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(12 Settembre 2013) Enzo Apicella

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L’arcobaleno si tinge di rosso …

ma sul “movimento” pesa ancora la politica istituzionale

(22 Giugno 2004)

1. Una oggettiva prova di autonomia del “movimento” …

Sarà stato per l’intollerabile valenza provocatoria della kermesse del boia texano osannato nelle vesti di “liberatore dal comunismo e dal nazismo”, dai suoi proconsoli più ruffiani; sarà stato per la dirompente memoria che tale rituale richiamava di altri lontani “trionfi” dei predecessori di tale indecente imperatore della decadenza yankee, altrettanto macchiati del sangue di massacri e genocidi perpetrati sempre in nome della libertà … del mercato! Sarà stato certo anche per l’impatto devastante dei “nuovi campi” dell’orrore necrogeno eretto a sistema burocratico/disciplinare su scala tendenzialmente planetaria, da Gaza a Guantanamo, dall’Afghanistan all’Iraq … e, last but not least, per l’inaspettata, irriducibile resistenza di un popolo martoriato da decenni di repressioni, massacri, embarghi e guerre ma ancora capace di destabilizzare i nuovi assetti di dominio preventivati dalla maggior potenza militare del mondo …

Fatto sta che a Roma, il 4 giugno, le strade sono state colorate da bandiere di pace aventi una inusuale tonalità prevalentemente rossa. Il “movimento” c’è e ha battuto più di un colpo: duecentomila! Nonostante la giornata lavorativa, l’opera di terroristico allarmismo preventivo del governo e l’aperto boicottaggio della sinistra moderata, il movimento ha risposto con un grande corteo. Un corteo, tra l’altro riuscito anche malgrado gli stessi “sinistri” della sinistra (aspirante) di governo avessero adottato il più classico atteggiamento attendistico del “né aderire né sabotare”, pronti a prendere le distanze nel caso di insuccesso numerico o di incidenti al di sopra di un certo limite ritenuto fisiologico, e altrettanto preparati ad appropriarsi, come è effettivamente accaduto, dell’eventuale inaspettato successo.

Certo i numeri non sono stati quelli di molte passate mobilitazioni del ciclo “post-Seattle”, ma altrettanto certamente hanno fatto comunque paura a chi, contraddicendo le stesse prime stime della questura (poi da essa spudoratamente smentite), ha preteso parlare di poche migliaia di manifestanti. Ed hanno avuto tale effetto di tremebondo spiazzamento, proprio per le modalità di assoluta autonomia che hanno caratterizzato l’organizzazione di questo appuntamento metropolitano, totalmente privo di alcun supporto logistico da parte delle più forti organizzazioni politiche e sindacali (Cgil, Prc, Arci, Acli, ecc.) che da sempre avevano invece offerto preziosi aiuti, sia sul piano dei trasporti che della stessa risonanza mediatica.

Sostanzialmente, il 4 giugno si è riaperto quello strappo che era nato a Genova 2001 e che, a partire dal Forum di Firenze, era stato ricucito dalla sinistra moderata per mezzo soprattutto della Cgil “cofferatiana” e di una larga parte dell’associazionismo cattolico e laico che ad essa fa riferimento, il tutto sotto l’egida di un antiberlusconismo enfatizzato a mò di “ultima spiaggia”, e sulla spinta del presunto rinnovamento girotondistico dei “sinistri di governo”. Era perciò quasi scontatamente fisiologico che il “movimento arcobaleno” perdesse alcune delle sue strisce colorate, quelle dalle tonalità più sfumate. Ma l’importante è che ciò sia avvenuto senza disperdere alcunché del carattere di massa della mobilitazione ed evitando di slancio qualsivoglia rischio di ricadute in un asfittico minoritarismo alla “pre-Seattle”.

