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Sulle elezioni europee e amministrative del 12-13 giugno 2004

Il documento di Progetto Comunista alla Direzione Nazionale Prc del 16 giugno

(20 Giugno 2004)

Le elezioni europee e amministrative del 12-13 giugno 2004 segnano una netta sconfitta di Silvio Berlusconi e di Forza Italia. Nel contempo la tenuta o il relativo successo degli alleati di governo di FI permette alla destra di contenere la perdita in voti rispetto alle elezioni politiche del 2001, unico termine serio di paragone, perlomeno in termini percentuali. Il calo di consensi del governo è evidente (circa il 5%), ma inferiore a molte aspettative.

Soprattutto è lo schieramento di opposizione di centrosinistra (comprendendo in ciò il nostro partito, per decisione maggioritaria, organicamente alleato al centro liberale) a non realizzare un salto qualitativo tale da sorpassare la coalizione di governo, almeno nel suo quadro più ampio. Così invece dell’ipotizzato (da molte fonti) 48% a 45%, si è realizzato un pareggio matematico, 46,1% a 46,1% (l’influenza di fattori particolari, come la liberazione dei tre mercenari italiani prigionieri della resistenza irakena, ha presumibilmente inciso in termini assolutamente minimi).

Naturalmente il risultato modesto delle opposizioni si deve in primo luogo al mancato successo del “triciclo” (oltre al fallimento della lista Di Pietro- Occhetto non a caso già in dissoluzione). Tale insuccesso non deriva dalla mancata conquista dell’elettorato di centro a causa di una “insufficiente moderazione” ma esattamente dalla ragione contraria. I partiti di destra continuano a contenere una parte (certo minoritaria) di elettorato proletario e popolare (come si può evidenziare ricordando che in Italia oltre il 70% dell’elettorato è rappresentato da lavoratori dipendenti, da pensionati ex dipendenti e dalle loro famiglie). Lo possono fare sulla base della demagogia e dei pregiudizi ideologici, in particolare anticomunisti. Il solo modo per recuperare una parte di tali settori è quello di mettere in contraddizione il loro voto e i loro interessi di classe. Ma per questo occorre un programma che certamente il centro borghese (che con l’ipotesi del triciclo intendeva consolidare definitivamente il nuovo soggetto politico rappresentante della grande borghesia) oggi confortato dall’implicito sostegno della Confindustria di Montezemolo e delle grandi banche, non può certo esprimere.

Per quanto riguarda il voto amministrativo, dove la sconfitta del governo è più evidente, è significativo il fatto che, in una situazione in cui i singoli partiti si presentavano in maniera disgiunta (pur nell’ambito della coalizione), si è visto il successo dei DS rispetto alla Margherita. Ciò indica che vasti settori centrali del proletariato continuano a vedere, erroneamente, nei DS un partito dei lavoratori (non cogliendone la natura ormai compiutamente borghese) e in quanto tale lo privilegiano. Questo sottolinea la drammatica negatività della scelta della maggioranza del nostro gruppo dirigente di non sviluppare alcuna battaglia contro il gruppo dirigente liberale dei DS, anzi di dargli un attestato di benemerenza, subito dopo il referendum sull’articolo 18, dove la maggioranza assoluta degli elettori DS avevano contravvenuto alla scelta di boicottare il referendum in alleanza con Confindustria e destra. Una occasione perduta in nome dell’alleanza con la rappresentanza “progressista” della grande borghesia.

Il risultato ottenuto dal nostro partito in queste elezioni è certamente positivo. Godiamo del prestigio conquistato rispetto al sostegno alle ultime lotte sia sul terreno operaio che su quello di massa più in generale e, inoltre, rispetto alla battaglia contro la guerra. Infine ha giocato, per noi come per il PdCI (anche se meno che per quest’ultimo) e i verdi, l’assenza di una lista indipendente dei DS che ha spostato settori modesti ma non insignificanti, del loro elettorato verso sinistra.

Il problema essenziale a cui il partito deve rispondere è se utilizzerà questo modesto ma reale successo per costruire una ipotesi di classe antagonista alla borghesia o per essere ancora di più ruota di scorta e copertura a sinistra del programma confindustriale dell’Ulivo.

