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(29 Marzo 2012) Enzo Apicella
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Governo espropriatore

(23 Aprile 2012)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Il governo Monti, appoggiato dalla finanza europea e americana, procede come un panzer, incurante dell’enorme tragedia sociale che sta producendo, e di cui i suicidi di operai e di piccoli imprenditori in fallimento sono solo la punta dell’iceberg. Sul carro di Monti sono saliti, con la funzione sia di predicatori sia di buffoni di corte, Alfano, Casini e Bersani, che intonano la solita litania dei sacrifici per il bene comune, nuova versione dell’ “oro alla patria” di mussoliniana memoria. Questa volta, però, rischiano un tripudio di uova marce e pomodori.

Attenzione, vi rubano la casa!

Alcune osservazioni elementari: hanno già saccheggiato, a beneficio delle banche, la scuola, le attività culturali, la sanità, e potremmo continuare questo elenco a lungo. Ora è la volta della casa. Fiducioso nel mito del progresso sociale, rinsaldato in questa sua convinzione dai falsi profeti di DC, PSI, PCI e partiti minori, l’italiano medio risparmiatore, il “giapponese d’Europa”, aveva per decenni sacrificato molti consumi, e si era comprato una casa. Chi non credeva a questo mito, spesso era costretto a adeguarsi per la difficoltà di reperire case in affitto a prezzi abbordabili. Il regime favoriva questa tendenza, ben sapendo che per offuscare la coscienza di classe non c’è niente di meglio che una proprietà, anche fittizia, perché per tutto il periodo del mutuo il vero proprietario è la banca, mentre le tasse le paga l’acquirente.

Questo cittadino risparmiatore oggi è irriso, ed è accusato dal governo di essere la causa del debito pubblico, perché sarebbe vissuto al di sopra dei suoi mezzi. Sarebbe lui, a sentire i tecnici al governo, la causa dei nostri mali. La borghesia al potere non può fare a meno delle menzogne. I più vecchi sono un bersaglio privilegiato: la decisione di far pagare l’IMU come seconda casa agli anziani nei ricoveri li costringerà a svendere rapidamente l’alloggio, mettendoli alla mercé del primo speculatore. Gli animali da preda, quando seguono una mandria, puntano dapprima i capi più deboli, perché feriti, anziani o ancora troppo giovani. Il criterio del governo Monti è del tutto simile. Non hanno detto forse autorevoli istituti internazionali che una vita troppo lunga danneggia i bilanci perché costa troppo? Eliminare un po’ di anziani, o almeno depredarli, è salutare per le finanze.

La pressione fiscale, e i metodi di Iniquitalia, che non esita a pignorare la casa per un piccolo debito, portano al disastro, non solo lavoratori salariati proprietari di una piccola abitazione, ma anche centinaia di migliaia di piccoli commercianti, artigiani, piccoli imprenditori.

Da oltre 160 anni gli ideologi della borghesia, la stampa e i partiti borghesi raccontano al piccolo proprietario che il comunismo vuole portare via i loro beni. In realtà, questa funzione storica viene svolta dal capitale, e ora lo si vede chiaramente. Mentre grida al lupo comunista, la volpe capitalista saccheggia casa e pollaio.

Compito del comunismo, in realtà, è espropriare gli espropriatori, e ridare alla società in forma pubblica l’uso di quei beni che il capitalismo le ha sottratto.

Il capitale è per sua natura espropriatore

Tutti i sistemi economico-sociali basati sullo sfruttamento di classe hanno progressivamente espropriato gran parte della società: in Roma antica i latifondisti s’impadronirono delle terre -“Latifundia perdidere Italiam”, scrisse Plinio. Nell’Inghilterra tra la fine del’400 e gli inizi del ‘500 si compiva la cacciata dei contadini dai campi, sostituiti da greggi, per rifornire di lana le manifatture fiamminghe. Non a caso, nell’Utopia, Tommaso Moro parlava di un paese in cui le pecore divoravano gli uomini. Ancor peggio dopo la conquista del potere statale da parte delle borghesia: ne “Il Capitale” leggiamo : “La “Glorious revolution” (rivoluzione gloriosa), portò al potere, con Guglielmo III d’Orange, i facitori di plusvalore, fondiari e capitalistici, che inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta… I beni statali così fraudolentemente appropriati costituiscono assieme al frutto del furto dei beni della chiesa …la base degli odierni domini principeschi dell’oligarchia inglese”. “…la nuova aristocrazia fondiaria era alleata naturale della nuova bancocrazia, dell’alta finanza, allora appena uscita dal guscio, e del grande manifatturiero che allora si appoggiava ai dazi protettivi.”(1)

Il capitalismo è nato e si è sviluppato espropriando milioni di contadini, saccheggiando le colonie, rubando i beni dello stato e della chiesa, condizionando sempre più il potere statale, prima ancora di impadronirsene. Il capitalismo è uno, ed è rimasto quello, anche se in certi periodi trova conveniente mascherarsi in diversi modi. Ha rinnegato, almeno a parole, i vecchi metodi, dalla pirateria al saccheggio coloniale, e si è presentato come democratico, sociale, cristiano. Ha inventato la fola del peccato originale economico, secondo cui i capitalisti sono i discendenti dell’ elite risparmiatrice, i proletari degli scialacquatori incoscienti. Ma il capitalismo, a sentir loro, era in grado di arricchire chiunque si rimboccasse le maniche e si mettesse a lavorare. Ogni studioso borghese ha cercato di aggiungere nuovi tasselli alle favole ufficiali. Non ci hanno forse raccontato, economisti, politici e giornalisti, che il neocapitalismo aveva imparato, attraverso l’intervento statale, a prevenire le crisi, a trasformarle in innocue congiunture, e quindi ci dovevamo aspettare uno sviluppo graduale, un miglioramento continuo del tenore di vita di tutti gli strati della società? Quante volte, ancor prima di Giolitti, hanno cercato di mettere Marx – e soprattutto la rivoluzione - in soffitta?