Questa è la valutazione indubbiamente positiva da cui tutte le successive considerazioni debbono partire: persiste una disponibilità diffusa alla mobilitazione, anche nelle condizioni più difficili e pericolose, che sebbene non costituisca ancora un compiuto movimento a “struttura soggettiva”, ne costituisce tuttavia le premesse basilari ed ha fatto, con il 4 giugno, un passo in avanti verso questa direzione. Insomma, i mefitici anni Ottanta, con l’atomismo e la passiva rassegnazione allo stato di cose presenti che li hanno caratterizzati, non sono tornati. Tutt’altro! Il “movimento” esiste, lo ribadiamo, anche se, proprio per le considerazioni che abbiamo articolato, è ancora un movimento “tra virgolette”.

2. … ma la politica istituzionale pesa ancora.

Si tratta ora di capire dove stiamo andando e quali dinamiche intrinseche al corpo sociale vogliamo cercare soggettivamente di privilegiare e stimolare.

Ora, da questo punto di vista, va anzitutto rilevato che il corteo del 4 giugno è rimasto in certa misura succube dell’imminente scadenza elettorale: al di là della citata dimensione di effettiva distanza rispetto alle logiche predominanti nei corpi militanti delle organizzazioni più grosse che avevano prescelto un’opportunistica linea di “basso profilo” rispetto alla mobilitazione, era comunque palpabile una diffusa preoccupazione che eventuali incidenti potessero costituire un oggettivo regalo a Berlusconi. Insomma, nonostante la discesa in piazza si ponesse di fatto in diretto contrasto con la politica della sinistra istituzionale, soggettivamente si è mantenuta una sorta di sudditanza psicologica nei confronti della politica politicante.

Questa preoccupazione, dal lato organizzativo, si è esplicitata attraverso una preventiva concertazione con la polizia riguardo ai comportamenti di piazza (si vedano gli articoli su “la Repubblica” e “l’Unità”). L’insolito atteggiamento conciliante della sbirraglia, a fronte di dichiarazioni del governo che facevano presagire un comportamento “modello Genova”, testimonia comunque che una qualche forma di accordo, almeno implicito, ci sia stato, nonostante Berlusconi e i suoi fidi scherani, affatto propensi, invece, a ripetere il copione della mattanza genovese (e prima ancora partenopea).

In buona sostanza, pare che in un periodo in cui sta tornando prepotentemente in auge la concertazione sociale (con la mallevadoria della nuova dirigenza di Confindustria e in funzione anti-Berlusconi), riaffiorino sotterfugi già tristemente noti, tesi a delimitare preventivamente i comportamenti di piazza, nel migliore dei casi, od a spettacolarizzare e dunque ridurre ad inoffensiva pantomima mediatica lo scontro, nel peggiore (vedi le azioni “a sorpresa” della mattina, anticipate nel dettaglio da una compiacente fonte anonima, sul citato articolo de “la Repubblica”, e graziosamente tollerate dalla stessa polizia).

Se per un verso comprendiamo le preoccupazioni relative all’incolumità di manifestanti oggi come non mai disavvezzi alle dinamiche che caratterizzarono le manifestazioni di strada sino ad un ventennio fa ed oltre, per un altro verso, rimaniamo convinti che “un altro mondo possibile” non si possa costruire con l’approvazione preventiva della polizia e dei suoi mandanti. Certo, una domanda non si può eludere: cosa si sarebbe dovuto fare, dato il contesto assai “pesante” artatamente “montato” dalla campagna allarmistica lanciata dagli arkoriani e l’ormai pressoché inesistente attitudine all’autodifesa militante dei cortei? Era possibile pensare che le organizzazioni maggiormente significative si facessero carico di questa autodifesa, magari comunicando nelle sedi opportune che tale organizzazione aveva uno scopo esclusivamente difensivo? Ci rendiamo conto dei rischi che tale scelta avrebbe comportato (sempre ammesso che, allo stato attuale, ci sia chi è in grado di farsene carico), ma è possibile perseguire una coerente e radicale politica di alterità rispetto al sistema vigente, senza prendersi i propri rischi e le proprie responsabilità? E d’altra parte, chi poteva essere sicuro che gli accordi pattuiti dietro le quinte sarebbero stati rispettati? Genova non ha insegnato nulla?