La sconfitta di Berlusconi e il successo del centro sinistra alle amministrative apre una possibile dinamica di progressiva erosione del sostegno elettorale delle destre e di omogeneizzazione tra il progressivo isolamento del governo rispetto a strutture sociali fondamentali (dalla CISL alla Confindustria) in passato dialoganti con lui e il permanere di un ampio sostegno elettorale anche in settori che si riferiscono a queste strutture. Tuttavia, visto i dati numerici delle elezioni europee, nulla può essere dato per scontato. Se la dinamica è quella che abbiamo indicato, restano alcuni elementi potenziali di contro tendenza negativa. La probabile maggiore partecipazione percentuale alle prossime scadenze elettorali può avvantaggiare le destre e lo stesso ridimensionamento di Berlusconi se da un lato dà il senso di un declino e può rendere più ostica ad elettori di altri partiti di destra la sua inevitabile permanenza a capo della coalizione, dall’altro può dare una immagine di maggior equilibrio interno e di minor “berlusconismo” del governo. Infine non si può escludere l’adozione di provvedimenti demagogici, a carattere populista, tesi a recuperare margini elettorali, come fu per le elezioni del 2001 la promessa del milione minimo per i pensionati a più basso reddito. Anche se c’è da considerare l’atteggiamento di AN e UDC, che a differenza dell’avventuriero di Arcore devono rispondere seriamente alla borghesia e ai suoi interessi collettivi (come si è già visto nella discussione dell’ipotesi di riduzione delle tasse).

In ogni caso il problema rimane non solo quello di battere Berlusconi, ma congiuntamente, di sconfiggerlo da un punto di vista di classe. Per questo è assolutamente fondamentale che il nostro partito indichi la prospettiva dello sciopero generale prolungato come mezzo per cacciare il governo, a partire dalla necessaria difesa delle conquiste, sempre più erose, dei lavoratori messe in discussione dall’esecutivo, modificando radicalmente l’atteggiamento di non conflittualità tenuto (dopo alcuni iniziali distinguo del tutto limitati) nel corso delle lotte precedenti, in particolare quella sull’art 18, nei confronti in quel caso della CGIL, mentre essa e segnatamente Sergio Cofferati, tradivano le potenzialità del movimento, con scioperi di immagine, centellinati nel tempo

Il ripetersi di lotte radicali nell’ultima fase (Scanzano, autoferrotranvieri, Alitalia, Melfi) rivelano un potenziale esplosivo nella situazione sociale. E smentiscono la tesi, ribadita per anni nel nostro stesso partito, sull’”impossibilità” di scioperi ad oltranza e/o sulla loro inconcludenza. L’esperienza ci dice che questa lotte non solo sono possibili ma sono politicamente vincenti: valorizzano le disponibilità dei lavoratori, favoriscono la loro unità, richiamano consenso popolare, piegano la resistenza padronale. E non a caso moltiplicano i propri effetti di propagazione (Fincantieri, Polti ecc.)

Questa esperienza va dunque estesa e generalizzata. La necessità di una piattaforma unificante di mobilitazione generale, di uno sciopero generale prolungato sino alla sconfitta del padronato e del governo, è più attuale che mai. Peraltro solo questo sviluppo delle potenzialità di lotta del mondo del lavoro può determinare la cacciata del governo Berlusconi creando le condizioni di una alternativa di classe. E viceversa, senza questo salto, si aggrava il rischio che il governo riesca a sopravvivere alle proprie difficoltà e continui a macinare le sue politiche antipopolari e reazionarie. Con la possibilità, alla lunga, di un riflusso di fondo dei movimenti.

Proprio le potenzialità delle lotte operaie e dei movimenti spingono il grosso dei poteri forti, a partire dalla Confindustria di Montezemolo e dai banchieri del nord e del centro a cambiare cavallo: in direzione di un recupero della concertazione che coinvolga in primo luogo la burocrazia CGIL, e quindi in direzione di un quadro politico di centro sinistra che consenta la concertazione. Il fine dell’operazione è il ritorno alla pace sociale, quindi il disinnesco delle lotte in corso e dei rischi di loro propagazione. L’apparato CGIL, a partire da Epifani, apre a questa prospettiva, dentro una progressiva ricomposizione unitaria con gli apparati di CISL e UIL. Il centro liberale dell’Ulivo (Margherita, maggioranza DS, SDI) si pone apertamente come sponda politica dell’operazione dentro un consolidamento dei propri rapporti con i poteri forti del paese. La sinistra dell’Ulivo (Sinistra Ds, PdcI, Verdi) si predispone a negoziare il compromesso sociale e politico con i liberali, dentro la piena accettazione dell’alternanza.

Il processo dell’alternanza borghese liberale è dunque già in pieno corso. E’ un processo che mira a colpire e rimuovere la ripresa di lotta dei movimenti nell’interesse del grande capitale. Non c’è possibilità di estensione e generalizzazione delle lotte se non contro questa prospettiva politica e in piena autonomia dal Centro Ulivista. E viceversa: una subordinazione del movimento operaio e dei movimenti a questa prospettiva di alternanza significherebbe la loro sconfitta sociale e politica.

