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Presidenziali egiziane: tutto il vecchio vestito di nuovo

(17 Maggio 2012)

zabalen

Nelle presidenziali egiziane c’è un pezzo di propaganda che ha contorni occidentali, potremmo dire italiani. Se la vigilia del voto accomuna le promesse populiste di ogni latitudine il refrain ossessivamente ripetuto da Ahmed Shafiq, il candidato graziato dalla severissima (per altri) Suprema Commissione Elettorale, “l’Egitto per ognuno” riecheggia un po’ “l’Italia che amo” e il “Meno tasse per tutti” di berlusconiana memoria. Il confronto può sembrare azzardato, non prendiamolo alla lettera ma cerchiamone spunti proprio nella demagogia che gli fa da contorno. Berlusconi del 1994 irrompeva sulla scena politica presentandosi come un’assoluta novità, ed era tale nella formula adottata e nell’immaginario diffuso non nell’origine della personale scalata al potere. Preparata all’ombra del mai negato padrinaggio craxiano, prima quello economico-tangentizio e dopo la caduta del suo mentore anche politico-rappresentativo. Pure chi, magari in buona fede, l’ha sostenuto con gli anni ha constatato che si trattava di un’operazione di make-up. Un rilancio, col volto falsamente efficientista, del sistema consociativo che aveva guidato l’Italia dall’inizio dei Sessanta. Un bluff mascherato da novità che continuava a somministrare clientele e lottizzazioni, collusioni o diretti legami con la malavita organizzata, insomma il peggio di quanto democristiani, socialisti e valvassini vari avevano proposto nella penisola sin dal secondo dopoguerra. Peggio perché elevato al quadrato dalla boria dell’impunità.
Un uomo come Shafiq, che peraltro s’era già speso in favore del regime di Hosni Mubarak, suggerisce un mantenimento del passato celato dietro slogan futuribili, rivolti all’Egitto del domani ma intenzionati a mantenere lo status quo. Anziché corroborare le finanze nazionali e disporre una più equa distribuzione della ricchezza attraverso investimenti e lavoro il suo programma fa muro a favore del ceto del grande capitale al quale pochi come lui appartengono. In verità ogni sponda politica e credo religioso ha i suoi tycoon: Al-Shater fra gli islamici e Sawiris fra i copti sono ricchissimi imprenditori che non teorizzano soluzioni economiche di sollievo per una buona percentuale della popolazione povera costretta a vivere con nemmeno un dollaro al giorno. Una di queste è rappresentata dai famosi zabaleen (i mondezzai) inurbati nel sobborgo cairota di Mokkatam. Coi loro rappresentanti dicono che sognerebbero un nuovo Nasser ma in mancanza d’altro voteranno compatti per Shafiq. A chi gli fa notare il controsenso rispondono che una volta escluso dalla corsa Sawiris non possono che votare per l’atro riccone. Ne fanno una questione di fede: temono lo strapotere che l’Islam politico sta accumulando, non si fidano neppure di Abol Fotouh anzi qualcuno avrebbe scovato addirittura suoi giovanili compiacimenti jihadisti. Dunque l’antislamismo diventa un collante per minoranze religiose e per il fronte laico, come da noi era stato l’anticomunismo fuori tempo massimo di Forza Italia, per lo meno all’epoca dell’esordio elettorale.
Ma il sistema infallibile che vede i ceti più umili sottostare ai richiami dei potenti di turno sono le promesse (o i ricatti) legati al lavoro. Su questo terreno gli interessi di uomini come Shafiq e i pluridecennali vantaggi economici di chi veste la divisa si fondono e rendono questo candidato apertamente benvisto dalla Giunta Tantawi e in piena continuità col mubarakismo. In tal modo l’elettorato che può essergli favorevole s’amplia sensibilmente: non solo i militari (circa un milione fra effettivi e para) più i loro familiari ma il diffuso indotto che con la lobby delle stellette lavora sia attraverso i ministeri della Difesa e dell’Interno sia tramite le aziende cui i militari partecipano. E non sono poche, riguardano ceti rurali (impegnati nella produzione agricola e nell’allevamento), operai (industrie di costruzioni, attività estrattiva e di raffinazione), fasce commerciali (la variegata attività turistica con agenzie, hotel e resort). Conservare il lavoro o ottenerlo tramite la rete delle conoscenze è un elemento che può avere il suo peso nell’urna. Naturalmente il voto di scambio esisteva ben prima delle personalissime velleità politiche dell’imprenditore Shafiq o del cavalier Berlusconi ma dimostra sempre d’essere un’arma insidiosa ed efficace soprattutto per chi millanta d’essere il nuovo che avanza. Di quel che resta dopo l’esperienza vissuta, in genere ci si accorge a posteriori.

17 maggio 2012

Enrico Campofreda

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