Genova, appunto. E’ questo l’incubo ricorrente che in molti hanno cercato di scongiurare. E certamente si tratta di un esempio da non ripetere, quanto a ingenuità e confusione nella gestione della piazza. Ma d’altra parte proprio Genova ci ha insegnato, con pur tragico paradosso, che la violenza indiscriminata della polizia non paga, in termini di consenso per Lor Signori. Tutt’altro: di fronte al pur inaspettato dispiegarsi della ferocia dello stato, anche la più sprovveduta “composizione di piazza” sa riscoprire ormai dimenticate (scotomizzate !?!) attitudini ad un agire collettivo che spontaneamente tende a farsi pratica di massa, sul piano dell’autodifesa e dell’azione diretta.

Detto ciò, non abbiamo soluzioni preconfezionate da suggerire. Ma quello che di certo sappiamo è che la rappresentazione spettacolarizzata del conflitto è ciò che di peggio possa accadere, dal momento che tramite essa si pretende dare l’impressione di cambiare tutto per far sì, nella realtà, che ogni cosa rimanga invece sostanzialmente immutata. Piuttosto che far ricorso a questi gattopardeschi sotterfugi, non sarebbe meglio, laddove ci si veda costretti dalle circostanze, a riconoscere apertamente i propri limiti? Siamo ingenui? Forse. Ma almeno l’indicazione di un limite al momento invalicabile costituisce, in modo almeno implicito, l’individuazione di un ostacolo che deve essere superato appena se ne presenti la possibilità e non il suo oltrepassamento del tutto illusorio, che finisce di fatto per assumere come immutabile lo status quo.

Ma data a Cesare la responsabilità che è di Cesare, dobbiamo pur dire che non sposiamo la causa di Bruto. Non crediamo infatti che il groviglio di problemi presentatisi il 4 giugno potesse essere risolto con isolate fughe in avanti, per mezzo di minoritaristici comportamentalismi sia pur a (presunto!) “alto valore simbolico”. Perché il problema, prima ancora di riguardare il formalismo dei comportamenti di piazza, è un problema di schietta sostanzialità politica. La possibilità di sparigliare il gioco politico-istituzionale, bypassando il ricatto della scadenza elettorale, avrebbe dovuto implicare la consapevolezza radicata e diffusa di un’autonomia progettuale contro la mediazione astrattizzante della politica in quanto tale. Ma siamo davvero certi di essere giunti già a questo punto?!?

3. Cercasi autonomia progettuale (I): la farsa spettacolarizzata si istituzionalizza definitivamente.

Purtroppo non lo crediamo e per di più, non vediamo in alcuna delle più importanti componenti organizzate, interne al movimento, una qualche reale disponibilità ad agevolare il cammino in questa direzione. Iniziamo con uno sguardo ad un’area che si è autoidentificata come una sorta di specifico movimento organizzato, “al di là” della forma-partito: i Disobbedienti. Toni Negri, loro “padre spirituale”, manda a dire dalle pagine di “Posse” che o il partito diventa <>, <>, <> o <>. Dal suo canto Bertinotti, dopo il successo della manifestazione del 4 giugno puntualmente/furbescamente rivendicato … sulla dirittura d’arrivo, risponde via etere che i suoi Giovani Comunisti sono parte integrante del “movimento dei movimenti”, e in particolare della esperienza più avanzata di esso - i Disobbedienti, appunto -, di per sé in grado di dare nuova linfa alle istituzioni e di imporre una loro agenda politica in opposizione ai dettami del neoliberismo. Evidentemente c’è qui un gioco delle parti, in cui ognuna delle due è convinta di strumentalizzare l’altra. Un giochetto che sembrava essersi rotto in considerazione della responsabilità governativa che il Prc si sta preparando a ri/assumere, ma che, proprio in forza della inaspettata riuscita della manifestazione “anti-Bush” (evidentemente non recuperabile dalle forze dell’Ulivo, troppo scopertamente ad essa oppostesi), può ora riattivarsi tramite la repentina mossa di Bertinotti, pronto a rilanciare le proprie quotazioni sul tavolo del “toto-governo”, rivendicando a sé l’interlocuzione privilegiata con il movimento no-war. D’altronde, poco ci importa sapere quali siano stati i fattori specifici della transazione che hanno portato alla ricucitura. Ciò che ci interessa sono le inevitabili implicazioni sul piano dei comportamenti di piazza che tale ricucitura comporta e, soprattutto, del programma politico ad essi sotteso.