E’ necessaria dunque una svolta politica di fondo del nostro partito.

La corsa imboccata verso l’ingresso del PRC nel futuro governo dell’Ulivo ci subordina al processo di alternanza borghese sospinto da Luca di Montezemolo e dai banchieri.

La tesi secondo cui l’ingresso del PRC nella coalizione di governo a guida Prodi destabilizzerebbe l’alternanza a favore dell’alternativa è l’esatto capovolgimento della realtà. Ed è contraddetta dai fatti.

La svolta di governo del PRC, intrapresa dal marzo 2003, non ha spostato, e non poteva spostare, su nessun terreno l’indirizzo programmatico del centro liberale dell’Ulivo.

Sul terreno economico sociale il centro dell’Ulivo plaude entusiasta alla linea di Montezemolo e Fazio, candidandosi a rappresentarla e a gestirla. Sul terreno della politica europea il centro dell’Ulivo resta attestato più che mai sulla identificazione nell’attuale costruzione dell’Europa capitalista di cui è stato massimo artefice: e quindi rivendica l’attuale progetto costituzionale reazionario della UE, lo sviluppo dell’esercito europeo, maggiori stanziamenti nelle spese militari dell’Unione; accanto alla continuità delle politiche antioperaie della Banca Europea: completamento delle controriforme pensionistiche e stretta dei bilanci. Sullo stesso terreno della politica internazionale, dove si è voluto accreditare uno spostamento a sinistra dell’Ulivo, i fatti ci dicono l’opposto: le tre righe della mozione parlamentare sul ritiro delle truppe sono state smentite in ventiquattro ore dal nuovo plauso alla risoluzione ONU a favore della continuità dell’occupazione coloniale dell’Irak e della ripresa della gestione multilaterale del colonialismo contro il popolo iracheno e la resistenza. Dov’è dunque fosse pure un “inizio” della “svolta”? La verità è che quanto più il berlusconismo entra in crisi, tanto più il Centro dell’Ulivo si presenta come carta di ricambio delle classi dominanti e dei loro interessi.

Si obietta da circa due anni che l’Ulivo è solcato da contraddizioni nuove, sospinte dai movimenti. E’ verissimo. Ma queste contraddizioni sono alimentate esattamente dalla fissità di fondo del Centro liberale, dalla sua impermeabilità alle ragioni sociali delle lotte. E proprio queste contraddizioni dovrebbero spingerci a una politica di rottura col centroliberale ulivista, ad una proposta di unità d’azione contro Berlusconi di tutte le forze dei movimenti e di tutte le loro rappresentanze in piena autonomia da Prodi, D’Alema, Fassino e su un terreno di alternativa vera. Una proposta che proprio per questo critichi e sfidi il pieno ritorno concertativo della burocrazia CGIL, la subordinazione a Prodi e D’Alema della sinistra DS, la capitolazione ai liberali di tutta la sinistra dell’Ulivo.

Una politica che dica ”rompete con Prodi, D’Alema, Montezemolo, rompete con una prospettiva di concertazione, costruiamo insieme a partire dalle lotte una alternativa anticapitalista a Berlusconi”, saprebbe entrare nelle contraddizioni dell’Ulivo, parlare alla base popolare dei DS, configurare una egemonia alternativa. Viceversa continuare a puntare sul governo con Prodi significa l’opposto: volgere le spalle alle contraddizioni di classe del blocco sociale dell’Ulivo e scavalcare la sinistra ulivista nella negoziazione compromissoria con Prodi, sul terreno di Prodi. Cioè sul terreno dell’alternativa liberale. E’ una politica senza principi.

Già oggi questa svolta governista mostra i suoi costi.

Ci conduce a un diplomatico silenzio sulla linea concertativa di Epifani e della burocrazia CGIL, al rifiuto di ogni sostegno al diritto di resistenza del popolo iracheno contro il colonialismo imperialista (incluso quello italiano), alla moltiplicazione degli assessorati nelle giunte liberali dell’Ulivo sotto la direzione dei Soru o degli Illy, a un primo contrasto con le forze d’avanguardia dei movimenti (incluse quelle del movimento no global).

Se quella prospettiva dovesse realmente concretizzarsi con l’ingresso del partito in un governo dell’Ulivo o nella sua maggioranza, tutte queste tendenze precipiterebbero. E sarebbe la rottura del nostro partito con le sue stesse ragioni sociali.

Per questo facciamo appello all’insieme dei compagni del partito perché tale deriva sia fermata.

Marco Ferrando
Franco Grisolia

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