, attraverso la forza e la scelta della guerra preventiva, di istituzionalizzare la dottrina del dominio imperiale. Oggi le spese militari Usa superano probabilmente quelle di tutto il resto del mondo messe insieme. In questo campo sono avanzatissimi e si stanno estendendo in direzioni molto pericolose, ad esempio nello spazio. Sono convinti che non ha alcuna importanza cosa accadrà all'economia americana, perché la forza militare darà loro una potenza così schiacciante che la gente dovrà fare quel che dicono loro.

Cosa dici agli attivisti della pace che per tanto tempo hanno tentato di fermare l'invasione dell'Iraq e che ora sentono un senso di rabbia e di sconforto?

Che devono essere realisti. Non so per quanto tempo andrà avanti la battaglia prima di ottenere risultati. Se ci si arrende, se ci si scoraggia ogni volta che l'obiettivo si fa lontano, allora è scontato che il peggio accadrà. Queste sono battaglie lunghe, difficili. Ma quel che è successo negli ultimi due mesi dovrebbe essere visto in modo positivo. Sono state create le basi per l'espansione e lo sviluppo di un movimento per la pace e per la giustizia che avrà di fronte a sé compiti sempre più difficili. E' così che vanno le cose. Nulla è facile.

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