Per quanto riguarda i primi sembrerebbe proprio che tutta la litania sulla non-violenza, inanellata negli ultimi tempi da Rifondazione, un risultato almeno lo abbia ottenuto: quello di indicare alla “parte più avanzata del movimento” il limite oltre il quale i suoi comportamenti non si sarebbero dovuti spingere, essendo tale limite costituito dalla spettacolarizzazione concertata dello scontro (pratica tra l’altro particolarmente congeniale agli indisciplinati sodali di Rifondazione, avendola inventata proprio loro, non senza risibili escursioni psicanaliticheggianti nel campo del simbolismo catartico). Per quanto riguarda il programma, al di là delle allucinatorie teorizzazioni in salsa filosofico-sociologico-antropologica, questo è di una semplicità disarmante: farsi rappresentanza politica di una presunta nuova composizione di classe, illusoriamente egemonica, il “precariato” e il “cognitariato” (due modi di manifestarsi dell’identico “ircocervo sociopolitico” inventato dal tardoperaismo nostrano, oggi assai accreditato anche alla corte di Bertinotti: l’intellettualità di massa!), per portarne le rivendicazioni “nel palazzo”. Il tutto per ottenere un cospicuo reddito di cittadinanza (più servizi gratuiti da aggiungere a piacere), in grado di assicurare la cosiddetta flexicurity, che starebbe per flessibilità più sicurezza.

Non vogliamo entrare nel merito dell’allucinata infondatezza dei presupposti teorico-analitici di tutto ciò, avendolo fatto fin troppe volte. Vogliamo solo sottolineare che tale “concezione programmatica” finisce di fatto per cadere nel vecchio feticismo dello stato, misteriosamente capace, in quanto presuntivamente super partes rispetto allo scontro di classe, di concedere ciò che i lavoratori non sono in grado di ottenere nello scontro diretto con il capitale (in fin dei conti non ci siamo spostati un gran che dal Programma di Gotha che Marx criticava, tra l’altro, perché pretendeva di far sorgere l’organizzazione socialista del lavoro complessivo “dall’assistenza dello stato”). In sintesi, tutto si tiene, alleanze elettorali, programma e comportamenti di piazza. L’illusoria metamorfosi della “robaccia inutile” (partiti e istituzioni), realizzata attraverso la contaminazione dei movimenti, finisce per confermare in toto la sua funzione. Perché allora meravigliarsi se il “movimento dei Disobbedienti” rimane succube del gioco elettorale, dal momento che proprio da questo dipendono le sue magnifiche sorti e … progressivamente esodanti?

4. Cercasi autonomia progettuale (II): domani è un altro giorno e si vedrà …

Più complessa si fa la valutazione a proposito di altre forze interne al movimento, con particolare riferimento alla Confederazione Cobas (che è l’unica componente del sindacalismo di base effettivamente da sempre interna, a pieno titolo, all’ondata di mobilitazioni di massa, sollevatasi col vento di Seattle). Essa è sostanzialmente estranea ai fantasmagorici “nuovismi” che abbiamo appena individuato come possibile giustificazione di stravecchie sudditanze elettoralistiche. Il problema, per quanto li riguarda, sembra piuttosto quello di una sostanziale afasia rispetto ad una progettualità che vada oltre la resistenza del giorno dopo giorno. E’ ovvio e comprensibile che in questo atteggiamento pesi l’inerzia di un’organizzazione sindacale, comunque cospicua, i cui equilibri interni e la cui coesione a livello di tesserati potrebbe essere messa drammaticamente a rischio da un forte protagonismo politico (fuori dei denti, uno dei problemi più grossi che non di rado si trovano a dover “avventurosamente” gestire è quello della seconda tessera di molti loro iscritti: quella di Rifondazione). Pur con tutta la comprensione per quest’ordine di difficoltà, la cosa più pertinente da dire è hic Rhodus hic salta!