Nei periodi di boom si formano milioni di piccole imprese, la piccola borghesia si illude di poter entrare a far parte dell’elite capitalistica, e a volte qualcuno ci riesce. Con la crisi c’è la falciatura: migliaia di piccoli capitali vengono espropriati, con la caduta nel proletariato o nel pauperismo di strati vastissimi della società. C’è chi non sopporta l’idea e si ammazza, c’è chi s’illude che regimi fascisti o parafascisti possano salvarlo, c’è chi capisce l’inevitabilità storica del processo, che non si può tornare indietro all’età della piccola proprietà privata, e sente la necessità di lottare per superare il sistema capitalistico.

La borghesia dice di difendere la proprietà privata, e l’equivoco sorge sul significato del termine: c’è la piccola proprietà privata basata sul lavoro individuale, dove chi lavora è anche proprietario degli strumenti di produzione. Ci fu l’età d’oro della produzione artigianale e del piccolo contadino proprietario, ma lo sviluppo del capitale l’ha distrutta. Un’altra cosa è la proprietà basata sul monopolio dei mezzi di produzione e della terra, contrapposta al lavoro salariato, dove il numero dei proprietari tende storicamente a diminuire, e a concentrarsi in grandi società per azioni. La confusione intenzionale tra i due tipi di proprietà serve alla borghesia per asservire ai propri scopi la piccola borghesia, agitando gli spettri del comunismo, dell’anarchia, della disgregazione sociale. Ci sono piccoli contadini che guadagnano meno di un operaio, hanno il terreno oberato da ipoteche, per cui il vero proprietario è la banca, e non capiscono che la loro proprietà è un capestro, e che la proletarizzazione è inevitabile.

Lo stato dei lavoratori

Molti sperano nello stato, chiedendo una redistribuzione delle ricchezze, e i più audaci la nazionalizzazione dei beni. Ma questo stato è a immagine e somiglianza della borghesia, può fare qualche concessione se costretto dalle lotte, ma non cambiare radicalmente la società. Il debito pubblico è lo strumento principale attraverso il quale il capitale finanziario trasforma gli stati, compresi quelli imperialistici, in proprie marionette. Ogni forma economico–sociale nuova ha avuto come levatrice una rivoluzione e ha dato origine a una forma statale diversa. Gli antenati dello stato di domani sono le Comuni di Parigi e di Monaco di Baviera, i soviet e i consigli tedeschi.

Questi primi grandiosi esperimenti furono sconfitti dalla repressione esterna o dalla controrivoluzione interna (il nemico da battere per il movimento operaio è lo sciovinismo, che distrusse la II Internazionale e pure la Terza. Infatti lo stalinismo, col suo “socialismo in un solo paese”, non è altro che una nuova forma dello sciovinismo grande russo). Nonostante ciò, da queste tappe rivoluzionarie si dovranno trarre insegnamenti al tempo della formazione del nuovo stato, non solo per gli indubbi meriti, ma anche e soprattutto per i grandi errori. Non parliamo qui della trasformazione dello stato in un’organizzazione puramente amministrativa, il cosiddetto deperimento dello stato, perché potrà avvenire solo con la sconfitta definitiva del capitale a livello internazionale. Il problema della nostra epoca è di respingere l’offensiva del capitale, e capire che l’unica soluzione è la sua espropriazione.

Per espropriare gli espropriatori, cioè i grandi capitalisti della finanza e dell’industria, nonché gli agrari, è necessario un potere che rappresenti effettivamente le masse, e che non abbia problemi a colpire le grandi ricchezze. Oggi, nella finzione della democrazia borghese, ciascuno è cittadino, ma, quando cerca di far valere i propri diritti, si scopre suddito, ha difficoltà persino a farsi ricevere da un piccolo burocrate, e tutte le decisioni fondamentali che lo riguardano sono prese al di sopra della sua testa, da governi locali o nazionali, da multinazionali o istituzioni sovranazionali. Non può programmare la propria vita, fare calcoli sulla pensione, perché un qualsiasi imprenditore, burocrate di partito o funzionario di banca, diventato ministro o premier, può posticipare di anni la sua uscita dal lavoro e ridurne l’importo. L’incertezza cronica che domina la nostra esistenza si chiama capitalismo. Le gerarchie della pubblica amministrazione che tanto c’infastidiscono non sono un retaggio del feudalesimo, ma solo la proiezione delle gerarchie esistenti nelle imprese, come dimostrano le sempre più asfissianti “innovazioni” introdotte dal Brunetta di turno.

Nessuna conquista permanente del movimento operaio e della stragrande maggioranza degli sfruttati potrà essere fatta senza travolgere il guardiano armato del capitale, lo stato borghese, liberandoci così da quell’ipoteca costante sulla nostra vita e sul nostro avvenire che è data dal potere del capitale.

23 aprile 2012

Note

1) Karl Marx, “Il Capitale”, Libro I, cap. 24 , par. 2.

Michele Basso

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