La Confederazione Cobas nacque con l’esplicito ambizioso progetto di tenere insieme la conflittualità sindacale e l’antagonismo politico. Finché il panorama fu caratterizzato dall’atomismo sociale e dalla passività politica, era perfettamente comprensibile la tendenza a concentrarsi prioritariamente sul lavoro di tipo sindacale. Ma ora le bocce sono di nuovo in movimento, su scala planetaria, dall’iniziale insorgenza zapategna e poi definitivamente con Seattle, s’è andato riaprendo un nuovo ciclo di conflittualità sociale che ha spezzato l’inerzia plumbea seguita alla sconfitta degli Ottanta. Un’organizzazione politico-sindacale di base si trova dunque ora di fronte ad una duplice sfida: quella di relazionarsi alla conflittualità sui posti di lavoro che in Italia, sulla scia degli autoferrotranvieri e di Melfi, inizia nuovamente a manifestarsi con una certa intensità, e quella di intercettare l’effervescenza sociale che si esprime nella partecipazione agli appuntamenti metropolitani sui grossi temi di ordine “generale” veicolati dal “movimento”. Ovviamente non si tratta di due fenomeni separati, ma di due differenti manifestazioni di un unico processo di riattivizzazione del sociale, che si influenzano reciprocamente e che in certa misura si intrecciano, ed è ormai consapevolezza diffusa che la rinnovata conflittualità sui posti di lavoro sia alimentata dal protagonismo delle nuove generazioni, così come dalla pratica mobilitativa di massa riapertasi sul terreno dell’etica e dei diritti (alla pace, anzitutto, ma anche al reddito, alla casa, ai servizi ecc.).

Noi riteniamo che finché questi due “universi semantici” non si identificheranno in un progetto comune non si riuscirà a superare i limiti fin qui manifestati sia dal “movimento” che dalle rinate lotte operaie. E proprio favorire questo processo dovrebbe essere il compito di un’organizzazione politico-sindacale. Chiediamo troppo? Forse. Forse la spontaneità proletaria bypasserà completamente le organizzazioni esistenti, nel suo processo di autonoma ricomposizione. O forse, prima di vedere compiuto questo processo di ricomposizione dovremo attendere ancora a lungo.

In ogni caso se i Cobas non proveranno almeno ad assolvere a questo compito, rimarranno a vivacchiare in mezzo al guado, offuscati politicamente da strutture più potenti come Rifondazione o più snelle e spregiudicate come i Disobbedienti, e messi in ombra sindacalmente da organizzazioni più strutturate come, nel migliore dei casi, altre sigle dello stesso “sindacalismo di base” (fra l’altro, più linearmente coerenti nell’assolvere al tran tran di un vertenzialismo economico volutamente afasico sul piano di un progetto politico ancora una volta delegato a dinamiche organizzativistiche assolutamente “esterne” ai processi di autonoma ricomposizione politica della classe), o anche la stessa Fiom, che parrebbe tuttora orientarsi in termini abbastanza “elastici” rispetto alle dinamiche confederali (velocemente emendatesi dell’improbabile “radicalizzazione” - ?!? - subìta dall’ultimo Cofferati).

5. Le elezioni europee e il “movimento”.

Alla luce di quanto detto sin qui, e ovviamente senza ritenere centrali e/o determinanti le dinamiche delle kermesse elettoralistiche, i risultati delle elezioni europee meritano alcune considerazioni.

Il primo dato da cogliere riguarda l’insuccesso del “listone” «Uniti per l’Ulivo», nel quale si sono raccolte le forze “riformiste” dell’Ulivo, vale a dire … la “destra del centrosinistra”. L’insuccesso sembra aver penalizzato proprio chi ha deciso di rompere anche quei residui (e assai fittizi) rapporti con il “movimento”. Rottura testimoniata, da ultimo, dall’aver deciso di risolvere le abituali farraginose incertezze sulla posizione da tenere in merito alla guerra in Iraq, accettando la presunta svolta filo-Onu e conseguentemente chiamandosi ufficialmente fuori dal corteo anti-Bush del 4 giugno. Dopo avere nei mesi precedenti ostentato la propria estraneità dalle lotte sociali, anche da quelle a più ridotto tasso di conflittualità (come nel caso dei comitati per il tempo pieno, nella scuola pubblica), e senza mantenere aperto, anche solo opportunisticamente e strumentalmente, un qualche canale di comunicazione con quelle, l’Ulivo prodiano ha dunque deciso di rivendicare esplicitamente la propria estraneità da ogni mobilitazione non immediatamente ricomponibile entro un quadro “riformista”, ovvero non immediatamente riconducibile alle compatibilità economiche date. Insomma, baldanzosamente rampognante rispetto alla rinnovata conflittualità sui posti di lavoro, l’Ulivo ha superato definitivamente la fase del “cofferatismo” (avendone prestamente riaddomesticato il pur involontario artefice, nella riconquistata municipalità bononiense) ed ha fatto un deciso passo indietro anche rispetto alla pratica mobilitativa del “movimento no-war”. Vista anche la sequenza degli accadimenti, appare arduo non cogliere il diretto collegamento tra questo chiamarsi fuori e il deludente risultato elettorale.

Il secondo dato sembra discendere dal primo. Ciò che i partiti maggiori dell’Ulivo hanno perso è stato guadagnato dai partiti minori. La “sinistra del centro-sinistra” sembrerebbe infatti essere riuscita a raccogliere il consenso di alcuni settori “di movimento”. Un consenso estremamente frammentato, visto che in molti, dai Verdi ai Comunisti italiani e a Rifondazione, se ne sono avvantaggiati.

Un terzo dato è costituto dall’elevata affluenza alle urne: oltre il 73 per cento di votanti rappresenta non solo il valore nettamente più alto tra i 25 paesi dell’Unione Europea, ma anche una significativa controtendenza (soltanto italiana) al crescente scetticismo e alla sempre più evidente presa di distanza dal sistema rappresentativo. In questo senso, possiamo azzardare due considerazioni che possono contribuire a dare conto dell’elevato afflusso alle urne: la prima è il peso del “berlusconismo”. L’anomalia italiana rappresentata dall’instaurazione di un “regime soft”, incapace di dominare mediando e di stemperare i contrasti nell’eterna e inconcludente mediazione, ma che ha invece scelto di governare con la clava in mano, ha senz’altro costituito per molti una ragione per non ritenere del tutto inutile e ininfluente l’appuntamento elettorale; tanto più che questo era stato sovraccaricato proprio da Berlusconi di forti valenze politiche interne. La seconda considerazione è la crescente sfiducia, tanto più significativa qualora si consideri appunto la paura indotta da Berlusconi, verso il moderatismo “ragionevole” e “benpensante” dei partiti maggiori dell’Ulivo.

Le spinte mobilitative che hanno attraversato il paese in questo ultimo periodo (lotte sui posti di lavoro e pratica di massa sul terreno dei diritti) sembrano dunque almeno aver prodotto, più che un ulteriore distacco dalla politica istituzionale una partecipazione considerevole a quel rituale elettoralistico che ne “sostanzia” la cosiddetta rappresentanza democratica. Una partecipazione che sembrerebbe essersi tradotta prevalentemente in un voto di protesta contro Berlusconi, ma anche contro la sinistra moderata: come interpretare altrimenti la sua notevole frammentazione?

Un ultimo dato su cui vale la pena soffermarsi è costituito dalla buona affermazione di quelli che si sono proposti come candidati “di movimento”: Agnoletto e, soprattutto, Nunzio d’Erme. Nel primo caso siamo di fronte a un equivoco e a un vero e proprio circolo vizioso: la strumentale candidatura da parte di Rifondazione, in qualità di «rappresentante del movimento», di un portavoce del “movimento” che però era assurto a quel ruolo proprio perché di fatto sostenuto sin dall’inizio da Rifondazione stessa.

Il secondo caso, invece, offre interessanti indicazioni. Il «caso Nunzio», ovvero la difficoltà della dirigenza di Rifondazione a riconoscere piena legittimità politica alle numerose preferenze raccolte dal candidato dei Disobbedienti (assegnando a lui il seggo al parlamento europeo), ripropone infatti l’irriducibilità di una politica che si pretende “di movimento” alla politica rappresentativa e istituzionale, e ciò, paradossalmente, anche nel caso dei Disobbedienti stessi, per i quali quella politica gioca e si interfaccia, più o meno scopertamente, con la politica istituzionale, attraverso la ricerca di una propria presenza dentro “i Palazzi” – su scala non solo locale o nazionale ma anche europea – e di una partecipazione diretta e attiva alle organizzazioni partitiche: le regole implicite ma ferree che sovrintendono strutturalmente all’azione di un partito (verticalità dell’organizzazione, sovra-rappresentazione della maggioranza interna, sostanziale autonomia della leadership dai desiderata espressi dalla base) si pongono come ostacolo verso qualsiasi utilizzo del partito da parte di presunti e autonominatisi rappresentanti del movimento, al di là del fatto che questo utilizzo sia più o meno spregiudicatamente compromissorio.

Tornando a quanto detto in precedenza, “lo strano caso dell’onorevole D’Erme” – alias “il compagno Nunzio” - dimostra, con la chiarezza del caso esemplare, quanto sia scollegato dalla realtà il succitato auspicio di Toni Negri che un partito possa diventare mera <>, idonea a riverberare/trasporre la spinta dei movimenti sociali dentro le fatidiche “stanze dei bottoni” (indicazione a suo modo richiamantesi a quella “lunga marcia attraverso le istituzioni”, che un tempo sostanziò lo slogan “dentro e contro” di alcune componenti “sessantottine” e che il togliattismo aveva declinato con ben più esplicito cipiglio politicistico, nella classica formula del “partito di lotta e di governo”). Le regole che sovrintendono la vita di un partito sono infatti, al di là delle intenzioni dei singoli, assolutamente ferree, pena il cedimento delle strutture del partito stesso nel confronto competitivo con gli altri partiti. E ciò vale anche quando a tentare di “utilizzare il partito” sono i Disobbedienti, che pure con quelle regole sono ampiamente disposti a venire a patti, avendolo pure operativamente ed abbondantemente dimostrato in passato. Nessun uso di un partito istituzionale è possibile da parte del “movimento”, a meno che non si voglia bluffare, identificando il “movimento” con singoli, più o meno rappresentativi, “portavoce” e/o settori di ceto politico, o ci si voglia invece cimentare nella vexata quaestio del “farsi partito” del movimento stesso, cioè del suo autodeterminarsi come soggetto collettivo, capace di sedimentare propri organismi decisionali, ma non è questo il caso del Prc, non certo costituitosi dal basso come diretto strumento organizzativo dell’autonomia di classe, ma nato dentro il lento processo implosivo che ha sancito il dissolvimento dell’esperienza novecentesca del Comunismo terzinternazionalista.

6. La necessità di rilanciare la posta oltre la barricata dell’antiberlusconismo.

Dunque, a ben vedere, lo “strano caso” a noi non appare poi così strano. E’ solo l’ennesima conferma che il tentativo di incanalare il “movimento” verso una sponda istituzionale significa andarsi a ficcare in un vicolo cieco.

Ma ora che il berlusconismo sta mostrando la corda è probabile che la vera posta in gioco si faccia più chiara.

Il mandato di cui era stato investito “ufficiosamente” il Cavaliere, dal padronato nostrano, era quello di fare piazza pulita della “zavorra” concertativa che il precedente governo di centrosinistra si portava dietro, suo malgrado. Una zavorra che, per quanto sempre più leggera, era comunque ritenuta troppo ingombrante per un paese in evidente declino economico e industriale. Nell’ubriacatura neoliberista ci si era dimenticati del fatto che la concertazione sociale non era stata un’arbitraria invenzione, ma una politica funzionale al capitale per imbrigliare e depotenziare la contraddizione di classe che, nel modo di produzione capitalistico, esiste indipendentemente dalla volontà politica di chicchessia. Ora che l’oggettiva inestirpabile contraddizione di classe sta tornando ad essere soggettività consapevole, Berlusconi non è più funzionale a nessuno. Il regime soft del Cavaliere, infatti, potrebbe superare i suoi insuccessi solo minimizzando sempre più il connotato “soft”. Ma le cose stanno andando altrimenti. Non solo Confindustria, Bankitalia e la massoneria bancaria prendono le distanze da Berlusconi, ma anche l’elettorato più moderato l’abbandona a favore dei suoi più ragionevoli alleati e qualcuno già sta pensando alla rinascita della balena bianca democristiana. Nel frattempo l’elettorato più incarognito gli preferisce la Lega in cui le istanze più regressive si possono esprimere con piena libertà.

E’ la fine del Cavaliere? E’ presto per dirlo, ma le crepe nel suo circo di nani e ballerine si sono fatte profonde ed evidenti, mentre la spinta delle contraddizioni enormi che si stanno aprendo su scala mondiale e che alimentano il “vento di Seattle” impensierisce assai i “padroni del vapore”. Anche da qui, dunque, il tempistico riapparire di quella “questione morale” di berlingueriana memoria, intuibile dietro la cosiddetta emergenza democratica cavalcata dal girotondismo, o anche l’interessata attenzione verso il “movimento” da parte della “sinistra del centrosinistra” con le sue velleitarie costruzioni di ircocervi itituzional-movimentistici.

Se le vicende italiane proseguiranno lungo i binari che si stanno delineando, a gestire questa difficile fase dovrà essere il centrosinistra. A questo punto emergerà indubitabilmente che il vero nemico non è Berlusconi, un’anomalia italiana che porta al parossismo le caratteristiche di una fase presente a livello internazionale, ma l’Ulivo e le sue appendici “di sinistra”, nuovamente chiamati a garantire gli interessi del residuo capitale italiano.

L’Europa che sta nascendo nell’ambito dell’attuale e sempre più acuto scontro interimperialistico è l’Europa dei capitali e della tutt’altro che democratica burocrazia di Bruxelles. Il Vecchio Continente non sarà certo berlusconiano, ma avrà l’imprinting della pallida socialdemocrazia e/o del compassionevole partito popolare, cosa che, allo stato delle cose, non fa grande differenza e meno che mai in Italia, dove i due filoni politici sono compresenti nell’Ulivo. In questo contesto la preoccupazione di chi governerà non sarà certo quella di accordare un reddito di cittadinanza, ma di amministrare un conflitto di classe minimo garantito, laddove le garanzie saranno offerte a tutto vantaggio del capitale, affinché il conflitto sia mantenuto, appunto, entro margini ridotti al minimo possibile.

Su questo crinale, dunque, il “movimento” dovrà saper rilanciare la sua opzione per un altro mondo possibile e necessario, rilanciando la posta ben oltre la barricata dell’“antiberlusconismo”, sul terreno di una coerente critica teorico-pratica di massa contro Monsieur le Capital e contro gli imbonitori di un suo qualche imbrigliamento giuridico-formale dentro un’improbabile quanto mistificante ipotesi “neosocialdemocratica”.

20 giugno 2004

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La redazione di Vis-à-Vis
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